Ciò che chiamiamo Dio è personale?

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Andrej Rublev, Trinità

CLAUDIO SOTTOCORNOLA

Qualche giorno fa, al termine della presentazione di un mio libro presso la Fiera dei Librai di Bergamo, uno dei presenti mi pose una domanda acuta e intelligente: “Come mai lei associa la perdita di rapporti umani nella nostra società alla perdita del senso del sacro?”. Sul momento osservai che se tale sacro è a fondamento del tutto, avrei anche potuto associarne la perdita del senso ai disastri ecologici e ambientali in atto, ma che – in quanto essere umano – la focalizzazione sull’umano e sulle sue relazioni mi sembrava prioritaria. Risposta forse ineccepibile ma che – a posteriori – mi accorgo non esaustiva.

Per svolgere meglio il mio pensiero in proposito occorre però prima accordarsi su cosa sia possibile o lecito dichiarare quando si parla di ciò che chiamiamo Dio. Io stesso avverto infatti una sottile e latente irritazione ogniqualvolta qualcuno, magari autorevole e istituzionale, mi ribadisce con la precisione di uno chef gli ingredienti di una esatta dottrina su Dio, di cui accampa solitamente l’esclusiva. E avverto che l’unico modo di parlarne adeguatamente è ammettere la propria condizione deficitaria rispetto all’oggetto evocato, proprio perché, come voleva San Paolo, “ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa…” (1Cor 13,12), ovvero la nostra condizione limitata, quando deve evocare il Fondamento del tutto, non può trattarlo come un ente fra gli altri enti, ma devo accostarlo come ciò per cui ogni cosa eventualmente è, pertanto come un sostrato in qualche modo essenzialmente trascendente la nostra portata.

La filosofia del linguaggio medievale aveva elaborato per parlare della nostra conoscenza in generale, estensibile in certo qual modo anche alla nostra nozione di Dio, la categoria degli universali, cioè di quei concetti con cui designiamo le cose, e si era spaccata sul loro significato e valore, fra nominalisti estremi (sarebbero solo suoni con cui richiamiamo alla mente l’esperienza delle cose), moderati (ce ne formeremmo il concetto mentale dall’esperienza delle cose), realisti estremi (tali concetti riflettono idee reali presenti nella mente divina) e moderati (riflettono una forma realmente presente nelle cose, che noi cogliamo astraendola da esse).

Se negli ultimi due casi la nostra conoscenza risulta pertanto attendibile, anche se limitata, poiché, in certo qual modo, fotografa le cose, ma non ce ne può restituire intimamente l’anima (esattamente come gli scatti fotografici non ci restituiscono la persona rappresentata, ma solo la sua immagine), nei casi del nominalismo estremo e moderato la nostra conoscenza ha più che altro un valore pratico e operativo, perché richiama alla mente le cose, senza che noi ne possiamo nemmeno evocare in alcun modo l’essenza. Tommaso d’Aquino, grande sintetizzatore medievale, conclude con una magistrale mediazione: gli universali sono nelle cose come loro forma, nella mente di Dio come loro origine, nella mente dell’uomo come concetto e parola corrispondente. Il suo è, alla fine, un realismo moderato, ma inclusivo.

Tommaso è anche il monumentale interprete di Aristotele, di cui cristianizza l’approccio empirico e laico alla conoscenza, e il più insigne ed enciclopedico esponente del pensiero medievale, di cui costituisce la summa, cui attingerà abbondantemente anche Dante per la sua Divina Commedia. Sarà proprio Tommaso a formulare quelle che per secoli sono rimaste le prove più accreditate dell’esistenza di Dio, formulate a partire dalla constatazione dell’esistenza del mondo (e quindi dette a posteriori), a differenza di quelle cartesiane che ne prescindono (dette perciò a priori). Conosciute come le cinque vie, esse partono dalla constatazione di un aspetto del reale – il movimento, la causalità, la contingenza, i gradi di perfezione esistenti e il finalismo universale – per affermare che esso non si spiega se non in relazione a un principio o fondamento originario, che permetta pertanto di non violare il principio di non-contraddizione con la sua negazione. Ad esempio, se qualcosa è solo possibile e non necessario, dunque contingente, esso non ha in sé la sua ragion d’essere, e deve dunque averla in altro, che non può avere le medesime caratteristiche di contingenza semplicemente duplicate, ma deve in ultimo possedere i caratteri della necessità, e questo è ciò che chiamiamo Dio.

La maggior parte del pensiero che segue cronologicamente all’esistenza del filosofo scozzese David Hume (XVIII sec.) applica pedissequamente la sua critica al “concetto di causa” alle prove tomiste dell’esistenza di Dio, screditandole come inattendibili.  Secondo Hume infatti si dovrebbe constatare la reiterata successione spazio-temporale di due fenomeni piuttosto che stabilirne un rapporto di causa ed effetto (il quale significa soltanto la nostra aspettativa di vedere tale successione). Orbene, se a Hume va senz’altro ascritto il merito di averci resi assai più prudenti nello stabilire la connessione tra i fenomeni, tanto che oggi essa viene formulata probabilisticamente, anche in ambito scientifico, ciò nulla toglie al principio più generale, e metafisico, per cui l’essere non può venire dal non-essere e, dunque, ciò che incomincia è causato, dove la causa non è relativa a eventi sequenziali, ma a relazioni di dipendenza simultaneamente esistenti, così da arrivare a una causa prima in una gerarchia, che appunto potremmo chiamare Dio.

Una volta eventualmente dimostrata l’esistenza di Dio, entro il quadro dei famosi preambula fidei razionalmente prodotti, è per Tommaso allora credibile che egli possa manifestarsi, rivelarsi, persino incarnarsi: se Dio esiste, e se gli si può attribuire la somma perfezione, proprio a partire dalla gradazione delle perfezioni esistenti in natura, allora egli vorrà nella sua benevolenza manifestarsi all’uomo e, in qualche modo, parlargli… Ecco dunque acquistare una qualche forma di almeno virtuale attendibilità la categoria di Rivelazione, che è ovviamente per Tommaso univoca – si tratta di quella cristiana – ma che in un’ottica contemporanea più possibilista e inclusiva potrebbe aprirsi a un maggior pluralismo delle esperienze storiche e spirituali.

E nel quadro di tale virtuale comunicazione, potrebbe aiutare l’approfondire, entro la pista culturale ebraico-cristiana, proprio il tema della Parola biblica, che non si limita mai a dichiarare ma è – sempre – anche un’azione, dunque un dire efficace che coincide col creare. Essa si svolge e produce nel tempo la presa di coscienza di un popolo, che legge nella propria storia l’alleanza di una trascendenza quasi ossessiva nella sua fedeltà, riconoscendone tuttavia la dimensione salvifica e liberante, alla fine quella di un Dio che si coinvolge a tal punto da incarnarsi nello stesso essere umano, dichiarando un’affinità che, a quel punto, non può che essere personale, entro una forma di relazione nuova e definitiva.

Tutto il cristianesimo, nato peraltro come espressione dell’ebraismo, altro in fondo non è che questo lucido, controverso, aporetico enigma: la coincidenza dell’umano e del divino, entro un’alleanza fondata sulla relazione personale o, meglio ancora, sull’affinità personale fra Dio e l’uomo, tanto che da questo si può e si deve risalire a quello. È per ciò che tale esperienza spirituale si focalizza proprio sulla persona di Gesù, il Cristo, come icona della divinità, e ritiene legittimo traslarne i lineamenti a definire in ultimo il volto stesso di Dio, amorevole, mite, misericordioso: “Chi ha visto me, ha visto il Padre!”, chiosa infatti il Vangelo di Giovanni (14,9)…

Ma tale passaggio dalla persona umana alla eventuale somiglianza o identità personale con Dio, e pertanto alla inferenza di personalità in Dio stesso, a noi sembra che vada rintracciato e motivato – oltre che in riferimento alla specifica esperienza storico-sapienziale cristiana, strutturale alla nostra civiltà e cultura – anche e soprattutto in una argomentazione non scritturistica ed esistenziale, ma filosofica e speculativa, che eventualmente lo fondi, laddove risulta originario all’esperienza ontologica che facciamo del reale il principio di personalità, che appare pertanto proprio come costitutivo e riassuntivo della realtà nella sua forma compiuta. E si potrebbe riandare, per esemplificare, alla teoria delle monadi di Leibniz, come centri propulsori di unità e di mondi, ma anche come, in certo qual modo, proiezioni dell’identità divina stessa, sfaccettata negli infiniti riverberi che restituiscono sguardi diversi e consapevoli di Dio sul mondo all’atto della creazione. Il che è fantastico! Perché allora il mondo ne appare intessuto come una sorta di polifonica epifania, mentre ogni coscienza ne risulta conseguentemente una risonanza, e se la coscienza ha dei gradi, forse un qualche principio di personalità attraversa nonché il mondo animale, anche quello vegetale e persino ciò che crediamo inanimato, ed ha invece in sé una infinita energia che lo muove.

Insomma, ciò che il cristianesimo chiama Cristo-Logos e codifica come seconda persona divina, sarebbe proprio la filigrana personale che attraversa l’intero universo differenziandosi in infinite persone, come specchio tuttavia della natura personale del principio stesso. E tale principio personale sarebbe potenzialmente all’opera della propria virtuale generazione a partire dalla più infima particella di materia, secondo gradi differenti di energia e consapevolezza, tutti però cooperanti al medesimo fine, ovvero una sorta di glorificazione del comune principio personale divino. Non sembra infatti coerente pensare al mondo come attraversato dalla vocazione alla personalità se non si inferisce da tale constatazione che ciò che ne è a fondamento, ovvero ciò che chiamiamo Dio, non ne sia in qualche modo originariamente coinvolto.

A tal proposito, scrive Vito Mancuso in “Dio e il suo destino” (Garzanti, 2015): “In realtà, se intendiamo persona non come individuo ma, secondo quanto suggerisce l’etimologia, come capacità di relazione, come ruolo, come polo in grado di istituire un rapporto, tale termine può essere attribuito a Dio. Anche perché noi siamo persone, e se noi siamo in Dio è chiaro che anche Dio contiene la capacità di essere persona, coscienza, spirito, intelletto, volontà: ‘volontà etica’, direbbe Albert Schweitzer. Occorre quindi dire che Dio contiene la possibilità di manifestarsi come persona” (pp.409-410). E cita il grande scienziato Werner Heisenberg, Premio Nobel per la fisica nel 1932 e padre del principio di indeterminazione che, a tal proposito, così si espresse in una conversazione fra amici scienziati: “Direi: è possibile raggiungere l’ordine centrale delle cose o degli eventi, la cui esistenza si direbbe al di là di ogni dubbio, con la stessa immediatezza con cui si può raggiungere l’anima di un altro essere umano? Ho impiegato il termine anima deliberatamente, in modo che non sorgano equivoci. A una domanda del genere risponderei di sì” (p. 410). Il che è fantastico! Perché allora il mondo appare intessuto di questa relazionalità originaria, e personale, come una sorta di polifonica epifania, ogni coscienza ne risulta conseguentemente una risonanza, e se la coscienza ha dei gradi, forse un qualche principio di personalità attraversa nonché il mondo animale, anche quello vegetale e persino ciò che crediamo inanimato, ed ha invece in sé una infinita energia che lo muove orientandolo nella direzione di quella libertà che ha nella coscienza razionale  la sua più alta manifestazione.

Dunque, posto che l’essere persona ha come caratteristiche peculiari e irrinunciabili intelligenza e volontà, da cui scaturisce il carattere libero della sua più intima natura, la chiave di lettura dell’intera realtà appare allora proprio tale libertà, come culmine della relazionalità universale, il cui fondamento ultimo consiste in Dio stesso, così considerato. E non a caso il grande teologo indo-catalano Raimon Panikkar ha sviluppato in proposito una riflessione relativa al mistero di Dio come Trinità, intrecciando la grande tradizione teologica cristiana con una profonda conoscenza della tradizione induista, ma anche della filosofia occidentale, arrivando a formulare il concetto di Trinità radicale: “Non c’è che Dio, un Dio che, in quanto ‘Io’ assoluto, ha un ‘Tu’ eterno che gli è uguale e che, tuttavia, non è un secondo ‘Io’, (che) è sempre un ‘Tu’. Questo Tu è il Figlio, è il Cristo totale che comprende cielo e terra. Tutti gli esseri partecipano di ciò che sono essendo uno con lui, con il Figlio. Tutto quanto esiste, cioè tutta la realtà, non è che Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo. Tutto quanto esiste non è altro che Brahman in quanto sat, cit e ananda, in quanto essere, coscienza e beatitudine. Sat in quanto fondamento stesso di tutto ciò che, in un modo o nell’altro, costituisce l’‘essere’. Cit in quanto vincolo spirituale o intellettuale che avvolge e penetra tutta la realtà, ananda in quanto pienezza perfetta che riceve in se stessa e ispira tutto ciò che tende a lei” (R. Panikkar, Il Cristo sconosciuto, 1994).

Tale concetto di Trinità radicale toglie dall’isolamento la considerazione dell’essenza divina, per integrarla alla vita dell’intera realtà universale. Così, se la triade “Padre-Figlio-Spirito corrisponde a quella che la teologia cristiana chiama Trinità immanente, l’interiorità divina; Dio-Uomo-Cosmo corrisponde a quella che la teologia cristiana chiama Trinità economica, la relazione di Dio con il mondo e con l’uomo (La pienezza dell’uomo, 1999). Trinità radicale, quindi, significa che la Realtà tutta è una relazione trinitaria. La concezione trinitaria non si esaurisce in una realtà divina posta sopra il mondo in un dualismo insalvabile, ma abbraccia tutta la realtà esistente che viene chiamata realtà cosmoteandrica” (Trinità radicale, in raimon-panikkar.org). Argomenta ancora Panikkar: “Dio, Uomo e Mondo non sono uno, né due, né tre. Non esistono tre cose e nemmeno una sola cosa. C’è una relatività radicale, un’irriducibile interconnessione tra la Fonte di ciò che è, ciò che È e il suo Dinamismo; Padre, Figlio e Spirito Santo; il Divino, l’Umano e il Cosmico; la libertà, la coscienza e la materia…” (R. Panikkar, L’esperienza di Dio, 1998). E ancora: “L’integrazione dell’avventura trinitaria di tutta la Realtà non sminuisce né la trascendenza divina né la diversità tra Dio e il Mondo, così come l’unità trinitaria non elimina la differenza tra le persone divine” (R. Panikkar, Trinità ed esperienza religiosa dell’uomo, 1989).

Tale concezione trinitaria radicale rafforza allora ancor più la considerazione di ciò che chiamiamo Dio come vita personale, relazionale e comunionale, intimamente associato all’avventura cosmico-antropica. Ne segue una condizione di straordinaria partecipazione dell’umano al divino, ma anche un radicale e incondizionato coinvolgimento del divino nell’umano – ambito di mediazione universale –, che dovrebbe responsabilizzarci nella peculiarità dell’impresa di esprimere una relazionalità trasfigurante, attuazione della nostra più intima essenza e, in essa, di quella pienezza trinitaria che esprime amore personale al suo più alto grado.

 

(Immagine tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/Trinit%C3%A0_(Andrej_Rubl%C3%ABv)#/media/File:Angelsatmamre-trinity-rublev-1410.jpg)