38. A furia “de masnà”

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DINA TORTOROLI

Il professor Cazzaniga, nel capitolo settimo del saggio La religione dei moderni (p. 162), chiamando nuovamente in causa la Memoria concernente una associazione riservata… del fratello Arcesilao,  introduce una sua considerazione con le seguenti parole: «Al di là di paternità e datazione effettiva del testo».
Potrebbero aiutare la ricerca di paternità e datazione effettiva alcune considerazioni.
La più importante riguarda il fatto che,  parlando di “coloro che avevano voluto solo rimediare ai mali del presente”, ma si erano lasciati “trascinare al di là della direzione verso cui miravano”, il Fratello Arcesilao ricorre a parole che si attagliano perfettamente ai comportamenti dei deputati del Terzo Stato, deplorati nel Saggio, intitolato dal Manzoni La Rivoluzione Francese del 1789 e la Rivoluzione Italiana del 1859.
Per ora, può bastare un esempio: «I deputati del Terzo Stato, abusando dei vantaggi che dava loro l’essere i rappresentanti della grandissima parte della Nazione, e non rispettando i limiti in cui quella medesima parte aveva circoscritto il loro incarico, [si attribuirono] con un pretesto qualunque, un’autorità suprema che essa non aveva neppure sognato di conferir loro».
Trent’anni fa, nel primo resoconto della mia inchiesta*, avevo definito quel Saggio un testo rivelatore, che mi autorizzava ad apporre al teorema Imbonati la formula q.e.d.: quod erat demonstrandum.
Ora potrei ripetere le mie argomentazioni di allora, ma è bene che, prima di me, parlino due studiosi di professione: Luigi Weber, come autore del libro intitolato  Due diversi deliri / Manzoni storico dei fatti della peste e della Rivoluzione francese, il cui quinto capitolo –  ragguardevole interpretazione della cosiddetta “Prima parte” del Saggio sulla Rivoluzione francese – è pressoché integralmente leggibile on line, nella rivista Bibliomanie**, e il curatore del volume 15 dell’Edizione Nazionale ed Europea delle Opere manzoniane, Luca Danzi, cui spetta il merito di aver scandagliato il modus operandi di Manzoni: una impensabile, esasperante “modalità operativa”***.
Pertanto, avvalendomi delle informazioni fornite dal secondo, potrò poi “dialogizzare” con le più notevoli affermazioni del primo (talora potenziate da citazioni di suoi autorevoli colleghi), che trascrivo dall’articolo on line:
(p. 3)  «Ennesima opera frammentaria, ennesima opera pluriennale, il Saggio sulla Rivoluzione francese del 1789… è probabilmente l’ultimo capolavoro manzoniano… negletto e dimenticato non in virtù della sua  uscita largamente postuma o della sua condizione di non finito (al quale in realtà non occorre una sola parola di più), ma perché più che in ogni altro luogo qui egli si dimostra inattuale. Inattuale già rispetto al suo tempo…
Manzoni si dedica al suo studio dal 1862-63, al 1867 e di nuovo dal 1869 al 1871;
(p. 4)  «[Manzoni]  osserva da distanza minima un embrione nella sua crescita, solo per pochi mesi, e tuttavia ci mostra che quell’embrione contiene già tutto il corredo genetico dell’adulto che sarà. Peraltro, rispetto alle sue fonti, anch’esse molto selezionate, Manzoni produce qualcosa che somiglia a un commento interlineare: ribatte parola su parola, le setaccia e le saggia una per una, le parole».
(pp. 4-5)  «Ecco, se si volesse ragionare in maniera ingenua e quasi per tentativi appunto sulle “fonti” manzoniane, naturalmente si sarebbe tentati di risalire alle opere magne del XIX secolo [di Thiers, Lamartine, Michelet, Tocqueville], e tuttavia si scoprirebbe presto che Manzoni non li cita…
Ma in definitiva l’anziano Manzoni che da un’intera vita coabita con il pensiero e fors’anche con il fantasma della grande rivoluzione, della sua incerta gloria e del suo certissimo sangue, preferisce piuttosto attingere direttamente ai documenti dell’epoca, soprattutto alle cronache del Moniteur e alle memorie dei protagonisti della fase assembleare e protorivoluzionaria: il  ministro Necker, il maire Bailly, l’abate Sieyès con la sua “metafisica”, il conte di Mirabeau, ritratto a tinte giustamente fosche, i deputati Mounier, Mallet du Pan, Mortimer Ternau, il Guarda Sigilli Barentin, e ancora Rabaut-Saint étienne, il conte Lally-Tolendal, il barone Besenval, e numerosi altri»;
(p. 5)  «Pur scrivendo quasi ottant’anni dopo gli Stati Generali, Manzoni non si serve di nessun altro intermediario; il corpo a corpo con la Rivoluzione è qualcosa che attende (o a cui attende) da tutta la vita. E di conseguenza si muove entro il labirinto dei fatti e dei tempi con una disorientante disinvoltura, quasi che tutti i suoi lettori possedessero il suo medesimo grado di conoscenza»;
(p. 6)  «È difficile, inutile negarlo, giudicare di un’opera che non fu finita, e neanche mai prossima a vedere la fine… e nondimeno occorre farlo, sia per le dimensioni cospicue di detta opera, sia per la sua spiccata e originale personalità, che non si altera in modo significativo fra la prima e la terza stesura a noi pervenute»;
(pp. 6-7 e 14 ) «Così, due son gli aspetti che crediamo sarebbero rimasti inalterati, vale a dire la volontà autorale di rinvenire tutta la Rivoluzione contenuta (e di seguito solo inverata) nei cruciali primi atti degli Stati Generali, dei Comuni e dell’Assemblea e l’ostinata decisione di esporre i fatti casuali, e di considerarli dal solo lato del diritto (corsivo nostro). Nel caso paresse programma da poco, occorre invece insistere che no, non lo è affatto, e da tale –  naturalmente parziale, parzialissima, ma dichiarata – ipotesi di lavoro, il Saggio ricava la sua peculiare identità e il suo maggior interesse. Una rivoluzione, La Rivoluzione, considerata dal solo lato del diritto: impossibile? Manzoni è questo che prova a fare» (Nota12): «Nessuno prima di Manzoni aveva dipinto con altrettanta penetrazione e precisione da costituzionalista raffinato e con pari efficacia, gli effetti devastanti dell’improvviso scontro, nella Francia dell’89, di due opposti princìpi di sovranità, l’uno dei quali (il principio “nazionale”) riesce d’un colpo a fiaccare mortalmente l’altro (quello “monarchico”) ma non a sostituirglisi, così da garantire con le sue forze il mantenimento dell’ordine pubblico, cfr. Giovanni Bognetti… »;
(p. 8)  «Manzoni combatte per l’ultima volta nella sua lunga vita una battaglia di minoranza, qualcosa che caratterizza tutto il suo percorso di intellettuale che scrive di storia, qualcosa che avevamo già incontrato nel Discorso sur alcuni punti della storia longobardica in Italia, nelle Osservazioni sulla morale cattolica, e soprattutto nella Storia della Colonna infame: osa armare il possibile etico, logico e giuridico, contro il reale effettuale, mobilitando il dover essere contro l’esser stato, e soprattutto studiando, come ben osserva Giuliani, dov’è che gli uomini “inventano l’inevitabile”. Che diventa tale, per l’appunto, ossia inevitabile, non dopo essere avvenuto, bensì solo dopo esser stato inventato»;
(pp. 8-9)  «In estrema sintesi, si afferma che Manzoni nel Saggio sulla Rivoluzione francese del 1789 tenta di dimostrare l’assunto secondo il quale la Rivoluzione non era necessaria, e che non vi fu distinzione o discontinuità tra un nobile Ottantanove e un perverso Novantatrè; scagliandosi insomma contro la tesi dei cosiddetti due tempi, molto cara a numerosi storici soprattutto ottocenteschi».
(p. 9)  «La prima caratteristica che dovrebbe imporsi agli occhi di un lettore è che questo racconto della Rivoluzione è un racconto prevalentemente in interni, e perfino di carte: un dramma parlamentare, burocratico, cancellieresco quasi, un dramma di parole, di dichiarazioni, di interpretazioni tendenziose o miopi, di informazioni distorte, di metafore prese in senso letterale, di tradimento del senso prima ancora che degli uomini, delle classi, delle istituzioni»;
(p. 11) «A Manzoni interessa… la snervante discussione intorno alla verifica dei poteri, l’impotenza e l’annaspare nel vuoto di potere dell’Assemblea nel decidere anche di fatti minimi, quando la sua autorità e quella regale sono già irrevocabilmente divorziate; il dissidio dell’unico Martin d’Auch, che volle esser inserito come opposant al giuramento della pallacorda; gli interessano le parole abusate, i significati rovesciati, le voci infondate o incontrollate… e ancora le incredibili cecità connivenze o opportunismi di uomini che non potevano non sapere, non capire, non vedere, e che non seppero non capirono non videro, spesso nemmeno quando a loro volta salirono sulla carretta fatale che li portava al patibolo».
(p. 12) «Anche l’apparente prossimità, o addirittura filiazione diretta, tra la Dichiarazione di Indipendenza Americana e la Dichiarazione dei Diritti Universali dell’Uomo e del Cittadino viene smentita nel capitolo XI con un’analisi molto sottile e infine con una potente sintesi: “Il  congresso di Filadelfia parlava di eguaglianza di diritti tra i diversi popoli; non già, come l’Assemblea di Versailles, di eguaglianza tra gli uomini componenti uno stesso popolo; trattava di società formate, non di formazione di società. Negava la legittimità del predominio di un popolo sopra un altro, che era la sola cosa in questione. L’eguaglianza a cui alludeva era quella stessa che le colonie avevano già posseduta rimanendo unite alla madre patria, e che ormai non potevano più ottenere, che col separarsene  e costituire un nuovo Stato. Non era, come quella contemplata nella Dichiarazione francese, una eguaglianza di nuovo genere, soggetta ad interpretazioni, anzi bisognosa di interpretazioni, una eguaglianza da intendersi in un certo modo e non in un certo altro. La dichiarazione di Filadelfia proclamava una soluzione; quella di Versailles, colle stesse parole, proponeva un problema”».
(p. 1)  «Il Mounier conclude la sua giustificazione con questo argomento: “Perché noi fossimo in colpa, bisognerebbe che avessimo potuto prevedere con certezza tutte le circostanze che dovevano condurre i Francesi sotto il giogo della tirannia popolare”. No davvero. Sarebbe troppo iniqua la condizione dell’uomo se per discernere il diritto dal torto, ci fosse bisogno d’essere profeta (corsivo nostro). Confinato in un luogo meno che marginale, al fondo della lunghissima novantesima nota, questo passo, soprattutto con questa chiusa fortemente gnomica, esprime in nuce tutto il senso del vasto lavoro inconcluso di Alessandro Manzoni, il Saggio sulla Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859: il suo intendimento e la sua aporia. Di fronte all’evento inaugurale dell’età moderna, al più drammatico laboratorio storico-sociale degli ultimi due secoli, a un fascio di fatti così carichi d’avvenire, l’interrogazione sulle conseguenze dei propri gesti si pone come un crocevia ineludibile. E addita il dramma perenne della condizione umana, che è sospesa tra l’impossibilità di vedere il futuro, compreso quello contenuto nelle proprie azioni, e la necessità, oltre che il desiderio, di provare non diremo a divinarlo, bensì a produrlo. Con tutte le approssimazioni e gli errori del caso. Ciò che il Manzoni chiede ai suoi lettori, e a se stesso, e a ogni uomo degno di tale nome, è per l’appunto d’esser profeta senza il dono della profezia, di saper e voler distinguere il diritto dal torto, con uno strenuo sforzo di onestà intellettuale, di responsabilità e di chiarezza interiore, che gli individui tutti, e in special modo i detentori del potere, nonché coloro che si trovano nei pressi del potere, o sono desiderosi del potere,  ben di rado dimostrano di voler applicare ai propri atti».
Ho volutamente lasciato per ultima la citazione della prima pagina del saggio del professor Weber, perché resti impressa nella mente e nel cuore, durante la lettura della tormentosa vicenda di Manzoni, condannato da se stesso a “rifare, cioè a riformulare e soprattutto a ristrutturare il proprio discorso, senza pietà” (Luca Danzi).
Il professor Danzi fa la descrizione della metamorfosi nella Nota ai testi; ed è importante, nonostante sia arduo, esaminare i più notevoli argomenti in cui essa si articola, subito dopo l’esordio:
 (p. 307): «La presente edizione è frutto di una nuova ricognizione sui manoscritti oggi noti, tutti conservati presso la Sala Manzoniana della Biblioteca Nazionale Braidense di Milano.
Del primo e principale saggio, La Rivoluzione francese del 1789 si offre il testo ricostruito di una redazione base, classificata come la Seconda (= 2R). In Appendice si pubblica la redazione successiva, ricopiata in pulito e rimasta interrotta al cap. IV 21, classificata come la Terza (= 3R)…
La giustificazione complessiva delle soluzioni adottate è demandata a una futura edizione critica, entro la quale [troverà posto] quanto rimane di una frammentaria redazione anteriore, classificata come la Prima (= 1R), i rifacimenti e i fogli di scarto relativi alle tre redazioni, gli abbozzi della Introduzione, e la ricca serie degli appunti preparatorî».
Le precedenti edizioni, (p. 308): «Punto di partenza della diffusione del saggio La Rivoluzione francese fu l’edizione postuma, curata da Ruggiero Bonghi, con il determinante aiuto di Giovanni Sforza, per conto di Pietro Brambilla (Milano, Rechiedei,1889)…
Bisognerà attendere quasi cinquant’anni, perché il saggio manzoniano… fosse oggetto di un nuovo esame filologico. Michele Barbi, nel Piano per un’edizione nazionale delle opere di Alessandro Manzoni, con la collaborazione di Fausto Ghisalberti, si concentrò su due aspetti che Bonghi-Sforza avevano trattato superficialmente o cautamente evitato, il problema della datazione e la classificazione delle numerose carte, poi abolite dal Manzoni, che testimoniano il travaglio della scrittura.
Delle osservazioni filologiche del Barbi fece tesoro il Ghisalberti, che curò il testo, dopo la scomparsa del maestro, negli Scritti non compiuti di Alessandro Manzoni. Collazionando i manoscritti, il Ghisalberti poté correggere gli innumerevoli, gravissimi errori dell’edizione Bonghi-Sforza, fino alla definitiva messa a punto, avvenuta con l’edizione del 1963, dove si potevano leggere quasi tutti i frammenti autografi. L’impostazione del volume mondadoriano è però rimasta quella suggerita dal Barbi nel Piano, cioè quella predisposta da Bonghi-Sforza nel 1889… In sostanza, adottando la soluzione Bonghi-Sforza, approvata dall’autorità del Barbi, il Ghisalberti non seppe vedere i limiti strutturali della princeps del 1889 e non seppe porvi rimedio. Il suo testo non resiste all’accertamento dei manoscritti, e non può più essere accettato».
–  La Redazione base (2R), (p. 310): «La stesura che va considerata la redazione base tramanda il testo più esteso e completo… È mutila dell’incipit, essendo stata eliminata la prima carta, certo durante il rifacimento della Introduzione, per volontà dell’autore…
All’altezza della Seconda redazione, il saggio era dunque composto di una breve introduzione, che, oltre a una prima carta perduta, occupava le cc. 2(3)-3(6) a. A c. 3(6)b si ha l’intitolazione “Parte prima / Della Rivoluzione francese del 1789”, che tratta la materia relativa agli avvenimenti dei primi mesi, fino alla fine dell’agosto 1789. Non ho rinvenuto traccia dell’esistenza di una Parte seconda, se non nella intitolazione tardiva, aggiunta a matita rossa e poi cassata, di alcune carte distaccate dalla prima stesura della Introduzione. Segno che il progetto di abbreviare in maniera consistente la prima parte e di recuperare materiali esistenti per la seconda, non produsse un vero e proprio testo, ma rimase un’ipotesi appena abbozzata, tra le numerose che le carte suggeriscono.
La perdita della prima carta della 2R va messa in relazione alla profonda ristrutturazione subita dalla Introduzione, in cui il Manzoni decise di compendiare alcune idee prima dislocate in altri luoghi del testo, e che rappresentò un’importante novità. Pare comunque certo che la prima carta della 2R fosse sostanzialmente un rifacimento di c. (1)… appartenente alla Prima redazione… L’eliminazione della prima carta dovette avvenire durante la revisione che generò la 3R. Fu allora che l’introduzione si frammentò in molti tentativi di rifacimento, uno dei quali la dilatò oltre le venti carte… L’ordinamento archivistico non è un criterio sufficiente per la ricostruzione del testo, e oggi sappiamo che il Manzoni quando copiava rifaceva, cioè riformulava e soprattutto ristrutturava il proprio discorso, senza pietà».
–  La data di composizione, (p. 318): «Il testo base rispecchia una fase, la cui elaborazione si può collocare tra il 1863 e la seconda metà del 1867… La fine del 1867 rappresenta un limite invalicabile, secondo la convinzione di chi scrive… Ma, trascorso un anno e mezzo, la revisione non poteva limitarsi all’aspetto formale, e il saggio ne fu implicato a tutti i livelli. La scoperta di nuove fonti rimastegli inaccessibili o fresche di stampa, obbligarono Manzoni a ristrutturare il discorso, riscrivendo pagine più volte rifatte».
–  La lingua della Redazione base, (p. 322): «La lingua della Rivoluzione francese è di estremo interesse, anche nel rapporto con le fonti francesi, ma un suo esame sarebbe qui fuori luogo. Tuttavia, poiché la Redazione base presenta una serie cospicua di particolarità linguistiche proprie, rispetto al sistema manzoniano instaurato nella Quarantana e attivo ancora nel decennio 1860-1870, occorre affrontare anche questo aspetto. A livello lessicale e sintattico, la Rivoluzione francese documenta una scelta regressiva, cruscante e, in qualche caso addirittura trecentesca. Qui basterà segnalare come, a livello grafico, fonetico, morfosintattico, la 2R ha soluzioni opposte non soltanto a quelle del romanzo, ma addirittura senza riscontro nell’uso coevo, pubblico e privato, dell’autore… Per ora,  basterà esemplificare su un fatto grafico, secondario ma appariscente, quale il sorprendente recupero di  j, che la 2R adotta nei plurali di -jo  atono, in posizione iniziale (jeri) o postconsonantica (abjurare, obbjezione), nei suffissi (migliaja, scannatojo), e in contesto vocalico (ajuto, pajono). Come è noto, il Manzoni abbandonò questo uso all’altezza degli ultimi capitoli del Fermo e Lucia, all’incirca con il  1823… Insomma, rifacendo la 1R il Manzoni rivoluzionò il proprio sistema grafico-fonetico e morfologico, e anni dopo, rielaborando la 2R, vi impose una patina fiorentina, frutto delle scelte maturate negli ultimi scritti sulla lingua».
–  La revisione della 2R, (p. 324): «Con la lettera del 9 luglio [1869], il Rossari raccontava a Stefano Stampa di aver trovato il “Manzoni tutto allegro perché avendo egli ripresa l’introduzione (o prefazione, come più ti piace) di quel tale suo lavoro storico, aveva escogitata, a furia de masnà [di macinare] e di starci sopra, una formula che gli servirà ad abbreviar molto l’esposizione dell’argomento; è infatti una di quelle sue frasi così felicemente compendiose e comprensive a un tempo, che dichiarano e spicciano insieme la materia”. Purtroppo il carattere criptico del documento ne smorza la portata…  Sono parole troppo generiche per noi posteri, privi come siamo di un contesto preciso, scontato per i due interlocutori. In essa, neppure la sinonimia “l’introduzione (o prefazione, come più ti piace)” era casuale, perché indirizzata a chi aveva a lungo istigato lo scrittore a una “prefazione”. È certo però che l’affermazione del Rossari documenta la data d’inizio del profondo ripensamento del saggio…
Mettendo nuovamente mano al saggio, il Manzoni si avvide della necessità di ristrutturare l’esposizione e di eliminare le molte ripetizioni… La decisione produsse un duplice effetto: da una parte impose l’ampliamento della Introduzione esistente e ne dilatò la funzione; dall’altra indusse il Manzoni a decurtare la “Parte prima” del saggio, e a concepire una Parte seconda, rimasta virtuale».
–  La presente edizione, (p. 328): « Il testo de la Rivoluzione francese deve necessariamente coincidere con una redazione base, che garantisca la più estesa leggibilità a dispetto della sua incompiutezza, e che nel contempo catalizzi le altre ipotesi frammentarie consegnateci dai manoscritti… Si tenga presente che una parte cospicua dei fogli dell’autografo reca tracce di una duplice (più raramente triplice) numerazione delle pagine, e inoltre che il Manzoni per saldare una gran parte dei fogli ai precedenti o ai successivi dovette ritoccarne l’incipit o l’explicit».
–  Appendice / Terza redazione / La bella copia 3R, (p. 332): «Essa è costituita della Introduzione di sedici carte, di una “Parte prima” di quaranta carte, e della Nota A di sedici carte… La 3R ha le caratteristiche della bella copia, ma l’apparenza non deve ingannare. Essa è il risultato di un accanito rifacimento di molte carte ».
La Nota A merita un particolare esame, però devo tenere a bada la mia tendenza a “estrapolare” (Folco Portinari):  ormai devo “dire il mio parere”.

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*Dina Tortoroli Rosetti, Ogn’altra cosa / Storia di un’idea scaturita dalla mente in quell’età in cui si prendono sul serio le parole delle persone autorevoli, Tipografia Benedettina Editrice, Parma, 1995, pp. 168-172).

**Luigi Weber, Manzoni e “L’invenzione dell’inevitabile”. Il Saggio sulla Rivoluzione francese del 1789, «Bibliomanie, Letterature, storiografie, semiotiche, 33, no 1, maggio/agosto 2013, pp. 3-17. ***Edizione Nazionale ed Europea delle Opere di Alessandro Manzoni / Testi criticamente riveduti e commentati / Diretta da Giancarlo Vigorelli / Volume 15, La Rivoluzione Francese del 1789 e la Rivoluzione Italiana del 1859 / Dell’Indipendenza dell’Italia, Centro Nazionale Studi Manzoniani, Milano, 2000.