K come Kosuth

FULVIA GIACOSA

Siamo, con questa scheda, all’ultima grande corrente delle neo-avanguardie, il Concettualismo, quando è di moda parlare di “morte dell’arte” o perlomeno di quello che fino ad allora veniva chiamato arte. Si tratta di uno spostamento radicale rispetto a tutto ciò che era stato dall’Informale in poi, di una ri-duzione, nel senso etimologico di reducere, condurre l’arte alla sua origine come concetto, pensiero. Parlare di Concettualismo richiederebbe ben più di una scheda di poche pagine poiché si tratta di una situazione artistica sfuggente per la varietà delle soluzioni proposte; esse hanno comunque un principio di base comune che Lucy Lippard ha definito in un suo saggio del 1973 “de-materializzazione dell’arte”, come a dire un’arte neutra, sine materia. Il Concettualismo non è un movimento come vorrebbe il suffisso “-ismo” ma ha avuto una estensione temporale che giunge all’oggi. Non c’è artista che non abbia almeno una componente concettuale. Se tuttavia andiamo alle sue origini storiche – sostanzialmente tra la metà dei Sessanta e i primi Settanta – possiamo ridurlo a due modalità prevalenti: il Concettuale “puro” di cui è protagonista Josef Kosuth (arte come idea) e il Concettualismo “performativo” tipico di Josef Beuys (arte come azione).
Occorre fare un passo indietro, visto che nessuna novità nasce dal nulla. Era stato Duchamp con i suoi ready made a inaugurare una forma d’arte presentativa che rinunciava all’apparenza per assumere una funzione mentale, poiché, diceva, “l’arte per sua natura esiste solo concettualmente” ossia rende secondario il significante (immagine) in favore del significato (concetto): da qui la riduzione dell’opera all’enunciato-immagine, vale a dire una forma tautologica in cui è ancora presente una forte ambiguità tipicamente duchampiana. Josef Kosuth sa di essergli debitore, così come è innegabile che di concettualità in arte vanno disquisendo, negli stessi anni, artisti votati al superamento d’ogni codice, avanguardie comprese. Già nel 1967 esce un testo di Sol LeWitt (attivo nel Minimalismo) dal titolo “Paragraphs on Conceptual Art” in cui si legge: “Nell’arte concettuale l’idea concetto è l’aspetto più importante del lavoro. …Tutte le programmazioni e decisioni sono stabilite in anticipo e l’esecuzione è una faccenda meccanica. L’idea diventa una macchina che crea l’arte.” Nel 1969 J. Kosuth scrive in Art after philosophy” che per lui l’opera d’arte è una “proposizione linguistica che trova in se stessa il criterio del proprio valore“. Nello stesso anno una grande mostra a Berna dal titolo “When Attitudes Becomes Form” raccoglie artisti di varia provenienza tra cui i concettuali della prima ora (Baldessari, LeWitt, Kosuth, Boetti, Buren, On Kawara …), ma soltanto l’esposizione a Leverkusen, vicino a Colonia, “Konzeption/Conception” (1969) il termine compare nel titolo della mostra e viene ribadito nel testo introduttivo di Rolf Wederer.
Josef Kosuth, nato in Ohio nel 1945, ha una formazione artistica, filosofica e antropologica e insegna in diverse accademie in Germania e Italia (Venezia). Organizzatore di eventi e teorico, afferma che l’arte sostituirà la filosofia perché più efficace sul piano comunicativo. Al 1965 risale una delle sue prime opere tautologiche, “Clear, square, glass, leaning” parole stampate su lastre di vetro dalla forma quadrata appoggiate al muro; nello stesso anno dà l’avvio ad una serie di opere come “Neon”, “Four colours four words” e altre simili (enunciato visivo = enunciato verbale) usando il neon che, dice, “ha una fragilità che lo rende più simile alla scrittura”. Negli stessi anni inizia le cosiddette triadi, come “One and three chairs” (ma anche tre pale, cappelli e oggetti vari). Del 1967 è la serie “Art as idea as idea”, pannelli neri con copie fotostatiche in negativo (bianche) di definizioni linguistiche del vocabolario, sia di termini comuni (acqua, sedia …) sia più specifici (significato, definizione, arte …). L’opera dunque coincide con la definizione di un termine, ma viene comunicata con un processo “artistico” come l’ingrandimento e l’inversione positivo-negativo. Qui ci occupiamo soltanto di chiarire alcune differenze tra le varie tautologie utilizzate. Occorre infatti distinguere tra quelle elementari che semplicemente “dicono” l’immagine e quelle “triadiche” che declinano l’oggetto-immagine in più linguaggi. La ragion d’essere delle prime è semplicemente nominare il soggetto; la definizione è linguistica, non iconica come nello “Scolabottiglie” di Duchamp dove l’oggetto (un vero scolabottiglie comprato in un magazzino) determina il titolo; solo la collocazione in uno spazio deputato all’arte (museo, mostra) fa sì che il referente (la “cosa”) entri nella sfera estetica, il che è una delle basi del Dada storico. La tautologia evita qualsiasi amplificazione interpretativa (qualsiasi ermeneutica) e ciò segna un’altra differenza con Duchamp (“Fountain”, un orinatoio rovesciato firmato “Mutt” e datato 1917). Anche il soggetto cosale è frutto di una “scelta” tra le molte cose del mondo che Duchamp rivendicava: per Kosuth non c’è scelta, una cosa vale l’altra, che sia una sedia o un cappello. Nelle seconde, triadiche, abbiamo un oggetto prelevato dalla realtà (oggetto reale), la sua fotografia (l’analogon dell’oggetto, il suo segno) e un pannello che riporta ingrandita la definizione da vocabolario dell’oggetto (definizione astratta), il che intende far riflettere l’osservatore sulla convenzionalità dei tre diversi modi per “presentare” una cosa.
Qui ci fermiamo, ricordando soltanto che nei decenni Settanta e Ottanta l’artista ha realizzato installazioni sempre più complesse tra cui “Zero & not” (da 1985), in cui riveste le pareti espositive con brani di Freud cancellati dove le cancellature trasformano un intero (il testo originale) in una serie di frammenti capaci di aprirsi a nuovi significati. Vale la pena soffermarci ancora sulle opere citate all’inizio: è infatti evidente che qui ci troviamo al “traguardo estremo dell’arte moderna” (De Micheli). Se le avanguardie storiche avevano accompagnato le opere con la teorizzazione verbale (si pensi agli scritti di Boccioni, Kandinskij, Mondrian, Malevic), qui di arte si discetta non accanto ma dentro l’opera stessa. Su questa strada oltre non è possibile proseguire, non solo per una fredda risposta del mercato e del pubblico che nell’opera d’arte cerca anche la componente emozionale ed espressiva qui esclusa, ma per la gabbia in cui viene chiuso tale registro comunicativo che ha ben poche varianti possibili e che esclude il mondo dalla sua prospettiva. Così già la generazione di Kosuth cerca di superare l’impasse introducendo nuovi elementi che vanno dalla provocazione grafica alla critica politica o sociale, dalle contraddizioni linguistiche al racconto, dal disincanto alla derisione. Faccio solo alcuni esempi parziali. L’inglese Mel Ramsden (n. 1944) realizza tra il 1966 e il ’68 una serie di “Secret Paintings” (1968) pannelli quadrati neri (un po’ Malevič un po’ Reinhard); accanto al dipinto e con le sue stesse misure espone una didascalia ingrandita che suona così: “Il contenuto di questo dipinto è invisibile; il carattere e la dimensione di questo contenuto, noti solo all’artista, devono essere mantenuti segreti”. La apparente provocazione nasconde una richiesta agli spettatori di condividere con l’autore (e sottolineo condividere, cosa non scontata nel Concettualismo più rigoroso) una questione centrale dell’arte contemporanea, il suo statuto. L’arte non è forse arcano incontro tra visibile/dicibile e invisibile/ineffabile? E oggi la pittura come rappresentazione ed espressione non è diventata forse l’ombra invisibile di se stessa, il suo limite estremo? D’altronde già Duchamp schiacciava l’occhio al “misterioso” con il famoso ready made “Con rumore segreto” (1916) e John Cage scriveva il saggio “Silenzio” (1961) e componeva il noto brano “4’33”. Il giapponese On Kawara (1932- 2014) fa un passo ulteriore di recupero dell’arte-racconto: ogni giorno si impegna a realizzare un’opera che porta la data di quella giornata e nasce la serie “Today” (da 1966, anno della prima opera della serie con la scritta “One Thing, 1965. Viet-Nam”, durante la guerra). Si tratta di scatole fatte da lui, colorate a tinta piatta e appese al muro: esse portano scritta la data del giorno di esecuzione (pare che se non finiva il lavoro entro mezzanotte buttasse via tutto) e un quotidiano di quel giorno all’interno; dagli anni Settanta presenta cartoline o telegrammi con scritte apparentemente banali del tipo “I am still alive”, “I got up at”. Altro artista che lavora sul concetto di tempo ma legato alla sua esistenza e non a fatti esterni è Roman Opalka (1931-2011, nato in Francia da genitori polacchi). Nel 1965 inizia una scrittura pittorica su grandi tele (sono circa 200) che continua fino alla morte: “Détails 1/∞” è un lavoro che dice esattamente ciò che l’autore scrive, ossia la sequenza dei numeri da zero a infinito. Il lento svanire del tempo è reso dal bianco su nero iniziale e dallo schiarirsi del nero man mano che l’artista vi aggiunge un centesimo di bianco finché giungerà al bianco totale per cui scrittura e fondo si equivalgono. A questa mastodontica opera va accostata la serie di autoritratti fotografici a partire dal 1972 (“Ho celebrato la fine della pittura con la pittura stessa, per dipingere in tutta la mia vita un unico quadro” ha dichiarato). Si tratta di una sequenza fotografica in bianco e nero del suo volto nella tipica fissità della foto tessera (realizzava una foto ogni volta che finiva un pannello di “Détails 1/∞”) in cui mantiene costanti la posa frontale e l’inespressività del viso, la distanza dall’obiettivo, lo sfondo e la camicia bianca, cosicché l’unico cambiamento è segnalato dal lento invecchiare del volto, metafora del tempo e contemporanea traduzione di un tema costante nell’arte, il “memento mori”. Molti concettuali di questi anni usano la fotografia, uno per tutti Ed Rusha (n. 1937) nella serie “Twentysix Gasoline Stations” (da 1962), che ricorda solo per il tema banale le opere di E. Hopper (“Gas”, 1940) sospese e metafisiche, mentre qui il registro è freddo.
A metà anni Settanta la fase storica del Concettualismo si chiude e lo dichiara Kosuth stesso in vari articoli. A fine decennio e in quello successivo nuove tendenze tornano a pratiche artistiche più tradizionali, esaltando la valenza pittorica e narrativa. Certamente la parola non sparisce dall’arte successiva ma non ha più niente a che vedere con quanto abbiamo raccontato. Abbandonato lo spirito analitico e semiotico, le scritte possono assumere un carattere ironico-sarcastico ( “Hollywood”, 2001, di Maurizio Cattelan, una grande scritta che scimmiotta quella USA ma è collocata su una collina di rifiuti a Palermo) o essere dichiarative di un pensiero dell’autore come “Tutta l’arte è stata contemporanea” (1999-2005) di Maurizio Nannucci, già attivo nel 1967 con opere al neon vicine a quelle di Kosuth e oggi autore che lascia le sue dichiarazioni in tutto il globo, specie sulle facciate dei musei. Quella citata non è che una delle tante ambientate nello spazio e neppure la più famosa ma l’ho scelta perché ne condivido pienamente il senso.
E voi?

 

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