Un distacco

G. Frisina, Sospensione 2

G. Frisina, Sospensione 2

GRAZIA FRISINA

Un distacco.

Sé stessa guarda altra da sé. Dall’alto. Come dall’oculo picto di un ballatoio di nuvola. Senza riconoscersi, assopita la vede, smemorata in quella postura di uovo, di sonno fetale, tra le pareti equoree di un cuore, nato dall’oscurità e destinato alla luce. Dal plasma di una minerale vita, dall’ipogeo di un lapislazzulo, battiti scompigliati di demoni e di arcangeli straripano per andare a incidersi nel capolettera di due miniature.

Femmina

Fabulazione

Sente di desiderarlo, sente di amarlo questo bisogno di straniamento, di separazione tra visceri e mente, tra fiato e sangue, tra senso e non senso, tra istante e istante.

Ma il tempo

: è divisibile il tempo? può il vivere sfilarsi dal dito delle Moire, dal rocchetto cronologico al quale è stato annodato? il prima l’adesso il dopo: cosa e chi potrà mai dividerli, trattenerli, misurarne l’estensione, osservarne la fuga, il franare della sabbia nella clessidra, l’infinito vuoto stillicidio, il tic tac del disfacimento?

Ode voci – da quali corpi? – in sottofondo interrogare

domandarsi

: c’è forse uno spartiacque tra Anima e Follia?

possono, Anima e Follia, essere divisibili? si potrà mai spezzare il coincidente assiduo murmure con il quale polverizzano le realtà tutte?

Anima e Follia – esse

: il suo doppio io notturno: attorta spirale di due nottole, spose sorelle amanti. Entrambe fragili, identica pelle, identica lingua, entrambe inaccessibili nella ragna dell’assurdo. Ostili s’annusano, s’incalzano, una voce dentro l’altra, nelle sabbie mobili degli inferi e, a vicenda e senza che il cervello ne abbia cognizione, il dolore trapassano. Indivisibili, passano la cruna dell’angoscia. Vi s’incuneano. Scavano. Implacabilmente scavano, vibrando come cristallo fino al midollo dell’essere. Fino al martirio.

E quando, per chissà quale forza o volontà, o solo per un soffio, un soffio di niente, il brusio di una crepa, riescono a emergere dalle rovine di un bruciante inverno, disarmate, di febbri consunte e di insonnie, in alleanza mostrano, argentei di rughe, i volti affilati nella veggenza, dipanando e liberando dalle mani ferite verso il mondo, senza cupidigia senza nominarlo, il tremulo lunare cifrato impasto, fatto di spasmi umori e nebbie, di schiume e mareggiate, di visioni silenzi e poesia.

Non c’è più distacco ora, né sdoppiamento. Ora lei, riconciliata a sé, femmina, a sé si ricongiunge: visceri e mente, fiato e sangue, affabulando senso e non senso.

Anima e Follia: consacrate al vento.

Lei

seduta su uno scalino a levante, si specchia nella pozzanghera d’un uragano, il suo presente, in cui gioca l’incatturabile rifrazione di un blu egizio  che, amuleto del cielo, piano piano scolora, lamina a lamina, giro a giro, ombre ed echi in lontananza a evocare una trascorsa glauca genesi, quasi fosse un mito o un’illusione: il passaggio di una divinità materna nell’alba dell’esistenza – non importa sapere quando e se avvenuta – su una valle soleggiata a grano e fiordalisi. Che pare, in un istante, somigliarle.

benvenuta albamadreillusione benvenuta

per tutto ciò che da te cade da te nasce

da te fiorisce e svapora

cromie di nuvole illeggibili