STEFANO SICARDI
Se l’era voluta. E dire che lo sapeva, ma aveva insistito, e per una buona ragione. E “Apriti Cielo”. Meglio lasciare che sbollisse, dandole tutto il tempo necessario. No. In questo caso, lei ne era proprio convinta, solo lo strettissimo tempo necessario.
Contraddire la zia Caterina, che in realtà era da sempre e per tutti solo Rina, comportava rischi che ben conosceva. Quindi non c’era da stupirsi per la sua immancabile reazione.
La sua cara zia. Ma, a pensarci bene, era puramente e semplicemente una zia? O non piuttosto una magna, come d’altronde tutti, ed anche lei, da sempre la chiamavano, in un connubio inscindibile, Magna Rina. Un po’ come, a Torino, via Pietro Micca: chi si sognerebbe di dire, se non da sprovveduto forestiero, … via Micca?
Ma come definire una magna? Si sarebbe potuto immediatamente replicare: niente di più facile: magna non è che la traduzione in lingua piemontese del termine italiano zia, come degli equivalenti in lingue note: tante in francese e tedesco, tia e aunt, in castigliano ed in inglese, per limitarci alle più correnti.
Ma si poteva liquidare la faccenda così? La nipote, che di nome, come ben due altre coetanee ed amiche, faceva Sara, ma per tutti da sempre Saretta, ne dubitava fortemente. Nella forma piemontese la sua carissima parente, non giovanissima ma ancora ën piòta (cioè attiva e vigorosa), quando la si chiamava e la si considerava una magna, assumeva capacità ben più concrete e peculiari di intraprendenza, lungimiranza e resilienza di fronte alle piccole ed alle meno piccole maratone della vita, alle fatiche ed agli acciacchi, e pure nelle più disparate occasioni di socialità. Insomma, abilità e risorse che a Saretta parevano non certo di poco conto rispetto alla grande maggioranza dei comuni mortali; e che – alla nipote venne da sorriderne – si rafforzavano e venivano rese più evidenti dalla presenza di più magne riunite, convergenti verso un comune obiettivo.
Per iniziare dalla quotidianità, la nipote non dimenticava i pranzi che suggellavano le gite di innumerevoli magne in comitiva, che scese caracollando dagli autobus, lagnandosi delle loro artrosi e lombaggini, dopo aver preso posto in lunghe tavolate, quando i più giovani accompagnatori erano già fuori combattimento, non perdevano un colpo, dal vitel toné al bonèt, e magari si concedevano una passeggiata alle due del pomeriggio sotto un sole implacabile, dopo un bel gelato, per mandar giù felicemente il pranzo.
Ma ancora di più la nipote, che indugiava nei suoi pensieri calcolando il tempo minimo che occorreva perché la sua cara magna si fosse tranquillizzata e lei potesse tornare alla carica, riteneva che il fenomeno delle magne travalicasse i confini piemontesi e nazionali, che assumesse caratteristiche del tutto particolari quando al banale termine, in tutte le lingue, di “zie” se ne fosse sostituito uno, ben più sapido, coniato da lontani dialetti locali, che ne avesse mostrato i tratti fuori dal comune. Come le era capitato in una ormai lontana traversata della Manica in una giornata di mare piuttosto irritato. All’interno del ponte coperto, al riparo dagli spruzzi dei cavalloni, una ventina di magne di ignota nazionalità (ma la nipote, dalla performance a cui aveva assistito, sospettava fossero bavaresi), per far passare amabilmente il tempo che le separava da Calais, mentre giovani coppie e collaudati camerieri parevano assai strapazzati, si erano prese ën brasëtta (insomma, sottobraccio, formando una gioiosa catena umana), accompagnando l’urto dei marosi e il traballare del traghetto con scanzonati “Oh, Oh!”, tanto per scherzare un po’ col moto ondoso che faceva troppo il furbo.
Anche questa prova, insieme ovviamente a tante altre e, sia chiaro, anche ben più serie, aveva fatto concludere alla nipote che, quando fosse giunta la fine del mondo, gli ultimi esseri a scomparire sarebbero stati gli insetti (a giudizio dei naturalisti le creature più resistenti) e… le magne.
Per la verità Magna Rina, dopo una vita, ormai archiviata, di impavida maestra – o come lei, con un’espressione un po’ più vintage, amava dire: insegnante elementare – svolta in sedi impervie e disagevoli (che la denatalità arrembante aveva provveduto progressivamente a far chiudere, spesso poco dopo il suo passaggio), era giunta alla pensione non certo per starsene con le mani in mano (son còse ch’ is fan nen [1]) ma per lavorare nella sua bella piccola campagna, orto, giardino e frutta, qualche giornata di terreno intorno ad uno spazioso ciabòt che era diventato la sua seconda, o forse, ormai, la sua prima abitazione.
Vi trascorreva l’esistenza quotidiana con il fedele, burbero (ma in realtà non scorbutico) marito, corpulento e silenzioso (ma ben svicio [2] quando decideva di aprire bocca) a cui aveva, per tutta la lunga e felice convivenza matrimoniale, dato allegramente da correre, senza peraltro che lui se la prendesse più di tanto («ël fomne son fate parej, vanta deje passage»[3]).
Un marito che si era dedicato ad un lavoro artigiano ormai tramontato e che aveva svolto con grande maestria. Un orologiaio apprezzatissimo (lo “arsonavano”, cioè lo chiamavano abitualmente, il munusié, un termine antico impiegato per i falegnami, ma soprattutto per quelli di fino), e si stentava a crederci guardando quelle grosse dita che parevano negate ai lavori delicati. Poi gli orologi erano diventati diversi e lui li aveva abbandonati. Se lo chiamavano dava una mano (e, prima ancora, un ascoltato parere) su quelli di grandi dimensioni, come per i campanili e le torri, o magari per le pendole di una volta. Ma andava bene così. A monsù Berto (al secolo Lamberto Beccaria, appunto maritato con Caterina, detta Rina, Briatore) andava proprio a genio la vita che adesso faceva, con la moglie ed i nipoti, tra la campagna, il centro anziani e le bocce, qualche bella gita in pullman e le serate a scopa. C’erano anche stati tempi in cui non mancava di andare al partito, ma, appunto, erano altri tempi.