La puerilizzazione delle masse nel tardo capitalismo contemporaneo

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CLAUDIO SOTTOCORNOLA

Confesso che avverto negli ultimi anni una dolorosa sensazione di banalizzazione dell’esistenza, così come viene presentata non solo dai mass e social media – ove il fenomeno è evidente a tutti – ma anche al di fuori di essi.

Ero a conoscenza della legge per cui, a un novello speaker televisivo, sembra che si spieghi di immaginare un pubblico dell’età media di otto-dodici anni, perché davanti allo schermo tale sarebbe la regressione psico-antropologica indotta negli spettatori, ma oggi mi sento quasi in imbarazzo quando avverto il tono condiscendente, benevolo e paternalistico della giornalista che legge il TG di punta di prima serata, che si conclude immancabilmente con servizi – che un tempo ascrivevano alla cultura in genere – su qualche pop star adolescente che invade il pianeta col suo ripetitivo ancheggiare, presentata con l’enfasi un tempo riservata ai Nureyev, ai Von Karajan, ai Sartre. O, in alternativa, con l’apoteosi di un calcio ormai divenuto il palliativo di ogni malessere sociale, a sua volta però specchio della civiltà corrotta che l’ha generato e continuamente lo alimenta, anche attraverso un tifo fanatico e spesso violento, ampiamente tollerato in quanto strutturale allo status quo.

La pubblicità scandisce poi un mantra le cui note ricorrenti sono piacere, successo, benessere, gratificazione personale e seduttività sociale, garantite da infallibili strumenti, come un’auto nuova, un divano ad hoc, uno smartphone di ultima generazione, un televisore al plasma, una pelle liftata, o almeno un paio di sneakers di tendenza. I relativi luoghi o non-luoghi della ritualità consumistica si riempiono così la domenica, come un tempo si riempivano le chiese, per lo shopping compulsivo e catartico cui le masse si sottopongono con approccio liturgico-sacramentale, alla ricerca di una salvezza che si attendono dalle merci così come un tempo la si attendeva da Dio.

Eppure, a questo ci si limitasse, potremmo ricorrere a qualche forma di sublimazione compensatoria, entro una logica da amor fati, magari aiutati dalla suggestione degli antichi versi di Mogol per Battisti: “In un grande magazzino una volta al mese/spingere un carrello pieno sotto braccio a te/e parlar di surgelati/rincarati/far la coda mentre sento che ti appoggi a me” (“Perché no”, 1978). Ma purtroppo non è tutto qui… Consegnato al minimalismo di consumo e produzione, l’esemplare umano che popola le società tardo-capitalistiche occidentali di questo nuovo millennio non sembra infatti più godere di energie residue per il pensiero, la volizione, sentimenti non corrotti dalle istanze di sopra, ma, al più, impegna le poche sinapsi cerebrali ancora attive in passivi rituali di esposizione ai social, ove magari pubblica stories dello shopping appena concluso, oppure ancora si sdraia sui famosi ed efferati divani della pubblicità per assistere a quei programmi televisivi di infotainment, che hanno l’effetto di una ennesima centrifuga cerebrale per le banalità di cui sono intrisi.

Infatti, se intrattenimento e informazione televisivi sono passati dal formare gli italiani, negli anni ’60, all’odierno disfarli, con ogni sorta di banalità, volgarità e conformismo, essi riflettono tuttavia una opinione pubblica ormai profondamente corrotta nelle sue istanze antropologico-culturali, che solo chiede convenzione, cliché, e farisaico mainstream. Finzione, in fondo, buoni sentimenti e cattiva coscienza, quello che contraddistingue peraltro tanta politica, tanta ideologia, tanta appartenenza fanatica e greve.

Vi è così un trionfo della mediocrità, che scandalizza e rattrista i migliori, mentre un profluvio di premi e riconoscimenti ambiti si riversa sui soggetti più smaliziati e conformisti che, ritagliandosi uno spazio e un ruolo come nella commedia dell’arte, si atteggiamo a portavoce di cause più o meno nobili il cui vero fine è troppo spesso il loro tornaconto, come si evince da recenti casi di cronaca ove beneficenza fa rima con ipocrisia.

E questo è il punto. A me l’esperienza ha insegnato nel corso di una vita ormai almeno anagraficamente matura che l’apparenza inganna, e che colui che si atteggia a buono talvolta è un truffatore, poiché usa la bontà come metodo di adescamento e consenso, mentre colui che appare cattivo talvolta è davvero buono, perché scevro dal desiderio di piacere e dunque dalle seduzioni dell’apparire, si rivela a volte capace di atti autentici e non conformisti. Spesso ho constatato infatti che a un parlar buono corrisponde un agire male, avendo non di rado i benparlanti ampie capacità di giustificare formalmente tale malizia a sé e agli altri, mentre ho constatato che una certa virulenza di linguaggio spesso si accompagna ad una inclinazione più diretta ed esistenzialmente più affidabile. I grandi cattivi o i grandi cinici che ho incontrato erano sempre persone splendide sul piano dell’apparire e del loro linguaggio formale, ma erano squallidi sul piano delle relazioni e della qualità etica delle loro azioni.

A che serve questa riflessione che apparirà a molti troppo pessimistica? A dichiarare che essa presuppone in chi la svolge un minimo di capacità di distanziamento dal qui ed ora della sensazione, della rappresentazione, della apparenza appunto, che ho voluto evidenziare un po’ immodestamente in me stesso, per dichiarare che mi pare essa vada invece oggi scomparendo dalla coscienza delle masse, che all’apparenza si fermano, e alla rappresentazione, e dunque al qui ed ora della sensazione, col risultato di venir truffate dai quaquaraquà di turno, come voleva Sciascia, che vado a citare per esteso, nel caso qualcuno lo avesse dimenticato o mai conosciuto: “Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà. Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini. E invece no, scende ancor più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi. E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito. E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre. Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo” (“Il giorno della civetta”, Einaudi 1961). Il brano è relativo al colloquio che il protagonista del romanzo, capitano Bellodi, ha con il padrino mafioso Mariano, il quale è l’autore di questa classificazione antropologica, che si conclude col riconoscimento del valore del suo antagonista (lei è un uomo).

Ma è proprio la carenza di umanità, o deumanizzazione, che interpreterei anche come processo di istupidimento dell’umano, che a me pare caratterizzare il contemporaneo, almeno nell’orizzonte tardo-capitalistico ormai planetario, sul piano dei modelli condivisi attraverso una comunicazione digitale che non lascia vie di fuga, se non ai già iniziati o illuminati.

Eppure, in tempi assolutamente predigitali, già la Scuola di Francoforte, dagli anni ’20 agli anni ’60, con i vari Adorno, Horkheimer, Marcuse, Habermas, Benjamin, Löwenthal, Fromm, formulava una teoria critica della società, una forma di pensiero negativo teso a smascherare le contraddizioni profonde di un capitalismo nel quale le masse finivano col diventare totalmente eterodirette, anche attraverso i mezzi di comunicazione che ne plasmavano l’immaginario e il desiderio, riducendole al rango di automi incoscienti e obbedienti. Qualche anno fa, partecipando a un corso di aggiornamento per insegnanti, fui colpito dalla analisi scientifica presentata da un relatore, che mostrava, studi alla mano, quanto le sinapsi cerebrali dei bimbi siano profondamente condizionate dalle esperienze cui essi vengono esposti nella prima infanzia, potenziandosi determinate connessioni solo con l’uso, senza il quale vi sarebbe invece una sorta di irreversibile atrofizzazione, difficilmente recuperabile. Insomma, se un bimbo viene esposto solo a grossolane sollecitazioni sensoriali da smartphone e tv, e deprivato di una adeguata comunicazione logica o verbale, il suo cervello ne farà le spese, restando per sempre sordo a tali ambiti. L’impoverimento della intelligenza simbolica collettiva, ma specialmente giovanile, che chi scrive ha sperimentato in lunghi anni di insegnamento, ha allora una spiegazione. Come potrà un ragazzo emozionarsi davanti a una poesia di Montale, Luzi, Leopardi, a un quadro di Sironi o a una riflessione di Heidegger, se la sua sensibilità si è formata sulle grossolane stimolazioni degli attuali mass e social media, che devono semplicemente attrarre la sua attenzione per vendere il proprio prodotto? Un ambito che più ha risentito di questo degrado è quello della sessualità, impoverita e banalizzata all’estremo, così ridondante, per paradosso, da anestetizzare il desiderio stesso, che dunque non è più in grado di coinvolgere l’interezza della persona, con la sua intelligenza, sensibilità, volizione.

Ma lo stereotipo, la semplificazione banale del reale, non trionfa solo in ambito sessuale, bensì anche in ambito sociale, investendo la politica, la religione, la cultura.

Essendo stato giovane negli anni ’70 rammento quanto la disposizione verso l’autorità fosse all’epoca critica e indipendente. Capi di stato, uomini di cultura, autorità religiose erano vagliati volta a volta nelle loro scelte e decisioni. Chi non ricorda le aspre critiche – non di rado ingiuste – rivolte ai Presidenti della Repubblica italiana, da Giovanni Leone a Francesco Cossiga, da Giuseppe Saragat a Oscar Luigi Scalfaro, o il braccio di ferro tra una parte della cultura laica e un papa di estrema raffinatezza intellettuale come Paolo VI, o gli strali della sinistra italiana contro Indro Montanelli, fra i maggiori giornalisti italiani del  ’900, ma anche la contestazione degli studenti dell’epoca contro cantautori come De Gregori e Venditti, pure coinvolti in prima persona nelle istanze del ’68, perché giudicati politicamente troppo tiepidi… Ebbene, chi scrive probabilmente poco o nulla condivideva di quelle critiche, eppure riconosce che la possibilità di formularle senza riceverne stigma e riprovazione sociale era cosa buona e giusta, indizio di una società equilibrata, lucida, pensante.

Quanta diversa oggi la posizione nei mass e social media, ma spesso anche nella società civile che, agendo per stereotipi, decide a priori chi sia criticabile e chi no, sancendo una sfera di intoccabili, con una sua precisa gerarchia, cui le masse obbediscono puerilmente. Personalmente credo di condividere molto di ciò che dicono il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e Papa Francesco, ma non comprendo perché dalla scena pubblica debba risultare completamente assente qualsiasi voce di dissenso nei loro confronti e, anzi, i servizi televisivi che li riguardano (in tutte le reti italiane) si configurano quasi sempre come apoteosi fra bandierine sventolate, bimbi inneggianti, sorrisi estasiati e sottofondo di commenti celebrativi ed encomiastici, di cui mi auguro essi non abbiano bisogno, essendo – spero – preferibili ai loro occhi degli interlocutori lucidi piuttosto che dei petulanti adulatori. Comprendo però che ciò, agli occhi di chi lo promuove, risulti necessario alla strutturazione di un corpo sociale non ancora maggiorenne. Ma il problema è in realtà molto più ampio ed esteso, riguardando la semplificazione dei ruoli e delle funzioni, per cui oggi un soggetto è a priori trattato in rapporto alla sua ipotetica autorevolezza o significatività in un campo, non però determinata da una valutazione specifica, ma da un’assegnazione non di rado arbitraria, funzionalistica e calata dall’alto. Così, anche in ambito culturale, fioriscono ruoli ove in genere l’intronizzazione ha luogo per appartenenze, spesso ideologiche, e una volta avvenuta finisce col diventare emblema di una posizione alla fine inamovibile e a priori redditizia. Non vorrei fare nomi per non essere equivocato e derubricato a sostenitore di questo o quello, dunque la mia argomentazione, in assenza di gossip, perderà un po’ di efficacia, ma provo comunque a formularla. Sappiamo tutti che la televisione non abbonda di grandi pensatori, dunque ecco che quei pochi che esprimono una discreta erudizione vengono spesso spacciati come maître à penser di sopraffina cultura – anche se la qualità del loro sapere risulta poco più che mediocre – e tali appaiono, in assenza di meglio e di autonoma capacità di valutazione, agli occhi delle masse. Orbene, anch’io, scrivendo libri, ho talora avuto la ventura di presentarli in giro per l’Italia, e per far ciò si concorda ovviamente una data con la libreria o l’associazione ospitante; mi ha molto divertito che, in due casi almeno, un diverso interlocutore mi fissasse una data con la seguente riserva: “Lei capisce però che se scegliesse la stessa data XY [personaggio televisivo di cultura] noi dovremmo spostarla!”. Mi sono divertito perché, in ambedue i casi, mi si citava un giornalista-scrittore che ho sempre ritenuto di limitato valore culturale e di grande conformismo, ma che, essendo personaggio mediatico familiare, gode a prescindere di visibilità e riconoscimento sociale non solo delle masse ma anche degli addetti ai lavori, i quali non guardano più alla sostanza di un libro, un autore o un evento, ma alla capacità di richiamo del personaggio. Così anche la tipizzazione del personaggio, culturale, politica, ideologica, di causa, di genere, richiama un immaginario per l’appunto puerilizzato, che vuole etichette chiaramente decifrabili, e si comporta in modo calcistico rispetto ad esse, trasformando in eroe chi, purtroppo, di una giusta causa ha fatto talvolta occasione di reddito, popolarità, carriera.

Proprio un paio d’ore fa ho assistito in Tv a uno spezzone di conferenza stampa dell’amministratore delegato dell’Atalanta, Luca Percassi, che, indirizzandosi ai giocatori della squadra vincitrice della Europa League li ha definiti “eroi per sempre”. Ecco, non mi fa tanto specie che ci si rivolga a degli sportivi con toni enfatici o eccessivi, ma che mai ci si sognerebbe di usarli per ricercatori, famiglie che assistono malati o disabili, insegnanti ormai all’angolo della scala sociale, medici e infermieri sull’orlo di una crisi di nervi per l’eccessivo carico di lavoro, e ciò accade col consenso e il plauso delle masse stesse che per prime, magari, disprezzano l’insegnante anche per il suo misero stipendio, ed esaltano il calciatore in Ferrari e con orologio milionario al polso, come modello da emulare e sul quale disegnare le aspettative e il futuro dei propri figli.

E che dire delle telenovele sulle famiglie dinastiche europee, quella inglese in testa, che ci invadono coi loro amori, i loro abiti, i loro dissidi, persino le loro malattie, grazie all’ormai nota condizione di transfert, analizzata da Freud, per cui le masse si identificano coi leader recuperando nostalgie e proiezioni infantili irrisolte, paghe di una vita riflessa più che vissuta, di cui le monarchie rappresentano forse il più atavico retaggio? Ma se la condizione umana è questa, che almeno i leader siano tali e non viziati rampolli reali che pretendono ruoli e visibilità senza adempiere ad alcun ruolo, ma godendo dei privilegi del ruolo, come qualcuno attualmente agli onori delle cronache insegna!

C’è poi un diffuso vittimismo mercenario, una vasta gamma di aspiranti vittime designate, che ci propinano le loro opportunistiche testimonianze di abbandoni familiari, bullismo sociale, body shaming, depressioni e dipendenze di varia natura, violenze presunte o reali ma quasi sempre ostentate… realtà che meriterebbero denuncia, ascolto, solidarietà, non quando però vengano utilizzate per incrementare popolarità e profitti di qualche divo dello spettacolo che, carente di altre qualità, si ritagli un opportunistico ruolo acchiappa-consensi. Chi si muove nel giornalismo o nella comunicazione sa infatti benissimo quanto sia difficile ottenere spazio e visibilità nei media con il solo talento, per esempio musicale, e come l’associazione a una causa umanitaria, magari incarnata sulla propria pelle, garantisca al contrario una attenzione centuplicata in termini di titoli, servizi, interviste.

Ma c’è anche l’iperbole, l’eccesso, la bulimia a designare ciò che risulterebbe altrimenti invisibile agli occhi di masse ormai incapaci di riconoscere sfumature, e dunque attratte solo dalla quantità, dalla ridondanza, dalla più fastidiosa enfasi. Proliferano così donne belle in Tv che sono semplicemente l’iperbole di ciò che nell’immaginario primitivo dovrebbe essere una donna bella, coppie innamorate che sono l’iperbole di ciò che dovrebbe essere una coppia innamorata, raccapriccianti sopracciglia indelebili come iperboli di ciò che dovrebbero essere delle sopracciglia. Se sei un presentatore, un comico, persino un giornalista, devi stare sopra le righe per essere attrattivo, se sei una donna o un attore devi stare sopra le righe per essere seduttivo, se sei un politico o un opinionista devi essere aggressivo e scotomizzante, perché l’altro, dentro la mente puerile, è un nemico calcisticamente da abbattere, verso il quale non vale ricerca di mediazione o sintesi, pena l’irrilevanza semantica.

Infine, in virtù proprio della puerile necessità di palesarsi calcisticamente per squadre di appartenenza (peraltro latrici per molti di opportunità professionali, economiche o culturali), prevale uno stile di argomentazione che sembra la parodia di certi sillogismi tardo-aristotelici, ove si scelgono per premesse falsità o luoghi comuni, dati per verità certe, del tipo: poiché il mio interlocutore, in quanto avversario politico, non può che essere un delinquente, non devo dialogare con lui ma mostrarne la malvagità o stupidità. Per paradosso, mentre le masse sono chiamate esclusivamente a schierarsi e il politico al cliché, emerge che l’eterodosso, l’eretico, lo scomunicato, il farneticante, pur zoppicando a volte quanto al merito, è l’unico costretto alla riflessione, al ragionamento, ad una argomentazione che, in quanto tale, è certamente più vicina alla sensibilità socratica, rispetto a quella degli adepti che, in nome della più rigida ortodossia, ragionano per schemi, manuali, diktat, e inducono le masse a fare altrettanto.

Si parla tanto di post-verità, ma alla fine non ci si accorge che essa risiede ormai soprattutto nei luoghi comuni propinati dai media alle masse rese ottuse dagli stessi media. Disconnettersi, almeno per una parte significativa della propria vita, o almeno come affermazione di principio e indipendenza di giudizio, diviene allora l’unica soluzione alla universale omologazione, alla omogeneizzazione del pensiero, alla graticola delle facili semplificazioni e contrapposizioni, nel tentativo di pervenire a una più piena padronanza di sé, a una più lucida consapevolezza delle cose, a una libertà più radicale, che ci renda finalmente uomini, adulti, persone, e non automi strumentali a un sistema che fa di una regressione all’infanzia indotta uno strumento di potere e di controllo, in vista di un infernale dominio totale.

Per rispondere a questa sfida, vengono alla mente le parole del protagonista di “The Crucible” di Arthur Miller, ambientato nel Massachusetts puritano del 1600, nella piccola cittadina di Salem, dove ha luogo un isterico processo alle streghe in cui tutti accusano tutti, in una sorta di generale e conformistica adeguazione alle aspettative degli aguzzini, in cui rimane coinvolto quel John Proctor, emblema di integrità e rettitudine, che, rifiutandosi di firmare una falsa confessione con relative delazioni, afferma: “Non mi presto al vostro gioco. Nel prezzo richiesto per la mia salvezza non è compresa la mia complicità” (Arthur Miller, “Il crogiuolo”, 1953).

Perché l’innocenza è importante, per chi è innocente, mentre questo tardo capitalismo in degrado sembra perseguire la sola finalità di corrompere tale innocenza, per convertirla alla immanenza di merci e consumo. Mai come in quest’epoca storica quindi innocenza e lucidità sono divenute la medesima eroica virtù, quella di una resilienza costante, quotidiana, invisibile.