Insetti, patate e pommarola

Bartolomeo Scappi

Bartolomeo Scappi

PAOLO LAMBERTI

Il Phylum degli Artropoda comprende la maggior parte delle specie animali, e ingloba tra gli altri sia gli Insecta che i Crustacea. Gli italiani oggi mangiano i crostacei, i piemontesi anche il Bruss con i vermetti, ma non considerano gli insetti cibo da cristiani; curioso, dato che la Bibbia proibisce i crostacei, mentre le locuste sono per i profeti quello che i tartufi sono per i langhetti.
Per altro nel medioevo si pensava che i tartufi provocassero la lebbra: Alba capitale dei lebbrosari.  E quando arrivano le patate, essendo tuberi, diventano anch’esse portatrici di malattie. Quando tra Settecento e Ottocento si incrociano l’esplosione demografica e la modernizzazione dell’agricoltura per produrre per il mercato, per non nutrire i contadini, “bocche da biada”, con prodotti riservati ai cittadini, “bocche da grano”, diventano fondamentali piante americane, sino ad allora disprezzate, come il mais e la patata, “cibo flatulento” per l’Encyclopedie: nasce la cucina povera, patate, polenta, pellagra.
Del resto ai tempi di Napoleone l’italiano disponeva in media di 2600 calorie giornaliere, ai tempi di Crispi di 2100: comunque un lusso rispetto alle 1600 del 1944, gentile omaggio del fascismo. 1000 calorie che spiegano perché Mussolini non è Napoleone.  Nei secoli passati la cucina della quasi totalità degli italiani era monotona, ripetitiva, povera, scarsa e, vista la conservazione dei cibi, incline a spedire i consumatori a cibarsi del pane degli angeli. Ancora il primo ricettario regionale, del 1908, considerava piatti tipici piemontesi le “lingue di montone allo spiedo”, le “orecchie di vitello al sugo”, la “razza al formaggio” e la “testa di vitello alla vercellese”.
La pasta italiana è quasi sempre stata pasta fresca, prodotta con farina ed acqua, bollita nelle corti rinascimentali da una a due ore, condita con formaggio, e per i ricchi, con burro, zucchero e cannella; era usata per ricoprire gli arrosti e i bolliti di carne. Così la mangiava San Pio V, il cui cuoco, Bartolomeo Scappi, ci ha lasciato il più importante ricettario del Cinquecento; quando il papa non si dedicava al lavoro preferito: “brucia cristiani Pio/come legna d’inverno/Forse per avvezzarsi/al fuoco dell’inferno”. Ma anche la pasta secca veniva ancora cotta, nei ricettari tra Otto e primo Novecento, da un minimo di 15 minuti sino a 40; e secondo tradizione veniva condita prima con il formaggio e solo dopo con il sugo, che solamente dopo secoli incontra il pomodoro.
Il pomodoro era così definito nel 1581 “il freddo, fetido odore è sufficiente a far capire quanto insalubri e perniciosi possono essere” e il medico padovano Sala nel 1628 lo paragonava a “ragni, grilli e locuste, tutte strane, orribili cose”. Appunto. Per secoli rimane una coltivazione minoritaria, per rilanciarlo nella forma della salsa ci vuole la nascita dell’industria alimentare: prima è Napoleone a richiedere metodi di lunga conservazione del cibo, ed arriva la sterilizzazione in vetro; poi negli anni trenta dell’Ottocento si inventa la lattina stagnata, e circa 150 anni fa arriva anche l’apriscatole, più comodo della baionetta e più adatto alle signore.
Così il piemontese signor Cirio comincia a produrre ed inscatolare salsa di pomodoro, seguito da industriali dell’area di Parma: la pommarola è settentrionale. E nella seconda metà dell’Ottocento, come si vede in Artusi, la salsa di pomodoro incontra il ragù, che come dice il nome è francese (ragout): era una ricca salsa di molti ingredienti (non pomodoro) che accompagnava i piatti di carne. In Italia si semplifica e si adatta alla cucina borghese: per i poveri, polenta. Gran parte delle ricette poi prevede di cuocerlo con lo strutto, anche a Napoli, l’olio EVO giaceva nel lontano futuro con le sue cultivar; i produttori di olio miscelavano oli da tutto il Mediterraneo per ottenere un prodotto medio e non troppo costoso, ed era un’industria anche questa, con forte insediamento in Liguria.
La stessa Liguria che produceva la pasta secca, addirittura dal Medioevo, ma solo dall’Ottocento in forma industriale, importando il grano dal Sud ma ancora di più dall’estero, Ucraina in testa. Però l’incontro decisivo di pasta secca, salsa di pomodoro e carne avviene tra i migranti in USA: vi trovano industrie di pasta e pomodoro, e hanno il denaro per la carne: spaghetti and meatballs è vera cucina italiana tradizionale. Poi la prima guerra mondiale trasforma i migranti italiani, i disprezzati wops (terroni) in preziosi alleati, e gli spaghetti diventano popolari, tanto che Buitoni apre negli anni Trenta a New York una spaghetteria in cui le porzioni scorrono su un nastro trasportatore: decenni prima del sushi.
Sempre in America la salsa di pomodoro incontra la pizza, che sino a fine Ottocento era cibo per poveri nella sola Napoli: così la descrive Matilde Serao: «di una pasta densa, che si brucia, ma non si cuoce, cariche di pomidoro quasi crudo, di aglio, di pepe, di origano…tagliate in tanti settori da un soldo…che si gelano al freddo, che s’ingialliscono al sole, mangiati dalle mosche»; qui il pomodoro è fresco; invece negli USA la pizza cuoce bene nei forni (a carbone, ovviamente) e si ricopre di salsa di pomodoro (in scatola) e formaggi filanti, di produzione americana; poi si possono aggiungere altri ingredienti a piacimento. Le pizzerie in Italia, sostituendo i pizzaioli ambulanti, arriveranno solo dagli anni Cinquanta, dopo la guerra, su impulso americano.
Del resto la più probabile nascita della carbonara la riporta all’unione di pasta secca con la lattina di eggs and bacon della razione militare americana; di fatto non si trovano piatti con i caratteri della carbonara prima del 1950, e per tutto il Novecento la maggioranza delle ricette prevede pancetta, cipolla, aglio, panna e pure vongole (oggi gli chef stellati si “inventano” la carbonara di mare: già fatto).
Le smanie di certificare ogni cosa (DOP, IGP, De.Co, disciplinari) rispecchiano la fragilità delle tradizioni e un certo senso di inferiorità italiano; l’Italia ha il maggior numero di denominazioni per la ricchezza del suo territorio, ma anche per questo senso di inferiorità. Giuste le regole a difesa del consumatore, ma aveva ragione Eraclito: se non ci si bagna due volte nello stesso fiume, non si mangia due volte lo stesso piatto e non si beve due volte lo stesso vino. Panta Rei.
Così tra qualche decennio avremo la sagra del Grillo, e gli spaghetti grillini saranno al centro di furiose polemiche, se con aglio o cipolla, con olio o burro, accompagnati da vino bianco o rosso; l’importante è mettere prima il formaggio e poi il sugo, per un Italiano Vero. E ogni sagra riporterà le origini a Napoleone, Carlo Magno, Giulio Cesare, che, a giudicare dagli storytelling delle manifestazioni, più che condottieri erano ispettori della Michelin. Storytelling, traduzione italiana: vender fumo, cacciar balle.