COLETTE, o dell’invincibile anelito alla vita. Seconda parte

Colette fotografata da Henri Manuel (Wikimedia Commons)

Colette fotografata da Henri Manuel (Wikimedia Commons)

ANNA STELLA SCERBO

(La prima parte si trova qui)

Durante la prima guerra mondiale, dal Dicembre del 1916 al Marzo del 1917, Colette è in Italia. Lo ricorderà in Flore et Pomone. Incontra D’Annunzio, coltiva amicizie altolocate, le piacciono le bellezze visive della guerra: «I lampi rosa dei cannoni», «la fiammata rosa del proiettile che parte» Comincia a interessarsi al cinema. Il suo primo articolo sul cinema era uscito nel 1914 su Le Matin. Continua a scriverne su Femina e in Le film nel ’17.
Scrive Louis Delluc, redattore capo di Le Film: «La modernità di gusto […] della signora Colette ha affrontato il cinema con profonda comprensione. Spettatrice di sé stessa e della vita […] ella è giunta allo schermo e ai suoi misteri per legge pressoché naturale»
Intanto la percezione di Colette era mutata. La generazione successiva alla sua non prendeva più in considerazione l’essere stata Colette la donna scandalosamente nuda sulla scena che alimentava curiosità malsane. Ora Colette è la scrittrice e sulla su opera sia concentrano i pareri dei critici e le simpatie o antipatie del pubblico.
Colette aveva inviato a Proust, appena dopo la pubblicazione, Mitsou.
Proust, a Colette un frammento di À la recherche du temps perdu. Troppo lungo per la redazione del Matin, gli fece notare lei.
Per Proust fu l’ultima collaborazione col Matin, Colette sentì con imbarazzo di avere urtato un lettore così eccellente.
Insieme nel Settembre del 1920 ricevono la Legion d’onore. Colette si congratula con Proust. Proust risponde da gentiluomo e da estimatore: «Se vi dico: Sono io ad essere fiero di venire decorato insieme all’autore del geniale Chéri, temo di lasciar capire che prendo le vostre congratulazioni troppo sul serio».
Il romanzo Chèri era uscito ai primi di luglio. Era stata prima una pièce, rappresentata per la prima volta al Théâtre Michel il 13 Dicembre 1921.
Intanto il matrimonio con Henry de Jouvenel naufragava; Colette scrive, il 6 gennaio del ‘23 a Christiane Mendelys, anche lei vittima di un marito fedifrago: «Sono sola da un mese, è partito senza dire una parola mentre facevo un giro di conferenze. Divorzio!»
La sentenza di divorzio è pronunciata il 6 aprile del 1925.
Qualche anno prima Colette, precisamente durante l’estate del 1920, aveva conosciuto Bertrand, il figlio di Henry. Fu certo l’innocenza del ragazzo appena diciassettenne ad attrarre Colette che lo iniziò ai piaceri dell’amore. In autunno vanno a Saint- Sauveur e Bertrand si vanterà di essere stato lui a far scrivere a Colette La maison de Claudine che fu pubblicato alla fine di giugno del 1922.
Nel febbraio del 1925 il nuovo amore di Colette si chiama Maurice Goudeket, ebreo, commerciante di perle, molto più giovane di lei. Trascorrono, l’ultima settimana di luglio e i primi di agosto, nel Var. Colette è affascinata dalla Provenza e dalla Costa Azzurra ma deve riprendere la tournée con Chèri. Solo a fine anno può riposare e trascorrere una manciata di giorni al Golf-Hôtel di Beauvallon sempre con Goudeket.
La convivenza con Goudeket era cominciata quando Colette figlia aveva 12 anni. Ovvio constatare che l’odio verso l’amante della madre che dichiarerà apertamente in seguito, era di ugual peso della sofferenza per la disattenzione della madre verso di lei.
«[…] Un bambino accetta difficilmente di dover dividere la propria madre con altri […] dovevo imparare a dividerla con un’“opera” non potrei affermare che questa entità mi apparisse in tutto il suo splendore. L’entità esigeva il mio silenzio, che me ne stessi in disparte e che sembrassi felice […].
Colette però non è così distante dall’educazione della figlia. Viene a sapere che la figlia fuma e che di ciò si vanta: «Tesoro mio è una grande sicurezza che si assume in sé stessi, quando si può dire: non ho preso altre abitudini nella mia vita, al di fuori di mangiare, bere e dormire. Non diffidare dal pericolo specifico, diffida dall’abitudine. Essa fa di noi dei vigliacchi e dei bugiardi. […] Ho per te non un’ambizione di posizione ma un’ambizione di carattere. Capisci quello che voglio dire? Solo attraverso di te, posso fiorire»
Nell’estate del ’29, Colette ritrova intatte le virtù del Mediterraneo. Nei pressi di Saint- Tropez, si stabilisce in una casa «dal tetto rosso e dai muri bianchi», la Treille muscate, lavora in una stanza che «è un grande cubo di cemento dietro la casa.»
«Ebbene sì, cari amici, lavoro e fatico. Che razza di lavoro forzato doversi rinchiudere qua dentro quindici ore al giorno mentre fuori fa così bello. Volete vedere il mio giardino, volete vedere la mia vigna?»
Il 1931 è l’anno in cui la crisi dell’economia colpisce più duramente alcuni settori. Goudeket vede calare rovinosamente le sue entrate. Colette non si dà per vinta, ama i piaceri della vita e mette in atto, nel 1932, un progetto, alquanto inusuale per una scrittrice.
«INVITO
«Inauguro il mio negozio di prodotti di bellezza, mercoledì primo Giugno e i due giorno successivi. Sarei lieta, signora, di accogliervi di persona al n. 6 della rue de Miromesnil, e di consigliarvi i prodotti più idonei per la scena e per la vita di tutti i giorni.»
Il commercio di cosmetici non dura a lungo. Molti le rimproverano di trascurare la scrittura.
Nel 1936 entra nell’olimpo dei classici con una raccolta di Textes choisis a cura di Pierre Clarac, docente emerito della Scuola Normale Superiore.
Colette è assediata da richieste, scrive testi pubblicitari, risponde a interviste, frequenta salotti letterari ma le entrate restano poche. Ha i diritti d’autore e dal ’33 al ’37 anche il reddito della collaborazione con Le journal.
Il 4 aprile dl ’36 è ammessa all’Académie Royale de Langue et de Littérature Française. Colette è agitata ma non lo dà a vedere. Vestita di nero con un fazzoletto sgargiante, i piedi nudi con le unghie laccate di rosso dentro sandali senza tacco, recita il suo ruolo con grande appeal non senza aver bisbigliato prima del pranzo ufficiale, all’orecchio di M. Martin du Gard: «A me i posti in cui non posso dire “M…” mi indispongono»
Nel gennaio del 1938 Colette trasloca nell’ultimo appartamento che abiterà a Parigi. Al primo piano del 9 di rue de Beaujolaise. La vista è sui giardini del Palais-Royal. Fino a notte fonda, le menti più brillanti di Parigi fanno di questo luogo, un’oasi di intenso fervore letterario. Il mondo si avvia alla guerra, Colette lascia Le journal e firma per Paris soir.
Il 3 settembre la Gran Bretagna e la Francia dichiarano guerra alla Germania. Per Colette comincia la lunga sofferenza per l’artrosi all’anca e l’artrite alle articolazioni.
«Il suo viso è dimagrito, il suo sguardo estremamente commovente. Vi è in lei qualcosa che non posso definire, un cedimento […]», scrive René Hamon nel suo diario.
Nonostante questo, presta servizio insieme a Gouodeket alla radio Paris Mondial che trasmette all’estero. Legge, alle due e quindici di notte, per via del fuso orario, in francese, le prime frasi di un testo seguite poi da una traduzione in simultanea.
Negli anni del conflitto mondiale, nonostante le restrizioni degli approvvigionamenti, Colette, che ama mangiare molto e bene, fa ricorso alle sue amicizie perché non le manchi un buon pollo di Nantes o il cosciotto della rue de Seine o perché possa continuare a frequentare i suoi ristoranti preferiti. È il mercato nero a garantirle il benessere alimentare.
Quello fisico, invece, è pressoché irrecuperabile. All’artrite si aggiungono numerose bronchiti e le terapie, varie e tutte dettate da eminenti specialisti, non producono se non temporanei miglioramenti.
Il 12 dicembre del 1941, Goudeket è arrestato e inviato in un campo di concentramento presso Compiègne.
Forse che Colette si arrende a quello che era di fatto un destino inevitabile? Affronta ogni possibile rischio, ogni umiliazione. Nessuno considera colpevoli i suoi contatti con i Tedeschi e i collaborazionisti, e il 2 di febbraio 1942, uno smagrito ma, immaginiamo comprensibilmente incredulo e felice Goudeket, fu liberato.
Colette non si tira indietro quando, dal 1942, i ricavati dei concerti vennero devoluti alla Croce Rossa e al Secours National (Soccorso Nazionale). Negli anni intrabellici, Vichy era la capitale estiva della musica. l’Armistizio tra la Francia e la Germania nel 1940, la priva della libertà di cui aveva goduto fino ad allora.
Su La Semaine del 5 marzo, viene pubblicato un dettato sulla solidarietà, riservato agli scolari di Francia e che così si conclude: «[…] Possano le vostre mani, bambini di Francia, abbandonarsi all’impulso della solidarietà che parla la stessa lingua della pietà, della maternità e dell’amore e trasmette attraverso ogni bocca vivente, a ogni orecchio vivente, le tre parole così belle: “Datevi la mano”»
Dopo lo sbarco degli alleati, nel 1944 viene pubblicato a Losanna, Gigi e dopo la Liberazione, nel 1945 a Parigi. Dal 1946 viene tradotto in America. Gigi non è una favola. Scritto per essere messo in scena, è piuttosto un racconto romanzesco, l’ultimo di Colette col quale ebbe un successo senza pari. Nel 1951, il 24 novembre, verrà rappresentata al Fulton Theatre di New York.
Gigi è Audrey Heburn. Era stata Colette a scoprirla nella hall dell’Hôtel de Paris, a Monaco, così si dice. Nel 1958, a Hollywood, Gigi, divenuto film musicale con la regia di Vincent Minnelli, vince nove Oscar.

La fama di Colette, già consolidata negli anni trenta, si rafforza negli anni quaranta. Compaiono biografie e articoli e, dopo ogni sua pubblicazione critici e scrittori si affaticano per scoprire se ci sia un rinnovamento in quello che ormai appare essere un mero esercizio di stile, su una visione del mondo e della vita sempre uguale a sé stessa. Ramon Fernandez, scrittore, dice di lei: «Il problema del destino […] il peso dell’anima e del corpo, tutto questo è assente dall’opera di Colette». Per poi aggiungere. «[…] Non è forse perché il mondo moderno era organizzato in modo tale che le grandi menti potessero essere distratte davanti a questi problemi?»
C’è in Colette un contrasto pressoché indecifrabile tra gli atti e le scelte della propria vita, piena di tutte le avventure possibili e di tutte le possibili declinazioni amorose e sessuali e quel fondo di innegabile onestà e purezza che la portava verso il lato poetico della vita, verso l’infinito del mondo che lei scopriva, nelle immagini sublimi della natura e forse le sue origini contadine ne erano la causa o una delle cause.
«[…] Canzoni ne ho conosciute tante, nella mia infanzia, senza mai averle imparate, come fossero nate insieme a me […] il loro ritmo è vivace o lento, come quello dei passi o del cuore umano. Sono canzoni contadine. Quando le canto, per me soltanto, rivedo la nebbia sugli stagni azzurri, le zolle arate fumanti […]
In quello che lei chiamava «un alfabeto nuovo» le parole accoglievano il mondo e lo proiettavano oltre la miseria degli animi e della storia, oltre le prove che la vita le imponeva. E le parole sono segni non equivocabili. Le parole di Colette, fossero quelle del vaudeville o quelle ancora della letteratura pura, salvavano il piacere di vivere dal pericolo di una vacua opacità.
Lontanissima dai modelli letterari di Virginia Wolf o della Dickinson, avversa alle femministe, Colette per altre vie anticipa il cambiamento della mentalità femminile fornendo lei stessa l’esempio di un’emancipazione anche economica che persegue con tenacia.
Dominique Desanti, sul periodico comunista Femmes Françaises scrive: «Colette ha messo in scena donne […] oziose, sballottate dal caso, rose dai vizi e che finiscono per sprofondare nella disperazione. Tuttavia, il sapore della vita, il gusto della felicità sgorgano dai suoi libri. […] È il miracolo di questa scrittrice […]
Mi sono sempre chiesta cosa sarebbe restato, una volta eliminato il miracolo delle parole? Probabilmente la sincerità senza ipocrisie […] la nostalgia della semplicità, della purezza […] Si attarda sui momenti di crisi, di passione, di rinuncia, poiché la sofferenza fa sì che ogni essere renda ciò che ha di intatto […]»
Dal 1949, Colette è completamente immobilizzata, ha sofferenze terribili ma considera «le litanie sui mali inguaribili come mancanza di tatto o volgarità.»
Le Fanal bleu, ultimo suo libro, risente di una scrittura stanca, rapsodica ma dotata comunque della fascinazione che l’animo di Colette riusciva a trasmettere.
«È finita, non scrivo più nulla, è il mio ultimo libro, a meno che Maurice non abbia bisogno di soldi»
Non era finita del tutto, fino al 1953 piovvero su di lei riconoscimenti e onorificenze.
All’inizio del 1950, Colette è ospite, con Goudeket del Principe di Monaco Ranieri III. All’Hôtel de Paris, lavora all’adattamento per la scena di La Seconde.
Goudeket si intrometteva, entrava nei dettagli, trattava con i produttori, si definiva l’amministratore del Talento di Colette. I rituali di Henri si ripetevano.
A lei toccava la supervisione. Quando, dopo varie rappresentazioni si comprese che La Seconde aveva suscitato solo una tiepida accoglienza, fu Colette a dire: «Mettiamoci una croce sopra».
Di sicuro, Colette, ormai costretta a non potersi muovere per l’inasprirsi della sua dura padrona, l’artrite, non mette una croce sopra alle continue onorificenze che le giungono. Non si sa se le gradisse veramente. I suoi ottanta anni diventano un continuo profluvio di omaggi e di riconoscimento alla sua opera e alla sua pur controversa personalità. Tra gli altri scrivono su Le Figaro Littéraire, numero speciale del 24 gennaio 1953, Hommage à Colette pour ses 80 ans, Gide, Valery, Proust, Mauriac, Rebecca West e altre personalità di grande rilievo.
Il 28 dello stesso mese il rappresentante del Consiglio Municipale della capitale e il Presidente, Moatti, le consegnano la grande Medaglia della Città di Parigi. Stampa, Radio e Televisione riportano l’evento. Colette, può vedersi perché Maurice le ha fatto dono di un televisore.
Il 19 Gennaio del 1954, a favore del fondo di Solidarité Universitaire, durante la serata di gala del film Le Blé en herbe, Colette registra su disco un messaggio riservato agli studenti.
Intanto gli stati di letargia si fanno più frequenti: «Colette è felice tra le nuvole, non soffre più […] il grave è che diventa dolce».
Colette muore la sera del 3 Agosto 1954, alle otto e mezza. Sul rifiuto della Chiesa di accoglierne le spoglie, Graham Green, su Le Figaro littérarie creò un caso mediatico. La Chiesa dovette difendere le sue posizioni e i lettori non mancarono di intervenire. Sabato 7 agosto, ricevette le esequie nazionali per volere della Repubblica, nel cortile d’onore del Palais Royal.

«Mi piacerebbe…
1, ricominciare…
2, ricominciare…
3, ricominciare…
Ripensandoci, mi sembra che non siano sempre stati comodi, questi settantanove anni, ma come sono stati brevi!
Colette»
Lo aveva scritto due anni prima ancora una volta confermando il suo invincibile anelito alla vita.

(A cura di Silvia Pio)

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