Il Malpasso

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GIUSEPPE PRIALE

Nell’estate del ’45 a Prea non si trovava più neanche una goccia di latte, perché, come avveniva da sempre, tutto il bestiame e buona parte degli abitanti erano saliti ai tèč, ai casolari di mezza montagna, dai quali sarebbero scesi per la raccolta delle castagne.

Per evitare che le capre dessero una mano nella raccolta del prezioso frutto, in autunno venivano mandate in cřavèřa, cioè venivano riunite in un solo gregge sotto la tutela di un capraio (cřavé). Il quale, per una quarantina di giorni, le teneva al pascolo oltre i 900 metri – limite dei castagni in Val Ellero -accontentandosi del fřüč – frutti derivati dal latte – per il compenso.

Dopo i Santi, le capre ritornavano ai proprietari. Allora potevano liberamente andare al pascolo nei castagneti e spigolare (spiuřò) le castagne dimenticate assieme ai poveri del paese, ai quali era concesso di raccogliere anche la legna abbandonata.

Se mettere assieme le capre era un’operazione semplice – per loro era una festa –, non lo era altrettanto separarle alla fine del piacevole soggiorno autunnale di mezza montagna. All’intera compagnia caprina – ingravidata dai cornutissimi signori del gregge – dispiaceva dover ritornare al paese e finire imprigionata in un recinto (triàu), dove i proprietari andavano a separare (triò) i propri capi da quelli altrui. La separazione (triàğ), che avveniva fra alti belati d’addio e di arrivederci, segnava malinconicamente la fine della loro colonia autunnale.

Le capre saranno anche dei quadrupedi ignoranti – come “sgarbatamente” vengono qualificate – ma non sono prive di sensibilità, quella che a volte manca al sapere ideologizzato di certi maestri del pensiero, che hanno creduto o credono ancora di avere la ricetta per costruire un mondo nuovo, un mondo finalmente senza guerre e senza fame.

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A Prea nell’estate del ’45 non c’era più la guerra, ma era rimasta la fame. E a noi quattro bambini mancava il latte. Di quello conservato, comprato alla bottega (butea), non si parlava ancora. A quei tempi il latte era solo quello caldo e schiumoso che proveniva direttamente dalla “fonte”, attivata dal malgaro a due mani, sempre se la mucca era nel periodo di produrlo o se la sua “latteria” non era stata prosciugata dagli “aventi diritto di prelazione”.

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Quando d’estate a Prea nessuna fonte lattifera era disponibile e quella di Roccaforte dei nonni paterni era troppo lontana per il fabbisogno giornaliero di quattro bocche ancora da latte, la fonte più vicina era quella dei Piani di Norea – una località all’inizio dell’Alta Val Ellero – a due chilometri di distanza dal paese. Allora la mamma – vedova da pochi mesi – mandava mio fratello Giovanni, di sei anni, a prenderne un bidoncino (barachìn) dalla Ramagneta, una vecchietta che, dopo la morte del marito, si era disfatta del piccolo capitale bovino (cavià), ma aveva ancora tenuto una vaccarella, perché vecchiotta un po’ come lei, quindi di scarso valore economico, ma non affettivo. Il fatto che la tenesse sempre per la cavezza quando la pascolava, stava a dimostrare quale fosse il legame fra loro.

Una volta Giovanni ritardò un po’ troppo a far ritorno, pur passando per la scorciatoia della Cařò (Calata), un tratto alquanto dissestato dell’antica mulattiera. Allora la mamma gli andò incontro con noi tre bambini per mano (Penso che sia stata l’ultima volta che ci siamo presi per mano, perché poco dopo – morta anche la mamma – fummo dispersi ai quattro venti da una diaspora senza ritorno). A metà strada trovammo solo il barachìn rovesciato e senza coperchio, vicino ad una pietra sporgente, probabile causa dell’incidente. Ma di Giovanni nessuna traccia. Al richiamo disperato della mamma, rispose un pianto che saliva dal fondo scosceso del greppo (ribàs). Il povero Giovanni stava cercando – quasi al buio, in mezzo ai cespugli e agli sterpi – il coperchio a tappo che, cadendo a terra, non aveva retto alla spinta del latte ed era rotolato chissà dove.

Il barachìn d’alluminio – privo del suo “baschetto” con il pomello nel mezzo – non venne più usato, né Giovanni venne più mandato ai Piani a prendere il latte. Ora giace – un po’ ammaccato e ingrigito dal tempo – nella parte bassa e buia di un vecchio armadio (giüieřa) con le ante superiori a vetri opachi, che una volta avevano pudicamente celato tazzine con il bordo dorato, calici modesti e bicchierini da cichèt, non certo di cristallo: i soli “gioielli” che la povera gente possedeva, ma che non amava ostentare per rispetto di chi non possedeva neanche quelli.

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Quando ora mi capita di aprire il vecchio armadio – ormai ridotto a contenitore di cianfrusaglie – mi soffermo a guardare per un momento il vecchio barachìn, che mi fa ricordare non solo il latte versato da mio fratello, ma anche quello versato da me proprio nello stesso punto della mulattiera e  nella stessa parte del giorno dell’anno precedente.

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In un tardo pomeriggio del ’44 – probabilmente era estate – mio padre ed io tornavamo da far visita ai nonni di Roccaforte: lui con lo zaino pieno di materiale per calzature, io a cavalluccio con la funzione di “salvacondotto”, indispensabile per attraversare una zona dove la Resistenza era particolarmente attiva. Arrivati, sul far della notte, quasi al termine della mulattiera, con una mia improvvisa acrobazia – probabilmente causata da un inciampamento di mio padre – feci cadere la bottiglia del latte che nonna Caterina era riuscita ancora ad infilare in qualche parte esterna dello zaino. Il rumore della bottiglia, andata in frantumi, mise in allarme la sentinella del blocco che i partigiani avevano posto presso il pilone di Sant’Anna, dove la mulattiera sbocca nella strada carrozzabile. All’altolà chi va là, mio padre non rispose con la parola d’ordine che non conosceva, ma con il proprio nome, cognome e professione. Superammo il blocco senza difficoltà, perché quei partigiani erano soliti venire a casa nostra a farsi aggiustare gli scarponi e a sentire Radio Londra al nostro apparecchio, che era regolarmente disturbato dal solito “temporale” del Regime nero.

Già quella volta, il mattino dopo, noi bambini eravamo rimasti senza latte a colazione, molto probabilmente per colpa di quella “pietra d’inciampo”, che per due volte aveva fatto sentire la sua presenza premonitrice. La prima volta pochi mesi prima della perdita del papà per mano dei nazifascisti; la seconda volta pochi mesi prima della perdita della mamma, vittima di due “cecchini” (tifo e paratifo), lasciati dalla guerra a completare la sua opera nefasta.

Il medico condotto, chiamato d’urgenza, non intervenne immediatamente, perché impegnato in una  partita di caccia – appena aperta -, quando la caccia ai fascisti non era ancora stata chiusa (molte volte la vendetta privata passava come assassinio politico rispettabile) e il Paese rischiava di passare dal regime nero a quello  rosso, quando il vento dell’est, a quel tempo, soffiava  forte.

Allora fu chiamato il parroco, che non andava a caccia e aveva in cura solo le anime dei suoi parrocchiani. Confessò e comunicò la mamma, prima di impartirle l’Unzione dei malati: era tutto l’occorrente per l’ultimo viaggio, una volta  chiamato giustamente Viatico.

Il medico venne il giorno dopo, solo per diagnosticare – a tempo scaduto – la causa della morte, dovuta ai due killer che, dopo la guerra, stavano mietendo vittime un po’ ovunque.

Don Giovanni Milano aveva partecipato alla Prima guerra mondiale come tanti altri chierici che non avevano ancora ricevuto l’ordine del diaconato. Molti di essi persero la vita, non pochi anche la vocazione al sacerdozio. Don Giovanni perse l’indice della mano destra, il dito che aveva usato per premere il grilletto per uccidere, ma non perse la vocazione per la salute delle anime.

Notai la sua menomazione quando – a cinque anni – mi diede l’ostia della Prima comunione, il giorno della festa patronale della S.S. Trinità del ’45. Di quel giorno conservo la fotografia che la mamma mi aveva scattato assieme a Giovanni – anche lui comunicato la prima volta a sei anni – con una “scatolina” della gloriosa e italica Ferrania sul sagrato della chiesa davanti al monumento dei Caduti, tra i quali il nonno materno, Giuseppe Somà, caduto sul Carso nel ‘17, ma salvato dall’onta di Caporetto.

Quella fu forse l’ultima foto che la mamma ci fece, prima di cadere anche lei vittima della guerra e del dopoguerra, ma non ricordata da nessuna lapide.

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Tornando alle due coincidenze, non posso fare a meno di cogliere in ognuna di esse anche due generi di privazione. La privazione del latte necessario per la crescita fisica, poi la privazione dei genitori, indispensabili per la crescita psichica dei figli.

In seguito, altre coincidenze – non meno straordinarie – mi hanno sempre più convinto che la storia, individuale e universale, sia scritta sulla trama ordita dal Gran Tessitore, che da sempre fa andare, con sapienza, la spola al buio della sua luce, invisibile agli occhi di chi vede ancora la luce del sole sorgere ogni giorno in un sereno o fosco mattino e morire la sera in un mare di fuoco o in una colata di piombo.

A volte mi viene da pensar che, durante la vita, certi percorsi obbligati, certi divieti di accesso, certe strane coincidenze, mancate o inaspettate, non siano dovute al caso, ma siano la rivelazione dell’Assoluto in incognito, come affermava Albert Einstein, teorico della relatività generale.

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Nonna Margherita – che non s’intendeva di relatività generale, ma di relatività particolare, né si aspettava che d’estate il latte potesse piovere dal cielo, come la biblica manna del deserto – comprò Cornèt, una magnifica capra dalle corna di camoscio, corteggiata e contesa dai signori del gregge, quando in autunno, felice e contenta, andava anch’essa in cravèřa. Fu così che Cornèt  in pochi anni diventò la capostipite di un piccolo gregge (strup), che la nonna portava a pascolare solitamente al Malpasso (Mařpas), un luogo veramente da capre – con anfratti e fitta  boscaglia – dove durante la Resistenza andavano a nascondersi i giovani  del paese renitenti alla leva e alcuni soldati sbandati, per sfuggire ai rastrellamenti.

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Mio padre pensava di non aver alcun motivo per andare ad “imboscarsi” anche lui al Malpasso o da qualche altra parte. Ma essendo stato segnalato come fiancheggiatore dei partigiani, solitamente veniva punito con una notte al palo, quando gli facevano “visita” quelli delle brigate nere. Alla visita fattagli nel dicembre del ’44 non si fece trovare in casa. Preferì rifugiarsi sulle montagne della Val Maudagna presso i suoi amici partigiani, piuttosto che passare una nottata all’addiaccio legato al frassino vicino a casa. Ma gli andò peggio quel 12 dicembre del ’44.

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Un giorno che portavamo le capre al pascolo del Malpasso – appena superato il rio (riàn) omonimo della stretta e chiusa valletta, difficile da superare come dice il nome – la nonna mi indicò un piccolo spiazzo, dove durante la guerra (partigiana) erano state sommariamente sepolte alcune persone con le punte delle scarpe fuori dalla fossa.

Finita la guerra, le salme vennero riesumate, ma nessuna lapide fu posta per ricordare i loro nomi. In seguito, nessuna luce venne fatta sull’oscura vicenda. In paese non girò mai la benché minima diceria: silenzio e buio assoluti. Solo otto pietre – disposte ad arco, non per un gioco del caso – indicano ancora il luogo della provvisoria sepoltura e molto probabilmente anche il numero delle vittime, note soltanto al rio che lambisce il piccolo spiazzo e unico testimone oculare per un processo che non è stato e non sarà mai aperto. Ma le sue acque cristalline – che continuano a scorrere veloci fra pietre pulite e in cascatelle d’argento – mormorano ancora all’orecchio attento di qualche raro passante tutto il loro disappunto per ciò che hanno visto e udito. Ma quelle grezze e mute “lapidi” bisognerebbe aggiungerne un’altra, quella della verità, rimasta sepolta per sempre in quel piccolo cimitero provvisorio, risalente alla seconda fase della guerra, quella civile, ecumenicamente chiamata Resistenza o di Liberazione (dal nazifascismo), ma anche di liberazione del peggio che si cela nella natura umana, come succede da sempre in tutte le guerre. Non di rado, infatti, la narrazione ufficiale della Resistenza ha tenuto nascoste oscure vicende sotto cumuli di menzogne “veritiere” e di silenzi omertosi: pagine strappate dal libro della sua storia corrente, perché incompatibili con la sua epopea. La quale, però, rischia di regredire a leggenda, se le verità più scomode vengono negate o sotterrate negli archivi segreti, a scapito della credibilità della parte migliore di essa.

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Un paio di anni dopo la fine della guerra il rio del Malpasso fu ancora testimone di altri due episodi – legati fra loro da uno stretto rapporto di causa ed effetto – che mi hanno coinvolto e anche sconvolto profondamente.

Una volta che da solo conducevo al pascolo le capre (la nonna già si fidava di me che potevo avere dai sette agli otto anni), una di esse (una bima, capra di due anni) cominciò ad un certo punto a rallentare il passo, a staccarsi dalle altre, a barcollare e indietreggiare. Poi stramazzò a terra con un belato straziante, quasi umano, soffocato da un grosso rigurgito di sangue. Date alcune frenetiche scalciate (slinc) rimase immobile come un masso, mentre le altre, senza voltarsi indietro, anzi accelerando il passo, raggiungevano il pascolo del Malpasso, un toponimo che non potrebbe essere più appropriato, non solo dal punto di vista geografico, ma per me anche esistenziale.

La morte della bima, stramazzata davanti ai miei piedi, mi sconvolse a tal punto che lasciai le altre al loro destino. In preda all’angoscia, corsi a casa per dire alla nonna cos’era capitato alla giovane capra, ma non quello che era capitato a me. Per la prima volta avevo capito di non essere immortale, che anch’io un giorno avrei dovuto morire, che anche la vita delle persone ha un inizio e poi una fine.

Fino a pochi anni prima, infatti, la vista di un maiale sgozzato – appeso con le zampe posteriori fra lacerti grugniti e disperati divincolamenti – non mi aveva turbato più di tanto. Non avevo ancora mai visto la morte stampata sul viso marmoreo di un defunto. Anche la morte dei miei genitori aveva avuto su di me l’effetto che poteva avere una loro momentanea assenza: non versai neppure una lacrima. In seguito ne versai più di una, ma di quelle aride che lacerano l’anima e segnano la vita per sempre.

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Ci voleva la morte improvvisa della giovane capra sulla mulattiera del Malpasso per cacciarmi brutalmente dal paradiso terrestre della mia infanzia e precipitarmi, senza più le ali dell’innocenza, nell’aggrovigliato mondo terrestre, una  piccola zolla dell’ universo che ha reso sempre feroci gli uomini che se la sono contesa come iene fameliche.

Con il passare degli anni presi a concepire la vita chiusa come in un cerchio, tracciato da Chi ha in mano il compasso della nostra esistenza. Presi a concepire la vita come una condanna capitale senza appello, come se vivere fosse un reato da pagare con la pena di morte, della cui esecuzione non si conosce né la data, né il modo. Perciò, il cosiddetto “male di vivere” è solo un supplemento di pena alla “fatal quiete”, anticipata a volte da qualcuno con il gesto insano di una “libera scelta”, ma strappata dalle mani del Padrone della vita, quando la speranza in un’altra – non più circolare ma rettilinea senza fine – viene a mancare. Quella speranza – fondata sulla teologia della sofferenza salvifica, sublimata e consacrata dal sacrificio della Croce – che un Uomo della “Galilea delle genti” è venuto a portare agli uomini, insegnando come superare “il male di vivere” e l’angoscia del difficile passo della morte. Speranza che, per grazia divina, diventa fede in una vita che continua “in un’altra dimensione”, come dice il cantautore Franco Battiato in alcune sue canzoni a sfondo esistenziale-religioso, senza però precisare che la nuova esistenza sarà nella Luce o nelle Tenebre eterne e che sta all’uomo – durante il “transito terrestre” – prendere la strada giusta (non la più dritta e piana), quella che porta alla Luce “senza fine né principio”.

(A cura di Silvia Pio)