PAOLO LAMBERTI
Francesco d’Assisi è un’icona del pacifismo moderno: ma il tema della pace non era centrale ai tempi suoi e della nascita del suo ordine; lo dimostra il canto XI del Paradiso. Qui Dante cerca un difficile equilibrio tra il Francesco della povertà, che ispira la corrente degli spirituali, e il Francesco delle stimmate, l’alter Christus voluto da San Bonaventura e dai conventuali; i termini pace e guerra compaiono solo in forma traslata. Del resto il nascente ordine è tutt’altro che irenico, diviso da rivalità feroci, tanto che Ubertino, il da Casal dantesco, verrà accoltellato a morte, in fuga dai confratelli: e non è l’unico a finire liquidato negli scontri interni.
Ma non va dimenticato come il giovane Francesco, lungi dall’essere pacifista, si sia dedicato al maneggio delle armi. Nel XII secolo a fianco dell’aristocrazia nasce un nuovo ceto mercantile, ricco e politicamente ambizioso: ad Assisi ne fa parte anche Pietro Bernardone, il cui figlio, battezzato Giovanni, è rinominato Francesco in onore della Francia grazie alla quale il padre ha fatto fortuna; del resto la madre è provenzale, e il figlio cresce leggendo i poemi cavallereschi. Pur lavorando con il padre, la sua ambizione è quella di entrare nei circoli degli aristocratici, e quindi aspira a divenire cavaliere, attraverso il maneggio delle armi. Grazie al denaro del padre si procura una costosa armatura ed un ancor più costoso cavallo da battaglia, e nel 1202 si unisce alle forze assisiati, ghibelline, contro i perugini guelfi che hanno l’appoggio delle famiglie guelfe nobili di Assisi, mandate in esilio. Una situazione analoga a quella di Dante a Campaldino, cavaliere tra i guelfi fiorentini contro gli esiliati ghibellini di Firenze e gli aretini.
Sia a Campaldino (1289) che a Collestrada (1202) le schiere di Dante e Francesco sono travolte; ma se Dante, che pure n’ebbe temenza molta, vede l’esito della battaglia rovesciarsi proprio grazie al Corso Donati che poi lo esilierà, a Francesco va peggio. Probabilmente disarcionato e riempito di botte, cavallo ed armatura gli vengono sottratti e lui finisce sino al novembre 1203 in una segreta: però, come ricordano le biografie, siccome viveva alla maniera dei nobili lo imprigionarono con i cavalieri; dalla prigionia, more solito, lo tireranno fuori i soldi del padre. Armare e salvare il soldato Francesco è costato un capitale, non certo risarcito dalla riconsegna degli abiti al genitore; oltretutto Francesco non si rassegna e cerca nel 1205 di unirsi a Gualtieri III di Brienne, impegnato in Puglia nel tentativo di occupare una serie di feudi con l’appoggio del papa e contro i nobili tedeschi e locali che controllavano il regno di Sicilia in nome del piccolo Federico II. Ma la malattia ferma Francesco a Spoleto, e da quel momento le sue aspirazioni passano dalla gloria delle armi a quella degli altari.
Una scelta saggia, anche perché per fare il cavaliere nel Medioevo ci voleva un fisico bestiale: Dante evidentemente l’aveva, mentre Francesco è piccolo, mingherlino e brutto: dispitto a maraviglia lo definisce Dante, e l’iconografia conferma tale descrizione, come si vede nel bel libro di Chiara Frugoni, L’invenzione delle stimmate.
In conclusione, come spesso accade, il pacifismo è l’esito di una sconfitta, l’approdo di un soldato mancato. Del resto Francesco torna nel mondo della guerra in occasione della quinta crociata, recandosi in Egitto nel 1219, e incontrando il sultano al Malik; le fonti sono incerte sullo scopo della visita, probabilmente l’idea era di por fine alla guerra convertendo il sultano: la versione francescana di resa incondizionata. Per fortuna del santo al Malik era un gentiluomo, e Francesco reddisse all’italica erba.
Analogo sembra il profilo di un’altra icona del pacifismo, il conte Lev Nikolàevič Tolstòj. Nella giovinezza, che poi descriverà come «anni orribili di grossolana depravazione al servizio dell’orgoglio», segue le tradizioni della nobiltà russa ed entra nell’esercito, prima come volontario poi come cadetto di artiglieria.
Non sembra un caso questa scelta: letteratura e propaganda hanno convinto gli ingenui europei dell’esistenza di una profonda e mistica anima russa; ma la storia sembra indicare che l’anima russa si identifichi spesso con l’artiglieria, e vada cercata non nei monasteri o a Mosca, ma a Tula, che produce cannoni dai tempi di Pietro il Grande a quelli di Putin; del resto è noto che la parte cava della canna del cannone si chiama anima. Non a caso il più grande scrittore russo dell’Ottocento, appunto Tolstòj, è ufficiale di artiglieria (e Dostoevskij è ufficiale del Genio), e il più grande scrittore russo del Novecento, Solženicyn (Bulgakov è ucraino) è ufficiale di artiglieria, mentre solo un compositore russo come Čajkovskij può inserire dei cannoni veri in una composizione di musica classica come l’Ouverture 1812.
Tolstòj inizia il suo cammino bellico nel Caucaso, combattendo contro le popolazioni locali, ceceni in primis: anche qui la storia russa si ripete, e le guerre ottocentesche non sono più umanitarie di quelle di fine Novecento, tanto utili a Putin. Anche se pare che in un’occasione i guerriglieri ceceni siano riusciti a venire a tiro della batteria del conte, facendo saltare una ruota del suo pezzo e uccidendo un cavallo vicino a lui, la norma era cannoneggiare da lontano nemici che non potevano rispondere. Come riporta Citati nella sua biografia di Tolstòj, questi scrive: «mai sono arrivato a tale elevazione del pensiero»; il ricordo della campagna verrà trasfigurato nel 1863 nel racconto lungo I cosacchi, molto romantico ma anche tipico prodotto tra colonialismo e Rousseau, come in Kipling.
Nel 1853 si fa trasferire a Sebastopoli, dove è iniziata la guerra prima russo-turca, poi contro gli anglo-franco-sardi; curiosamente ricompare San Francesco: il casus belli è uno scontro tra francescani (protetti da Napoleone III) e ortodossi (protetti da Nicola I) sulla gestione del Santo Sepolcro, che si trasforma in una contesa sull’espansione russa verso i Balcani e Costantinopoli. La guerra è ricordata dai piemontesi per la Cernaia, dagli inglesi per Florence Nightingale, inizio della moderna infermieristica, e per il disastro di Balaklava, prodotto dalla rivalità tra due generali, Lord Cardigan e Lord Raglan, passati più alla storia della sartoria che a quella militare. Per i russi invece è l’ennesima guerra in cui i generali mandano i soldati a morire in massa, senza curarsi delle perdite: altra costante della storia russa.
Tolstòj viene inviato alla difesa della ridotta Malakoff, uno dei punti di maggior attrito, ed impara quanto sia diversa una guerra coloniale rispetto ad una peer to peer, in cui i cannoni li ha anche il nemico, e pure più potenti e numerosi; ne trae i cupi Racconti di Sebastopoli e la conclusione, scritta nel diario, che «la carriera militare non fa per me, e prima me ne tirerò fuori, per dedicarmi totalmente alla letteratura, tanto meglio sarà»; la stessa decisione di Francesco, ma va detto che il lettore di Guerra e pace non può non notare come le pagine sulla guerra siano più scattanti e coinvolgenti.
Così i due si indirizzano ad un pacifismo mistico e ideale, forse inconsapevoli del fatto che, se la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi (Clausewitz), nella storia reale la pace può essere definita come una continuazione della guerra con altri mezzi.