PAOLO LAMBERTI
Caporetto ormai in Italia indica per antonomasia un disastro senza remissione; alla luce di quest’uso, la battaglia di Caporetto, 107 anni fa in questo mese, non fu una caporetto.
Innanzitutto va ricordato che l’offensiva austro-tedesca fu progettata perché l’esercito austro-ungarico era sull’orlo del collasso in seguito alle offensive italiane, che pur a prezzo spaventoso avevano intaccato la forza dell’impero di Vienna, che già dal 1916 non era più in grado di rimpiazzare le perdite, umane e di materiali; la Francia si avvicinò a questo punto di logoramento nel 1917, e così forse la Russia; invece Gran Bretagna, Germania ed Italia, senza contare gli USA, ne erano ancora lontani nel 1918.
A guidare l’attacco vennero fatte affluire 14 divisioni tedesche, dai fronti occidentale ed orientale, che si affiancarono alle unità austroungariche; si trattava di unità meglio addestrate e armate, capaci di usare le tattiche di infiltrazione di piccole unità già provate sugli altri fronti, e dotate di un massiccio supporto di artiglieria; il fine operativo era di ricacciare gli italiani almeno al Tagliamento, ma quello politico era replicare un colpo distruttivo capace di rendere inoffensiva l’Italia, come era accaduto nel 1915 con la Serbia e nel 1916 con la Romania.
Da questo punto di vista l’offensiva fallì: anche se la II armata italiana, la più numerosa, venne quasi annientata, con enormi perdite di materiali e prigionieri, le altre armate ripiegarono con ordine, e, pur non tenendo la linea del Tagliamento, su quella del Piave fu possibile arrestare un’offensiva che aveva perso slancio per logoramento dei soldati e allungamento delle linee logistiche; la presenza di alcune divisioni inglesi e francesi fu utile ma non determinante, certo meno della presenza di quelle tedesche, che però furono ritirate per tornare ai fronti principali.
Il risultato fu che le linee italiane furono accorciate, protette dal fiume Piave e rafforzate dalla vicinanza alle basi logistiche ed alle industrie belliche, ormai in piena produzione, mentre un nuovo governo ed un nuovo comando dettero prova di volontà di continuare la lotta; invece gli austriaci si ritrovarono lontani dalle loro basi e dalle linee fortificate in zone montuose, schierati su una pianura senza grandi punti di appoggio. Così il loro ultimo, disperato tentativo di sfondare con la battaglia del Solstizio (giugno 1918) venne agevolmente fermata da un esercito italiano modernizzato e rafforzato, che pochi mesi dopo spezzò le linee austroungariche e ne distrusse l’esercito: il bollettino della vittoria di Diaz potrà sembrare retorico, secondo lo stile del tempo, ma è veritiero. L’esercito di Vittorio Veneto è stato in Italia l’esercito più grande, efficiente e moderno probabilmente dai tempi dell’Impero Romano.
Certamente ci si chiede perché l’Italia non abbia imparato dalle lezioni del 1914, ma ancora nel 1918 gli americani combatterono le prime battaglie come nel 1914, attacchi di massa e conseguenti massacri: ogni esercito deve imparare dalle proprie esperienze, non copiando; del resto il soldato del 1914 assomigliava più ad un soldato di Napoleone che ad uno del 1918, il percorso di modernizzazione tra questi anni fu immenso. Nel 1914 soldati in rutilanti uniformi (giubba turchina e pantaloni rossi per i francesi) attaccavano in massa con baionette inastate, appoggiati da cavalleria e palloni aereostatici; nel 1918 si infiltravano piccoli gruppi di soldati in uniformi mimetiche e con armi automatiche, appoggiati da carri armati e aerei.
Caporetto è una pesante sconfitta che non è molto diversa da altre della I guerra mondiale. Si ricordino i primi mesi di attacco tedesco in Francia, che fece a pezzi ampie quote dell’esercito francese spingendolo sulla Marna, il loro Piave; oppure il disastro di Gallipoli, una sconfitta britannica che allontanò per sempre la speranza di conquistare Costantinopoli; i Russi subirono una Caporetto per ogni anno dal 1914 al 1917; ancora nel 1918 le offensive tedesche di primavera avanzarono per quasi 100 chilometri, con perdite alleate paragonabili a Caporetto; poi toccò ai tedeschi negli ultimi mesi, fatti di ritirate e prigionieri: questa sì una sconfitta senza rimedio.
Un fatto curioso è che in Italia ancora oggi si provi odio e disgusto per la durezza, i limiti e gli errori di Cadorna (peraltro indifendibile) e per gli orrori delle trincee, mentre è diffusa un’incomprensibile indulgenza verso la guerra fascista. Se davvero si vuole cercare una “Caporetto”, basta ripercorrere gli anni 1940-43. L’abbandono dell’Africa Orientale Italiana, persa dinanzi a forze molto minori, senza che Roma muovesse un dito; il disastro della Grecia, un’invasione da armata Brancaleone: se la Germania non avesse invaso i Balcani, i Greci erano pronti a travolgere con un’offensiva le linee italiane. Le battaglie in Libia, durate due anni grazie alla presenza dei tedeschi, e terminate ad El Alamein: se non mancò il valore, certo mancarono i carri, gli aerei, l’artiglieria, le munizioni, la benzina ed un’industria bellica degna di questo nome; e mancarono pure gli uomini, che Mussolini sparse qua e là seguendo pedissequamente le tracce di Hitler, come un servo dietro il suo padrone; il risultato più noto è la distruzione dell’Armir in Russia, ben più radicale di Caporetto. Per non dimenticare la Tunisia, 250.000 prigionieri italotedeschi, e la perdita della Sicilia, un’altra armata dissolta. Dulcis in fundo, l’8 settembre: un intero esercito disperso, per l’ignavia del Re e di Badoglio: ma era da più di vent’anni l’esercito del Duce. Senza dimenticare le forze armate di Salò, che si sfasciarono senza quasi neppure vedere il fronte, anche perché i “fedeli alleati” non ce lo volevano, al fronte.
Insomma, sarebbe bene trovare un sostituto a Caporetto, e c’è solo l’imbarazzo della scelta.