Scrittura e dittatura. Il caso di Ismail Kadare in Albania

(da Wikipedia)

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YVONNE FRACASSETTI-MICHELE BRONDINO

Con la scomparsa di Ismail Kadare il 1 luglio scorso, viene a mancare la voce di un grande della letteratura albanese, ma non solo. Viene a mancare la voce di uno scrittore che ha vissuto e ha scritto sotto una delle peggiori dittature del XX secolo nell’area mediterranea, l’Albania rossa di Enver Hoxha. Il caso di Ismail Kadare, al di là della sua indiscussa genialità come scrittore del mondo balcanico e in particolare come profondo scrutatore delle dinamiche antropologiche del suo paese, non ha finito di interrogare le coscienze critiche degli ambienti letterari e la giusta curiosità dei suoi lettori, anche i più appassionati.

In quanto addetto culturale presso l’Ambasciata d’Italia negli anni 1982-83 abbiamo avuto la fortuna di conoscere da vicino il clima culturale degli anni Ottanta in Albania, nel pieno della dittatura di Hoxha e di incontrare Ismail Kadare, certo in un contesto molto superficiale e blindato, quello degli incontri ufficiali e diplomatici ma piuttosto intrigante vista la ferrea chiusura del regime ad ogni contatto con l’esterno. Occorre capire questo clima per comprendere (e non giudicare) quale era lo spazio concesso agli scrittori e agli intellettuali del regime. Abbiamo cercato di tracciare un quadro di questo periodo in un recente racconto della nostra esperienza ( Stranieri nell’Albania rossa, Besa, 2020) e torniamo a quelle pagine di cui citiamo ampi estratti, per inquadrare il contesto in cui scrisse Kadare.

Nel cupo contesto socio-politico dell’Albania enveriana, improntata al realismo socialista militante dell’inizio anni Ottanta, come si presentava la vita culturale? Ovviamente chiusa su sé stessa, senza aperture verso le culture esterne neoliberali o revisioniste, fedele ai compiti assegnati da Hoxha stesso ai letterati e agli artisti, e guai a coloro che non li rispettavano. Scrittori e artisti erano praticamente funzionari dello stato, stipendiati per appoggiare e sorreggere il sistema, impiegati presso dipartimenti ministeriali, giornali, riviste, case editrici, il cui messaggio era strettamente controllato a vari livelli, dalla Lega degli Scrittori e Artisti al Comitato Centrale del Partito fino ai vari Congressi, in particolare l’VIII del 1981 che aveva dettato minuziosamente le linee da seguire. Dalle relazioni pubblicate in particolare sul quotidiano “Drita” (Luce) emergeva un dibattito in apparenza molto vivace e articolato tra gli scrittori più autorevoli, ma in realtà contenuto nelle ferree linee guida dettate da Hoxha stesso. Quando ci imbattemmo nelle affermazioni qui sotto riportate, cominciammo a capire meglio le ragioni di quella chiusura: “Gli scrittori devono avvicinarsi molto al popolo e descriverne i sentimenti, gli ideali e la vita reale. I nostri giovani scrittori devono cogliere i loro soggetti dai grandiosi avvenimenti della storia del nostro popolo, dal passato, specialmente dalla gloriosa Lotta di Liberazione Nazionale e dall’edificazione delle basi del socialismo in Albania […] Il realismo socialista deve diventare il metodo guida nel grande compito che si pone ai nostri giovani scrittori popolari. Il Partito pone il compito che la letteratura e le arti diventino un’arma potente nelle sue mani per educare i lavoratori con lo spirito del socialismo e del comunismo, che esse stiano nelle prime file della lotta per educare una gioventù […]. Che tutta la creatività artistica abbia un alto livello ideologico, che sia permeata dallo spirito rivoluzionario combattivo del Partito e da un sano spirito nazionale”[1].

Come conciliare questa rigidità con la scrittura?
Prima di tutto va ricordato che nel 1982, poche opere dei maggiori scrittori albanesi erano disponibili in quanto diffusione e traduzione erano ancora limitate in Italia mentre la Francia, paese prediletto da Hoxha (ex docente di lingua francese) e notoriamente più aperto alla produzione letteraria straniera, aveva già tradotto negli anni Settanta i primi romanzi di Ismail Kadare. Nel 1981 soltanto, l’editore Longanesi pubblicò I tamburi della pioggia, poi Il generale dell’armata morta nel 1982 (tradotti dal francese), ai quali seguirono più speditamente, con l’apertura dei rapporti culturali, le traduzioni degli altri romanzi. Comunque nell’una o nell’altra lingua riuscimmo a leggere le opere considerate suoi capolavori.

Per noi fu interessante assistere, sempre attraverso la critica letteraria riportata dai giornali albanesi (tradotti per noi dall’interprete messo a disposizione dell’Ambasciata dal regime), al dibattito che si stava aprendo sul nuovo balzo qualitativo che letteratura e arti stavano per compiere in Albania. Nella sua relazione La nostra Letteratura e le nostre Arti verso un nuovo salto qualitativo, pubblicato il 21 marzo 1982 sulla rivista “Drita”, l’altro grande scrittore Dritero Agolli, ricordava, citandole, le parole con cui Hoxha aveva sottolineato l’importanza di «un vasto e profondo sguardo sulla vita e l’attualità nei romanzi», e apriva ai temi storici «a condizione che si basassero sulla realtà presente per rispecchiare meglio il passato», quindi leggere il presente per capire il passato e non vice versa. Il dibattito si fece più arduo quando dalla storia si passò addirittura all’immaginazione e alla psicologia.

Nello stesso anno infatti Kadare propose (perché ogni opera andava proposta all’approvazione del Partito prima di essere diffusa) il suo romanzo Il palazzo dei sogni in cui velatamente denunciava – anche se l’azione si svolgeva nella Istanbul dell’impero ottomano – il ferreo controllo sulla società, persino sui sogni delle persone al fine di prevenire insurrezioni contro le istituzioni al potere. Quel romanzo gli valse molte critiche e dovette rimaneggiarlo varie volte prima che fosse accettato. Nella sua critica, Agolli si preoccupava della difficile ‘conciliazione’ con le direttive di Hoxha:

“Nelle sue ultime opere, Aprile spezzato e in particolare Il palazzo dei sogni, ci sono problemi di idee e di estetica alle quali non possiamo aderire totalmente. […] Ci sono trattamenti soggettivi del materiale storico e delle leggende […] che lasciano la via aperta a diverse interpretazioni”.
Chiaramente, non era sfuggito a nessuno la pericolosità del confronto tra la dittatura del presente e quella del passato! Si parlava di apertura, ma guai a lasciare la via aperta a diverse interpretazioni o a uscire dalle linee ideologiche dettate dal Partito. Kadare venne aspramente criticato dal regime e proprio da Ramiz Aljia divenuto il futuro successore di Hoxha quando, durante il congresso della Lega degli Scrittori e degli Artisti, quest’ultimo gli rivolse un monito minaccioso: «Il popolo e il Partito vi hanno innalzato nell’Olimpo, ma se voi non sarete loro fedeli, vi precipiteranno nell’abisso».
In quel clima viveva il mondo culturale albanese da circa quarant’anni e soltanto dopo la caduta del regime emersero analisi puntuali e lucide. Ad esempio, quella dello scrittore Arshi Pipa, imprigionato per 10 anni, poi fuggito in Jugoslavia e in seguito trasferitosi negli USA dove divenne professore universitario di letteratura italiana, non lascia dubbi:
“Enver Hoxha fu decisivo nel conseguimento di un’atmosfera culturale totalmente dominata da una propaganda dottrinale che esaltava il nazionalismo. La linguistica, la letteratura, la storia, il folclore e l’etnologia, vennero coltivate non soltanto per trasmettere alle persone un senso del loro passato, ma anche per diffondere e coltivare la xenofobia, la slavofobia, l’isolazionismo, la compattezza etnica e l’uniformità linguistica”[2].
Lo stesso Agolli che aveva fatto le pulci a Kadare per le rischiose interpretazioni, confessa pure lui (sempre all’indomani della caduta del regime) come la fede nel successo del realismo socialista sotto la guida di Hoxha, riuscì ad avvolgere le menti e le coscienze:
“Noi credevamo nella costruzione di una società, in cui gli uomini vivessero in libertà ed uguaglianza, in cui non esistessero ingiustizie e lesioni di coscienza; credevamo in una società dell’individuo libero e della libera espressione, ed aspettavamo che tutto ciò avvenisse, perdonando le storture e le lesioni che notavamo nel quotidiano, siccome ci eravamo proiettati con la mente nel domani!… Mentre si continuava a perseguire gli ideali, la società in cui si viveva sprofondava sempre di più diventando invivibile sia per la gente che per la poesia. Sul collo dei nostri sogni, col passare degli anni, il nodo si stringeva sempre più e sentivamo appena il loro rantolo soffocato. Noi respiravamo a fatica nel buco della storia”[3].
Nel clima poliziesco di caccia alle streghe capitaliste e social-revisioniste degli anni Ottanta, era d’obbligo osservare che i pochi intellettuali di spicco, come gli scrittori Ismail Kadare, Dritero Agolli che ci capitò di incontrare durante le rituali celebrazioni ufficiali del regime, si erano, almeno apparentemente, adattati al sistema. Nel 1982, Kadare ancora scriveva che la letteratura russa e quella cinese erano ispirate “ad un liberalismo volgare che tenta d’arricchire il suo quadro drammaticamente povero con la pornografia ed altre brutalità […] mentre la letteratura decadente borghese è solo passionale e ha sostituito l’arte della realtà con una pseudo realtà onirica, separata dalla vita vera […] la sua infinita produzione a scopo consumistico è espressione della sua mediocrità”.
Passava poi ad affermare che
“l’unica vera letteratura è quella del realismo socialista [in cui] le opere migliori […] saranno quelle dove la nostra gente sarà come è nella vita, portando come esempio ammirabile […] il complesso delle memorie del compagno E. Hoxha […] nuovo fattore molto importante per l’ulteriore sviluppo della nostra letteratura: intere generazioni di scrittori presenti e futuri vi troveranno l’inesauribile fonte d’ispirazione per le loro opere[4]”.

Ci chiedevamo come tali dichiarazioni, al limite del servilismo intellettuale, potessero conciliarsi con l’evidente ingegno di uno scrittore che, oltre a restituire con maestria la forte identità nazionale del suo popolo (I tamburi della pioggia), riusciva a percepire e a trasmettere il clima di diffidenza che dominava le relazioni umane e lo spirito contorto e perverso che avvolgeva le menti, sia di chi opprimeva sia di chi tentava disperatamente di sopravvivere all’oppressione (Il palazzo dei sogni). Continuammo a leggere gli scrittori albanesi dopo la fine della dittatura e trovammo nelle loro confessioni la conferma dell’incredibile terrore al quale erano stati sottoposti.
Nella distorta visione del nazionalcomunismo di Hoxha che mirava a creare un’identità del tutto albanese, fittiziamente fondata sul mito dell’Uomo Nuovo del realismo socialista, la maggior parte degli intellettuali si erano adattati alle imposizioni del Partito, come denuncia Fatos Lubonja [5], uno dei pochi scrittori che non si piegò al regime.
Certo, non tutti reagirono con la stessa coerenza, i più coerenti o i più imprudenti pagarono con la prigione, anni di internamento ai lavori forzati, alcuni con la morte. Ma anche chi riuscì a sfuggire alle pene estreme, patì il tormento dell’impossibile coerenza dello scrittore sotto il peso della paura. Così lo spiega un altro scrittore albanese dopo la caduta del regime, Fatos Kongoli nel suo Illusioni nel cassetto [6]
Nella condizione in cui, da noi, la letteratura era orientata da direttive e uno dei suoi princìpi fondamentali era di innalzare sul piedistallo l’eroe positivo, la persona dedita ai sacrifici, che poneva l’interesse generale al di sopra di quello personale e così via, qualunque ‘innesto’ era impossibile. Ricordo quanto penavo alla ricerca di un soggetto ‘adatto’…, per poi trattarlo in maniera ‘adeguata’, cioè senza ‘incupire’ la realtà quando questa era terribilmente cupa, e io lo vedevo ogni giorno e mentivo a me stesso, convinto che avrei potuto fare letteratura.
 
Non è ancora chiusa la diatriba apertasi negli anni Novanta tra gli intellettuali albanesi: chi si piegò per forza maggiore ai dettami del regime e chi resistette. Fra questi ultimi, spicca Fatos Lubonja che pagò il suo rifiuto a servire il regime con 17 anni di carcere. La severità del suo giudizio su Kadare é illuminante. Non accusa soltanto lo scrittore protetto dal regime, che chiede asilo politico alla Francia nel 1990 quando diventa insostenibile la sua posizione e viene messa a repentaglio la sua sicurezza; accusa proprio l’ingegno dello scrittore degli anni Ottanta che mette la sua indiscussa arte al servizio del dittatore:
“È stato parte attiva della vita del regime comunista. Lo ha seguito passo passo con la sua opera di propaganda, con l’aggravante di averlo fatto in modo letterario […] Insomma, Enver Hoxha ha inventato il nazionalcomunismo per manipolare le coscienze e opprimere la gente, e Kadare si è prestato alla diffusione del nazionalcomunismo con le sue opere letterarie […] e il fatto [che il suo stile ndr] fosse letterariamente elevato può farci dire che forse sia stato per il regime un contributo migliore rispetto alla propaganda dozzinale”. (Intervista sull’Albania)
L’interpretazione di Lubonja spiega come Kadare poté resistere a tutte le purghe e alla spietata ferocia del regime nei confronti degli oppositori.
Anche noi che negli Ottanta leggemmo con passione le pagine di Kadare, ci lasciammo incantare dall’acutezza della sua percezione dell’identità albanese e poi dello spirito contorto, talvolta cervellotico, di una società che viveva con il fiato sospeso e cercava sotterfugi di ogni tipo per esprimersi. Il paradosso di Kadare è che dal di fuori poteva apparire come un contestatore che denuncia i meccanismi dell’oppressione, mentre dal di dentro la sua scrittura collimava esattamente con le scelte dell’oppressore.
Allora che dire? Kadare non avrebbe dovuto prestare la sua arte al dittatore? Avrebbe dovuto privarci della sua arte pur di non servire il regime?
Così fece Fatos Lubonja:
“Io, quando capii la vera natura del regime, decisi di non scrivere più […] decisi di non pubblicare più, di non sottostare più ai dettami del regime per vivere dei privilegi accordati agli scrittori. Uno scrittore, se non scrive quello che vede, che scrittore è? Nella nostra letteratura mancano cinquant’anni di Enver Hoxha: ciò che sentiva la gente, la paura, il terrore. Tutto manca. Manca perché non si poteva scrivere”.

Oggi, convinti che si debba comprendere e non giudicare, preferiamo tornare all’opera di Ismail Kadare che, certamente, non appare come l’opera di un militante che si schiera dalla parte degli oppositori ma riesce, con una acuta penetrazione sia dei meccanismi di soffocamento della dittatura sia delle pieghe dell’animo albanese, compenetrato della simbologia dei riti, delle usanze, delle leggende del paese, a farci vivere le ansie e le passioni del suo popolo.
Lo fa ricorrendo ai miti ancorati nella storia, per esempio la leggendaria resistenza del popolo albanese all’invasione turca nel 1448 con l’eroe nazionale Scanderbeg in I tamburi della pioggia.
Accanto all’accattivante coinvolgimento della sua prosa, è evidente l’esaltazione del patriottismo albanese anche a fini ideologici e politici. In verità, a sottolineare questo legame, ci aveva pensato lui stesso nell’introduzione al romanzo (nella prima edizione):
“Il lettore non mancherà di stabilire un parallelo tra tali eventi e quelli del conflitto albano-sovietico del 1960, allorché l’Albania, il più piccolo paese del campo socialista, fu oggetto di un feroce blocco economico e politico da parte della superpotenza sovietica e di tutti i paesi del Patto di Varsavia. In questo confronto, l’Albania non si piegò mai. Fronteggiò vittoriosamente i ricatti e il blocco, e vi è dubbio che il ricordo di Scanderbeg abbia contribuito alla fermezza di tale atteggiamento. I paesi firmatari del Patto di Varsavia non osarono assalire l’Albania. La tragedia ebbe luogo con la Cecoslovacchia. L’indomani dell’invasione di questo paese gli albanesi, così come avevano arditamente stracciato i firmani del sultano, non esitarono a denunciare il Patto di Varsavia. La storia, in un certo senso, si ripeteva”.

Certamente, al lettore di oggi o comunque ai lettori esterni, ignari dell’oppressione esercitata dal regime sugli scrittori, questo bisogno di sottolineare l’allineamento con i dettami ideologici appare eccessivo . Occorre tuttavia rileggere le pagine delle opere ante-liberazione (1990), come Il ponte a tre archi (1978) o Aprile spezzato (1980) per apprezzare la magia della prosa di Kadare e la sua geniale abilità a scavare nella sensibilità e nell’inconscio di un popolo in catene, sfruttando e inventando favole che, tra mito e realtà, riescono sia a esaltare l’eroismo nazionale – ciò che vuole il regime – sia a coinvolgere i lettori interni o esterni al paese nei meandri cerebrali e sensoriali dei suoi personaggi e delle sue storie.

Quest’arte di penetrazione psicologica abbinata a una straordinaria capacità di scrittura esplode dopo l’uscita di Kadare dall’Albania nel 1990, cinque anni dopo la morte di Hoxha quando il regime si sgretola e si scatena la resa dei conti tra chi ha pagato il prezzo più alto e chi si è adeguato. Nel 1992 per esempio, nel romanzo La piramide, Kadare paragona la follia del totalitarismo di Hoxha che aveva disseminato il paese di bunker alimentando la psicosi dell’invasione alla schiavitù delle popolazioni egizie tiranneggiate dai successivi faraoni per erigere varie generazioni di piramidi (da quella gigantesca di Cheope a quella macabra eretta a Ispahan con le teste mozzate dei nemici); in questa immagine, il suo genio creativo trovò forse la sua forma più compiuta, psicotica e estrema quando descrive così i bunker albanesi come figli delle piramidi:

“Si chiamavano bunker e ognuno di essi, per quanto piccolo comunicava tutto il terrore ispirato dalla madre e ne rifletteva la follia. Pezzi di ferro sbucavano dal cemento […] La parola Unità, spesso era iscritta sul retro e testimoniava che questi bunker nutrivano legami non solo con la piramide madre ma anche con quella costruita con pile di teschi e che il vecchio sogno di legare insieme tutti i cervelli con un’idea unica, non poteva realizzarsi concretamente che attraverso questo ferro, il quale, trafiggendo i teschi, li univa[7]”.

Non giungeremmo a dire come A. Mezzana Lona che nei suoi romanzi Kadare è riuscito  a “spezzare le catene del controllo inventando storie e metafore” perché queste catene hanno zittito e troppe volte ucciso molti altri scrittori  ma sicuramente che dalla magia delle sue pagine emerge la capacità di “scatenare contro l’ottusità del Potere un incantesimo potente: quello legato al libero arbitrio, tutto umano, del fantasticare” («Doppiozero» 3 luglio 2024)

Non occorre schierarsi, conviene ascoltare la voce di Elias Canetti, il grande amante della lingua: Ogni parola pronunciata è falsa. Ogni parola scritta è falsa. Ogni parola è falsa. Ma cosa c’è senza la parola?


[1] Cfr. D. Rossi, Letteratura albanese, Milano, PGrego, 2016, p. 29-30.

[2] Cfr .A. Pipa, in E. Hoxha, Realizmi Socialist Shqiptar (Realismo socialista albanese. Studio sul fenomeno basato principalmente sulla collezione della Galleria Nazionale delle Arti), Tirana, Galleria Nazionale delle Arti, 2017, p.18, traduzione di A. Vercellotti-Mesi.

[3] D. Agolli, L’ultimo pellegrino, cit. da D. Rossi, Letteratura albanese, Milano, PGRECO, 2016.

[4] I. Kadare, Il completamento del quadro dell’epoca socialista: un dovere della letteratura e delle nostre arti, in “Drita”, n. 16, 18-4- 1982, (traduzione di Zipo, traduttore ufficiale presso l’Ambasciata d’Italia). Nei suoi romanzi come La città di pietra e I tamburi della pioggia, certi personaggi evocano la figura di Hoxha.

[5] Cfr. F. Lubonja, Diario di un intellettuale in un gulag albanese, cit.; Intervista sull’Albania. Dalle carceri di E. Hoxha al liberalismo selvaggio, Bologna, ed. Il Ponte, 2004.

[6] Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2017.

[7] I. Kadare, La pyramide, Parigi, Fayard, 1993, (nostra traduzione).