Tutta la terra che ci resta di Silvia Rosa

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Nota di lettura di Maurizio Michel
Leggendo “Tutta la terra che ci resta” di Silvia Rosa si ha l’impressione che i componimenti siano stati scritti tra il 2020 e il 2021 (per esser poi dati alle stampe nel 2022), quando il Covid-19 imperversava e quando dalle televisioni si ripeteva il mantra “andrà tutto bene”, che non a caso ritroviamo in un verso di questo racconto poetico. Da quel tempo, in modo sempre più manifesto, si è aperto come una sorta di guado, un passaggio obbligato che quest’epoca contemporanea ci chiede di attraversare e che va dall’umano così come lo abbiamo conosciuto fino all’interazione di questo con una tecnologia sempre più estrema, che sembra voler avanzare al di sopra e al di là di qualsiasi riflessione etica, rifiutandosi di recepire gli echi della cruda lezione materializzatasi nel secolo scorso con l’avvento dell’energia atomica e dell’uso primigenio che l’uomo ne ha fatto, cioè la guerra. 
La raccolta poetica di Silvia Rosa tratta quest’ampia tematica con gli strumenti a lei più congeniali, quelli della poesia, affrontando il guado appena accennato: Rosa lo immagina e lo costruisce in vivide immagini, e per restituircelo sceglie le parole con meticolosa cura. Siamo all’inizio di una nuova epoca per il genere umano, un’epoca altamente trasformativa e contraddittoria, e soltanto a leggere il titolo della raccolta e notare il numero di poesie dalle quali è composta, quaranta, si ravvivano antichi echi biblici relativi a un altro passaggio, quello di Mosè e del suo popolo attraverso il Mar Rosso e dei successivi quarant’anni di nomadismo nel deserto sinaitico; non solo, “Tutta la terra che ci resta” è un titolo che crea un rimando anche alla Genesi, nel passo dove vediamo il Dio plasmare l’uomo con polvere del suolo per dargli il Suo alito di vita. Appunto, secondo la visione biblica proprio di terra l’uomo è fatto, ma i fautori di questo passaggio tecnologico articolato in più fasi (transumanesimo, post-umanesimo, ecc.) forse rischiano di (oppure, chissà?… vorrebbero proprio) dimenticarlo. Rosa invece no, rimane in qualche modo in profondo ascolto delle rimanenti tracce di questa “terra”, per quanto esse siano sfocate, indefinite come ombre di ricordi confusi, e lo fa tramite un racconto poetico affascinante e innovativo poiché visionario, a tratti psichedelico, “in cammino” passo dopo passo con uno stile che si può definire d’avanguardia; a livello linguistico sono presenti molte parole, scelte con accuratezza, che fino a oggi avevo sentito pronunciare soltanto da tecnici informatici e che si innestano nei versi a formare una sorta di “ibridazione del linguaggio” molto originale ma (se ho ben intuito le intenzioni dell’autrice) necessaria, al fine di restituire il senso – anche linguistico – di un lavoro di questo genere: ecco allora che nel dipanarsi dei versi incontriamo parole quali “sensori”, “wi-fi”, “3D”, “QR code”, “Db” (decibel) che danzano insieme ad altri termini provenienti dall’ottica, dall’oculistica medica e dalla fotografia, come “aberrazione cromatica”, “presbiopia”, “ipermetropia”, e poi ancora “display”, “schermi”, “lunghezza focale”, “errore di rifrazione”, ma anche “griglia di Hermann” (uno schema grafico in grado di indurre una illusione ottica, a vedere un grigio che in realtà non c’è), per arrivare a comporre un nuovo lessico poetico multisensoriale.
Questa raccolta è strutturata come un viaggio che inizia con un prologo e finisce con un epilogo, tra i quali si dipanano i componimenti racchiusi in sei sezioni, a scandire le fasi del percorso in un ordine preciso: “Prima della pioggia”, “Città”, “Un tono più vivo”, “In caso di necessità rompere il vetro”, “Ma dove trovare riparo”, “Dove finisce la terra”.
Il libro inizia con un prologo, bellissimo: “abbiamo fatto una magia – guarda – / rimestato ogni angolo affinché rilucesse / come una moneta di platino”, versi in cui si può riconoscere una RI-creazione di quel che siamo attraverso quel platino che ricorda i microprocessori, per poi prendere “il cielo/con la punta delle nostre lingue” per lavorarlo “in una scala di grigi/ senza più toni caldi e orientamento”. Alla fine di questo prologo ci si ritrova in “una cuspide d’ombra, nuova di zecca” e proprio a partire da questi toni di grigio creati artificialmente inizia il viaggio. La prima sezione, intitolata “Prima della pioggia” consta di sette poesie (tante quanti i giorni della creazione…sarà un caso?). Nella prima troviamo il verso che dà il titolo alla raccolta: “Dentro una pozza di cielo / […] risucchia in uno slargo acceso/ tutta la terra che ci resta.” Al termine dei versi che formano le poesie di questa sezione spesso troviamo alcune domande, poste man mano che s’inizia a prendere confidenza con questa nuova e inesplorata esperienza dove “i rimpianti sono espunti/ da un elenco di cifre binarie”: “Dove siamo mentre la notte/entra sicura sulla destra e vira/ al chiaro che svanisce?”; “Quale nugolo di apparenze / scegliere prima della pioggia?”; “Come bucare la pellicola / dello schermo e respirare quest’aria di nuvole?”, e ancora, quando finalmente arriva la pioggia “atona e rarefatta”: “dove finiscono le gocce / quando scivolano nei canali di scolo / della memoria, e più giù, nella cassa toracica…?”, infine, nell’ultima delle sette poesie abbiamo dei richiami non ascoltati a voltarsi, a rientrare, a “quelli che se ne vanno, di spalle” (coloro che non partecipano a questo passaggio), che, come in una dissolvenza perdono man mano consistenza fino a diventare ricordi, e dunque: “dove ritrovare le loro orme di odori, / le ragioni della distanza, i loro commiati?” Come in tutti gli esodi avviene una sorta di separazione, con qualcuno che resta dov’è e qualcun altro che invece si avventura verso l’ignoto e affronta la trasformazione. Davvero è difficile rimandare la sensazione che si prova dinanzi a queste poesie in cui l’attenta scelta delle parole e il loro concatenarsi danno forma poetica allo sfumare dell’umano, o quantomeno, all’intrecciarsi di esso con la tecnologia. Le immagini poetiche sono molte, dal tunnel alla fiamma fredda, in una strana alchimia che arriva ad annebbiare “il respiro degli occhi”. Rimane, in questa sezione, l’immagine di “un passero” a sfidare “le discromie della sorte”, figura bellissima e irriverente scelta dall’autrice a rappresentare l’anima viva di una natura che non si arrende.
La seconda sezione si intitola “Città” e infatti ci ritroviamo dinanzi a parole e immagini che in qualche modo si riferiscono a un contesto urbano, anche se molto particolare. I versi si concatenano a partire da parole tenute insieme dalla visionarietà percettiva della voce narrante, che gradualmente si rivela essere un soggetto plurale, un “noi” corale, e dunque l’esperienza di lettura non può non legarsi a quella sensoriale, al vedere immaginifico: ecco allora che le parole divengono spunti che aprono le piste dell’immaginazione al lettore. È richiesta la resa della mente razionale e l’attivazione dell’immaginazione creativa per completare in noi che leggiamo ciò che l’opera non definisce ma accenna soltanto, ondeggiando da un’immagine all’altra. La poesia qui è davvero permeata dal “sensoriale”: per l’autrice il percepire è importantissimo a tutti i livelli, dal vedere fuori al sentire dentro, per individuare e descrivere ogni sfumatura, ogni sensazione, qualsiasi pur piccolo frammento o passaggio dell’esperienza narrata. Incontriamo in questa sezione due personaggi strani, la “Signorina con le mani in PE-HD” (polietilene ad alta densità) e “Vittorio sgomberi e traslochi”: la prima è una sorta di Vestale che scruta da uno schermo in plexiglass i destini della gente, leggendo “mani profumate di caffè”, inseguendo sui palmi “linee con quattro tacche di vita”, insomma, una sorta di avatar-donatrice di speranza digitale; il secondo è chiamato a prendere e portare via i “rigurgiti delle nostre esistenze di prima”, “rovine di fasti mediocri”, mentre una voce fuori campo “ripete che andrà tutto bene”. Da lì arriviamo all’ultimo componimento che fa da ponte (mi chiedo se sia un caso il fatto che è citato il numero cinque) verso la successiva sezione intitolata “Un tono più vivo”, popolata da effetti speciali per celebrare nuovi rituali, in cui sono compresi anche i social con i loro millemila selfie, “mentre a noi manca il fiato”. Qui appaiono chiare ed esasperate le dinamiche social che tutti ben conosciamo, “dinamiche di scambi emotivi sotto la supervisione di guru d’assalto”: il mondo virtuale in questi componimenti viene portato all’eccesso, percepito e vissuto come “una gabbia stile hi-tech” dalla quale non possiamo più smarcarci. Si ripresentano però ancora una volta “i cimeli del vecchio mondo”, che sembrano voler riprendere la loro posizione, di fronte ai quali si levano gli “scudi dei bit” per proteggerci da un qualcosa che “ci guasta le fondamenta”. In questa sezione dell’opera c’è, più che altrove, una forte critica di quel che già siamo diventati e perciò il lettore è posto dinanzi ad aspetti quali la non accettazione del corpo e del volto (e da lì la necessità dei filtri nella fotografia computazionale dei nostri smartphone), l’andar dietro a “passioni di poco conto” da buttare a fine stagione per “sentirci oltre lo stallo” e la rimozione della morte a tutti i livelli di pensiero, giacché in questo mondo anche l’attività onirica è regolata da un “QR code siderale” che “collega tutti i sogni a un baricentro”, per essere posti infine dinanzi al disvelamento di questa realtà aumentata, quando “la città si dilegua” in una illusione percettiva che confonde l’inizio e la fine in un moto circolare da cui non si riesce a uscire. Cosa dire? Asfissiante e bellissima, disperata e luminosa, la poesia di Rosa ci mostra la dabbenaggine che imperversa sui social, vista con gli occhi di una coscienza pura, che l’autrice non riesce a (o non vuole) nascondere.
La sezione successiva si intitola “In caso di necessità rompere il vetro” e vi troviamo delle istruzioni utili a non uscire dal “quadrato” digitale in cui ormai siamo immersi, istruzioni restituite in versi come “farfugliare jingle a tema ripescati nei file Mp3 dell’ippocampo”, oppure “darsi alla melatonina in giuste dosi”, e qualora si concretizzasse interiormente il rifiuto, anche questo è previsto e fatto rientrare in una “cosmogonia del perdente”, configurato come colui che accetta “la via palliativa” convincendosi di “sostare dalla parte del meglio”, pur conscio di sfilare come una preda “in un’arena di pollici versi”.
In “Ma dove trovare riparo” si descrive un viaggio aereo ma anche e soprattutto ottico, almeno così reso in termini di altezza, riferimenti latitudine/longitudine e cristallini e cornee e diottrie, e ancora c’è la lotta con quel che rimane dell’umano; in una delle poesie si dice infatti: “non abbiamo potuto non dichiarare un’appartenenza/ comune alla stessa fortuna e ai suoi numerosi/ contrari, dichiarare una tregua alla nostra natura/ focale, e ai suoi corollari ipermetropi.”
L’ultima parte del libro ci vede fermi al semaforo, nell’attesa di una nuova recita, ma ecco che arriva la descrizione minuziosa della fine: “Morire è questo perdere peso in loop”… inizia così questo ultimo tratto del viaggio, il quale si snoda in un susseguirsi di immagini che ci porta dritti a ciò che si accennava all’inizio di questa nota: “così veniamo al mondo / – o scompariamo? – / soggetti all’azzardo degli eventi / improvvise fluorescenze / scheletri antropoidi e intelligenze artificiali, / assomigliamo alle falene Saturnia / e Cobra che infuriano le ali, confuse / quando scambiano la luce al neon / per un destino luminoso d’astri”.
Tutto dunque è compiuto, l’assemblaggio tra umano e microchip è avvenuto e la poesia che fa da epilogo descrive molto bene fin dove l’autrice ci ha portato: la “terra che ci resta” pare iper-controllata, ingabbiata, in attesa di espellere gli ultimi esili resistenti ricordi ancora rimasti impressi in qualche modo sulla retina. Per tutta la silloge Rosa però questa terra la ricerca con devota attenzione e non la perde mai del tutto, la (intra)vede – sia pur offuscata – in alcuni ricordi sfumati e in molte sensazioni e visioni poco nitide e indefinite.
Di fronte a questo lavoro mi sono posto la domanda di come leggerlo, poiché, se un senso compiuto, una direzione da seguire e qualche nesso logico lo si trova guardando alla raccolta nel suo insieme, così non è stato durante lo scorrere dei versi: dunque, ciò che mi è sembrato emergere è la necessità di mettere da parte qualsiasi tentativo di collegamento razionale al “senso” inteso come significato, per entrare in profonda relazione con i “sensi”, in modo che la multisensorialità percettiva di Rosa si legasse alla mia per aprire le porte all’immaginazione e dar vita dentro me a quei versi visionari. La resa poetica in questo modo è davvero fantastica e il viaggio allora diventa godibilissimo e a tratti sorprendente! Si tratta soltanto di lasciarsi trascinare dentro il testo in modo nuovo, accendendo i “nostri” personalissimi sensori: nuove parole, nuova musicalità che a tratti suona dissonante come certo jazz d’avanguardia, in un viaggio con la prua costantemente orientata verso nuovi e inesplorati territori. È davvero poesia esplorativa, che non risolve la sua tensione in un lieto fine, ma che, anzitutto, ci consegna qualcosa su cui riflettere profondamente. Consiglio questo libro a chiunque abbia voglia di mettere in discussione i propri paradigmi poetici per lasciarsi condurre attraverso un passaggio costellato da nuovi paesaggi, tutti da definire, verso dopo verso.
Da “Tutta la terra che ci resta” (Vydia Editore 2022, prefazione di Elio Grasso)

Dentro una pozza di cielo
i pendagli degli alberi tremolano
in questo giorno che un calendario
ha nominato Primavera,
e risucchia in uno slargo acceso
tutta la terra che ci resta

Dove siamo, mentre la notte
entra sicura sulla destra e vira
al chiaro che svanisce? Dove vanno
le cose che si illuminano,
quando lasciamo un punto piccolo
di fuga per non dimenticare
di fiorire lungo la strada
del ritorno?

*

Persino i leoni, qui, hanno denti umani
e sfoggiano criniere di galena, intagliate
con scrupolo. I loro occhi sono tracce
cuneiformi di palinsesti e programmi
seriali, costellati di insuccessi e di bachi.
Le loro fauci grondano scansioni criptate
intanto che le periferiche dei nostri volti sono
allineate per dimensione di globuli bianchi
e anticorpi. Sembra che attendano di sfigurarsi
in apparizioni, sostituirsi ai neuroni,
alle braccia, alle mani, convogliare
le nostre visioni in dispositivi di protezione,
integrarsi nelle rientranze molli dei nostri corpi,
superare ogni scissione con cognizione di causa,
liberarci dall’agonia della crepa, dalla frattura
dei bordi, dai limiti della memoria

*

È nota la gracilità vegetale di certi sorrisi,
altamente deperibili nell’attesa di una spunta
che accerti, con il supporto del wi-fi,
l’esistenza di una connessione d’intenti,
una prospettiva fertile, il principio di una passione
ecologica e maneggevole. A tal fine studiamo,
dall’età di sei anni in poi, manuali di istruzioni
di tutte le epoche, approfondendo al bisogno
le dinamiche degli scambi emotivi,
sotto la supervisione di guru d’assalto.
Così lastrichiamo la strada di buone intenzioni
e di messaggi, come le miche di Pollicino,
e forti del nostro istinto e dei mille anelli
di Saturno che ci danno alla testa con le loro
cosmiche oscillazioni, scivoliamo con stile
su bucce di banana come trappole di colore
nelle circonvoluzioni della materia grigia

*

Un asteroide tonalità quarzo fumé
offusca certe mattine maculate di pioggia.
Con l’obbedienza monodirezionale del caso
costeggiamo cordoni infiniti di tralicci,
infiorescenze che ci accompagnano
su paesaggi aumentati: da Google Maps
al monitor degli occhi. La città si dilegua.
Brulicano sottotraccia surrogati di caffeina,
alimentando la combustione del sistema nervoso.
Per un’illusione percettiva che confonde
l’inizio e la fine nella stessa svista, la vacuità
si insedia nei polmoni e insuffliamo il lutto
delle cose, il loro ostinato scomparire all’orizzonte.
Sfrecciamo lungo tangenziali di anni, con la postura
ridotta a un segmento. Ma dove conducono le deviazioni
improvvise? Quale meta irrisolta ci attende oltre
il moto circolare e l’inesorabilità del presente? 

Nella foto di Maurizio Michel, la copertina del libro in posa dinanzi alla parte centrale dell’antico labirinto posto sul portico laterale della chiesa cattedrale di Lucca.