GUGLIELMO APRILE
LA GRANDE ANIMA
Noi e l’albero, così poco simili:
noi morsi dalla serpe delle ansie
a ogni fruscio sussultiamo a ogni ombra
che agiti i rami, e ci affanniamo in preda
alla febbre alla frenesia allo spasmo
delle brame, aneliamo a braccia tese,
ciechi, a un cielo di polvere; lui invece
non conosce paura o desiderio
e in una pace distante, difesa
dall’inganno delle passioni resta
a meditare in silenzio; e fedele
soltanto alla sua indole, incurante
delle stagioni, sicuro persevera
anche nelle più ostili condizioni
di siccità o di burrasca: lui stoico
gigante che fortifica il suo cuore
e affina la sua saggezza nel culto
di ciò che è vasto, solitario, libero;
fiero e modesto, maestro ma umile,
acconsentisse a dirci suoi adepti,
a eleggerci discepoli perché
dal suo esempio impariamo a non temere
se un addensarsi di nuvole annuncia
il temporale, a mantenerci fermi
di fronte a raffiche contrarie e a oltraggi
di grandine o di nevi, a non piegare
la fronte al cielo quando ci rivolge
il suo sguardo severo, a respirare
a un ritmo uguale e lento, a fare nostra
la sua costanza, la profondità
e la calma della sua grande anima,
almeno in parte: la forza che ha dentro,
il coraggio con cui senza tremare
ogni arbitrio dei venti e ogni rovescio
avverso della sorte accetta e affronta.
***
PENSIERI SU DI UN MANDORLO
Timido e insieme vanitoso, il mandorlo:
ha un portamento quasi femminile
e forse fu una Dea in un’altra vita,
e anche se oggi non se ne ricorda
ha mantenuto i tratti delicati
della snella figura, e non ha perso
affatto quel contegno aristocratico
che ostenta nella preziosa eleganza
e nella noncuranza con cui osserva
intorno venti e stagioni trascorrergli;
è una regina, il suo tempo è marzo,
quando indossa il suo abito nuziale
per lo sposo che viene con le piogge,
e si agghinda di fiocchi bianchi i riccioli,
e un carillon, proprio dietro il suo orecchio,
avvisa che hanno messo casa i passeri;
è una bambina, vive nella grazia
che accomuna tutte le cose sacre
e pure della terra, che hanno in merito
all’immortalità, a che cosa sia
la vera beatitudine, nozioni
per noi ingenue o, chissà, troppo profonde
perché riusciamo a prenderle sul serio:
le acque dalla risata scherzosa,
le buffe nuvole e la docile erba,
le chiocciole e gli insetti, e i tanti piccoli
inquilini che fanno il nido o giocano
sulla schiena di ogni albero, e non sanno
nulla dell’uomo e neanche si curano
delle misere angosce del suo cuore.
***
VECCHIO OLMO
Avrei vissuto bene da eremita;
mura di legno, massi come letto,
una capanna, perfino una grotta
sulla spiaggia, a due passi da un ruscello,
ghiande per cibo e per compagni i passeri.
E avrei imparato a pregare, in ginocchio
davanti all’Orsa, avrei fatto dei boschi
la mia chiesa; e nel fiume e nella pioggia,
quando le loro voci sembra che alzino,
avrei il grido di Dio riconosciuto.
Ma non è dono il mio essere solo:
non mi so fare simile a quell’olmo
che non ha accanto se non la sua ombra
in cima all’erta, e non sembra soffrire
il proprio esilio, anzi ne prova orgoglio
e allunga i rami forti tutt’intorno
negli spazi: e non ha bisogno d’altro
che del sole e dell’acqua che lo nutrono
e di ciò è pago, e ogni bene del mondo
nel verde fitto di canti racchiude.
***
LO SGUARDO DEGLI ALBERI
Sarò pazzo; ma sembra che mi osservino,
che curiosi o benevoli mi seguano
occhi nel folto, e discreti mi spiino
e mi scortino, e di cui solo a tratti
mi accorgo, mentre più a fondo m’inoltro
nell’intreccio di rami delle vie
della loro vivente città che ha
tronchi invece che mura, da altri passi
non violata prima dei miei, che stanano
recessi d’ombra, sconosciuti ai runners
domenicali, oasi alla canicola,
scrigni odorosi, che schiudono gemme
d’erica e menta, di bacche selvatiche
e velenose; e minuscoli incendi
di aghifoglie, di more che traboccano
dagli architravi lignei tempestati
da grappoli rigonfi color sangue
vedo esplodermi intorno su ambo i lati
del sentiero; e più in là, oltre i rovi, un brivido
di lampi, di farfalle adamantine
tremulo solca la schiena del fiume,
un’effimera pioggia di riflessi
che il sole scocca e che il rombo costante
delle acque sovrasta; e avanzo come
un cieco che obbedisca ad una voce
che lo chiama, smorzata eppure limpida,
e che a lui solo parla – finché a un tratto
una paura che non so spiegarmi
mi assale rapida, ma alzo gli occhi
e loro mi rassicurano, gli alberi,
che tutto sanno, di me e di ogni cosa,
e che ogni dubbio e ogni tormento spengono
nel verde sonno delle loro cime.
***
NELL’ULIVETO
Come un cieco, in un uliveto penetro
e in mezzo ai suoi abitanti mi aggiro
e ad uno ad uno li interrogo, batto
il loro dedalo e ogni via setaccio
del loro regno, a stanare orme, indizi
di un certo enigma che da tempo tentano
di decifrare quei tronchi, raccolti
in pose meditative, contorte;
gli alberi mi accompagnano e mi fissano
come sul punto di sciogliere un voto,
di pronunciare un responso o rispondere
a un dubbio che mi trascino irrisolto,
però per qualche motivo che ignoro
tacciono, reticenti si trattengono
dal dirmi quella parola che attendo
e muti di fronte a me ancora restano.
Guglielmo Aprile, Quando gli alberi erano miei fratelli, Tabula Fati 2024
Questa raccolta si snoda intorno a un unico filo conduttore, perseguito con coerenza tanto a livello tematico che stilistico: il rapporto dell’uomo con gli alberi, esplorato nei suoi ramificati legami con il mito e con la storia delle religioni, si fa spunto per un , alla ricerca di un’intima comunione tra l’io e lo spirito vivente che pervade boschi e campagne e che in foglie, radici e fili d’erba palpita. Gli alberi si elevano così a confidenti fraterni e privilegiati, complici di un’avventura esistenziale, testimoni di un dialogo accorato, colmo di nostalgia e deferenza, che l’anima intrattiene con i rappresentanti della loro famiglia: camminando in luoghi appartati, la loro presenza può ancora dare l’illusione di essere vicini ad epifanie e rivelazioni, resuscitando almeno in parte il sentimento primordiale di una consonanza profonda tra l’individuo e la natura.
Guglielmo Aprile è nato a Napoli nel 1978. Attualmente vive ad Ischia, dove si è trasferito per lavoro. È stato autore di alcune raccolte di poesia, tra le quali “Il dio che vaga col vento” (Puntoacapo Editrice, 2008), “Nessun mattino sarà mai l’ultimo” (Zone, 2008), “L’assedio di Famagosta” (Lietocolle, 2015); “Il talento dell’equilibrista” (Ladolfi, 2018); “Elleboro” (Terra d’ulivi, 2019); “Il giardiniere cieco” (Transeuropa, 2019); “Falò di carnevale” (Fara, opera I classificata al concorso Narrapoetando 2021); “Il sentiero del polline”(Kanaga, opera I classificata al premio “Arcore” 2021); “Thanatophobia” (Progetto Cultura, opera I classificata al premio “Mangiaparole” 2021); per la saggistica, ha collaborato con alcune riviste con studi su D’Annunzio, Luzi, Boccaccio e Marino, oltre che sulla poesia del Novecento.
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(A cura di Silvia Pio)