FULVIA GIACOSA
“Warhol Influencer”: questo il titolo dell’esposizione curata da Gianfranco Rosini, visitabile fino al 6 gennaio 2025 nella ex chiesa di Santo Stefano a Mondovì Breo. Il termine “influencer” instaura un parallelo tra chi oggi spopola e trova fama nei social media e l’artista-simbolo della Pop Art facendone un precursore che aveva ben compreso come si può costruire – con il mito di se stessi. E ciò suona come una constatazione, nonché provocazione, nei confronti di una società sempre più condizionata dai social.
La mostra accoglie il visitatore con un’immagine video in B/N di Warhol che tiene in mano una cornice vuota, messa in obliquo rispetto alla figura. D’altronde l’artista aveva dichiarato di voler fare di se stesso un’opera d’arte: la cornice che inquadra l’artista è lì a dimostrarlo. Le opere sono esposte rispettando un ordine tematico più che cronologico che va da una serie di disegni accompagnati da testi scritti a mano dall’autore risalenti ai primi anni di lavoro, passando per i ritratti di attrici e cantanti e copertine dei dischi rock, più volte ripresi nel corso degli anni, fino ad opere più recenti che rendono pop opere d’arte del passato – anni Ottanta – che ne hanno consolidata la fama a livello mondiale. Mancano invece le famose Brillo Box (scatole di spugnette-detersivo in compensato serigrafato con la stessa grafica di quelle vere, che però erano in cartone e leggermente più piccole) che fecero scandalo quando vennero presentate alla Green Gallery di Castelli nel 1961 impilate su uno scaffale come nei supermercati, ma un discorso analogo può essere fatto per le Lattine di zuppa Campbell presenti a Mondovì: le prime erano singole lattine tridimensionali, poi il motivo viene ripreso nella bidimensionalità della serigrafia, composte in serie paratatttiche, una accanto all’altra fino a riempire l’intera superficie, altre ancora con una singola lattina isolata al centro della tela bianca, tutte comunque realizzate con uno stile impersonale e asettico. La serigrafia (un procedimento che parte da una fotografia riportata su tela in molte copie) domina nei ritratti a partire dal 1963 mentre le prime erano realizzate ad olio (Marilyn Monroe, Liz Taylor, Liza Minnelli, Elvis Presley, Loredana Berté) e nella serie decorativa, quasi una carta da parati, dei Fiori a partire dal 1964 (un omaggio alla madre che creava e vendeva fiori di carta per sbarcare il lunario), resi piatti e banali, messi a coppie o in file interminabili, fiori finti che non appassiscono. La serie su Marilyn è sicuramente la più nota: il volto piatto e stereotipato è un accozzaglia di colori chiassosi che potremmo dire “fauve” (verdi, rosa, rossi, azzurri, tutti innaturalmente densi); ora viene ripetuto con variazioni coloristiche su tutta la superficie, con piccoli interventi grafici per cui nonostante la meccanica ripetizione del soggetto non esclude le differenze. L’interesse per i linguaggi industriali e commerciali genera opere fredde, pur se sgargianti e coloratissime, quasi anestetizzate (e ciò vale soprattutto per opere dal soggetto tragico come i Disastri automobilistici e le Sedie elettriche (la faccia oscura dell’America), che in mostra non trovate. Vi sono invece alcune delle copertine di dischi realizzate per i gruppi con cui lavora come quello dei Velvet Underground e la serie dei Dollari in file sovrapposte.
Due parole sulla sua biografia. Warhol, figlio di immigrati cecoslovacchi, nasce in un quartiere povero di Pittsburgh nel 1928 (morirà nel 1987 per arresto cardiaco); rimane orfano del padre minatore a 14 anni e, finiti gli studi d’arte grazie all’aiuto della madre e un impiego come vetrinista per un grande magazzino, si trasferisce a New York dove lavora come grafico pubblicitario per riviste famose (Harper’s Bazaar, Vogue) e per grandi aziende, cambiando il suo vero nome (Warhola) in Warhol. Alla fine degli anni cinquanta inizia a dipingere e nel giro di pochi anni espone nelle più importanti gallerie newyorkesi e diventa il beniamino delle riviste che non gli negano articoli entusiastici.
Si tenga conto che Warhol compare sulla scena artistica della Grande Mela quando il cosiddetto Espressionismo Astratto è ormai sulla via del tramonto e sempre più lontano – per eccesso di autoreferenzialità – dal grande pubblico a cui l’artista intende invece rivolgersi con immagini facilmente accessibili poiché intrise di una quotidianità fatta di prodotti da supermercato e di invadente pubblicità da parte dei mass media. Scavando sotto la superficie ossia l’apparente “cosalità” delle opere, Warhol affronta un discorso estetico di indagine sulla società dei consumi e rende le sue immagini moderne icone approntate per un “consumo simbolico”. Se l’interiorità era l’aspetto preminente dell’Espressionismo Astratto, la nuova generazione di artisti (a partire da Rauschenberg e Johns che col New Dada spianano la strada alla Pop) è pronta a sostituirla con l’esteriorità: essi guardano al mondo degli oggetti quasi sempre banali e delle immagini pubblicitarie; lo slogan diventa “qualsiasi cosa può essere un’opera d’arte”. Il filosofo Arthur Danto, in La trasfigurazione del banale del 1981, ha ben chiarito le condizioni per cui pezzi di realtà vengono appunto trasfigurati, vale a dire oltrepassano la loro cosalità per farsi figurazione, assumendo uno statuto ontologico diverso, quello dell’arte: innanzi tutto l’opera ha un titolo (che per una semplice “cosa” non avrebbe senso), è una rappresentazione intenzionale (l’opera è “a proposito di”, cioè ci mette di fronte all’interpretazione, di cui la cosa non necessita), ha un preciso “modo” rappresentativo (un tempo si sarebbe detto uno “stile”), attiva elementi di valutazione da parte di musei, gallerie, critica e mercato; infine le scelte degli artisti sono storicamente condizionate (qui dalla società massificata dei Sessanta, dai nuovi riti e nuovi miti per dirla con Gillo Dorfles). Scrive Danto: «Per quanto una figura di qualcosa possa somigliare a ciò di cui è figura, resta comunque una entità diversa … L’opera pop si basa su fattori concettuali , non sensoriali». Il lavoro di Warhol trasforma il mondo delle mere cose in significato, ossia in arte. Se partiamo da questa ultima affermazione possiamo dire che alla fonte dell’arte di Warhol c’è stato l’Astrattismo post-pittorico (anni Cinquanta) che è all’opposto dell’Espressionismo astratto (Pollock e compagni, per intenderci). Anche se può sembrare un’affermazione paradossale perché l’astrazione geometrica – aniconica – è quanto di più lontano possiamo immaginare rispetto alla figurazione Pop, entrambi le correnti producono un’arte impersonale non-emozionale ma esclusivamente visiva. Se il gesto di Pollock era un’azione atta a liberare l’io interiore, quello di Warhol è azione meccanica e omologata e, nella società del consumo, anche il consumo estetico delle opere diventa tale. Scrive Renato Barilli: “Tutto diventa consumabile, le dive come le bevande o le zuppe. … La cultura di massa è onnivora”. Le opere pop non sono mai illusionistiche né inserite in un intorno realistico come le vecchie nature morte, ma sono simulacri “tirati fuori” dal reale ossia “astratti”, come astratti sono i lavori dell’astrattismo geometrico. A proposito poi del “modo” con cui avviene la trasfigurazione, quello di Warhol adotta le tecniche della pubblicità e della fotografia commerciale usando in particolare la serigrafia che coincide con il suo modo di vedere il mondo “secondario” dall’artista, con piccole differenze rispetto al vero (ad esempio gli ingrandimenti, la moltiplicazione seriale, l’uso delle cose comuni cui offre una dimensione estetica. Gli oggetti sono già nel mondo reale, ma la loro citazione è una ri-figurazione che presenta piccole variazioni: sono ricostruiti con materiali diversi, la stesura è volutamente maldestra, i colori sono scompaginati), diversamente dal prelievo diretto duchampiano.
Nel 1963 Warhol, ormai celebre uomo di mondo, spazia oltre la pittura e la grafica e fonda la “Factory”, operazione insieme culturale e commerciale, che diventa la fucina di sperimentazioni in tutti i campi (ad esempio il cinema) e volano per tanti artisti giovani e ancora sconosciuti come J. M. Basquiat; nel 1967 pubblica il suo Diario che chiarisce il suo pensiero estetico. Mentre smitizza l’idea secolare di arte come “pezzo unico” avvolto dall’ “aura” e “fatto a mano”, crea un universo d’immagini meccanicamente prodotte che lasceranno il segno fino ad oggi. Partito da un ottimistico e quasi adolescenziale sguardo sull’America sfavillante dei Sessanta, vuol fare un’arte democratica, non elitaria (“Quel che c’è di veramente grande in questo paese è che l’America ha dato il via al costume per cui il consumatore più ricco compra essenzialmente le stesse cose del più povero”, dice). Nei decenni seguenti Warhol si fa più meditativo e critico di fronte alle nuove problematiche della contemporaneità a partire da quella ecologica (serie sugli Animali in estinzione) senza per questo rinunciare alle caratteristiche tecnico-stilistiche della rappresentazione serigrafica che ha utilizzato per quasi tutta la sua vita. Lascia in eredità ai giovani artisti un metodo d’indagine sulla realtà capace di penetrare i meccanismi della comunicazione.
NOTULA
Per entrare nel clima dei Sessanta e Settanta, in mostra si trovano anche alcuni oggetti di design simbolo di quei decenni: un giradischi colorato d’epoca, l’appendiabiti per la ditta Gufram in forma di cactus verde smeraldo in poliuretano schiumato di Guido Drocco e Franco Merlo che evoca luoghi assolati e può rallegrare le giornate grigie, un divano con le famose labbra rosse di Mae West, già realizzato da Dalì e ripreso dallo Studio 65 sempre per Gufram, la radio in forma di cubo apribile (dentro ci sono i comandi) dell’architetto Marco Zanuso e il designer Richard Sapper per Brionvega, con tanto di maniglia per portarla con sé.