L come LICINI

FULVIA GIACOSA
Con questa scheda torniamo alla prima metà del Novecento cercando di sintetizzare la complessità del periodo tra le due guerre mondiali e gli anni immediatamente successivi alla seconda. La situazione italiana appare molto più frammentata di quella francese dominata dal Surrealismo, e di quella tedesca con la feroce critica sociale della “Nuova Oggettività” che prelude alla fine delle libertà espressive da parte del regime: basti pensare alla mostra “Arte Degenerata” del 1937 a Monaco, nonché alla diaspora degli artisti ebrei.

In Italia la svolta che va sotto il nome di “ritorno all’ordine” avviene a partire dal secondo decennio del Novecento, in parte stimolata dalla rottura con le avanguardie da parte della Metafisica.  Gli anni Venti e Trenta sono di transizione tra prime e seconde avanguardie: predomina il recupero “antimodernista” della tradizione figurativa italiana (forme solide e precise, colori decisi e luci nette) aggiornata in uno stile realistico spesso venato di primitivismo e intimismo (si parla di “Realismo Magico”), anche se non mancano tendenze astratte che restano comunque minoritarie. Inizialmente è Margherita Sarfatti che cerca di riunire la nuova arte italiana “di figura” in una mostra milanese dal titolo “Novecento Italiano”, poi abbreviato nel 1923 in “Novecento”,  iniziato con un pugno di artisti tra cui Mario Sironi (noto per le sue cupe periferie industriali così diverse dalle metafisiche “piazze” dechirichiane), Massimo Campigli (con le sue donne geometricamente arcaiche ed etrusche), Arturo Martini (scultore di molte opere pubbliche), il “Chiarismo” lombardo di Umberto Lilloni (tipici i suoi paesaggi idilliaci), ma si potrebbe riempire un’intera pagina di nomi e gruppi. Novecento diventa presto un contenitore dove trova casa gran parte di ciò che si produce in Italia, dagli interni silenti di Casorati all’arte arcaicizzante del gruppo “Strapaese” (Rosai e Maccari) e persino certe opere di Morandi. L’arte aniconica, soprattutto quella degli anni Trenta e Quaranta, sopravvive a fatica ma ha i suoi estimatori per l’originalità rispetto alle astrazioni primo-novecentesche; essa viene detta concretismo da Theo van Doesburg (già esponente del Neoplasticismo olandese) poiché definisce “concreti” gli elementi plastico-cromatici. I nuovi astrattisti italiani – Reggiani, Radice, Veronesi, Fontana, Melotti, i più noti – si raggruppano nella galleria milanese Il Milione aperta nel 1930.

Non pochi artisti italiani tuttavia scelgono di operare in solitaria: tra questi Osvaldo Licini (1894-1958) , protagonista della presente scheda e pittore troppo spesso dimenticato.

Nato a Monte Vidon Corrado nelle Marche nel 1894, vive l’infanzia a Parigi dove lavorano i genitori, ma torna giovinetto al paese natio con il nonno. Frequenta prima l’Accademia di Bologna dove incontra Giorgio Morandi (con cui espone nel 1914 in una collettiva) e poi quella di Firenze. Contemporaneamente scrivere racconti e poesie. Nel 1915 parte volontario per la guerra e viene ferito gravemente ad una gamba rimanendo zoppo. Passa la convalescenza dalla madre a Parigi e qui conosce gli artisti d’avanguardia, tra cui Picasso, del quale si trovano alcune tracce nelle anatomie “storpiate”, e  Modigliani a cui dedicherà un saggio. È appassionato di musica (segue gli spettacoli di Cocteau musicati da Satie) e di poesia (Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, l’Apollinaire dei “Calligrammi”, Dino Campana dei “Canti orfici”). Insomma i suoi orizzonti si allargano. Alterna soggiorni tra Parigi dove espone al Salon nei primi anni Venti, e l’Italia, soprattutto nelle natie Marche. I lavori degli anni Venti sono per lo più paesaggi, nature morte e qualche ritratto. Intanto conosce e sposa una pittrice svedese e con lei inizia un nuovo percorso andando a vivere nel paese natale, lontano dai fragori metropolitani che sopporta a fatica, allontanandosi solo in occasione di partecipazioni a mostre internazionali. Questa scelta non deve stupire: il successo non lo interessa e ciò gli garantisce la scelta di un percorso personale che lo tiene lontano dalle polemiche tra vari raggruppamenti artistici e soprattutto una intimità esistenziale nella solitudine nel paese  marchigiano. D’altronde siamo nelle terre leopardiane, tra gli ermi colli e le siepi che chiudono l’orizzonte oltre il quale è possibile immaginare quell’infinito in cui è dolce naufragar (aveva avviato un progetto di disegni, mai realizzato, dedicato alla poesia del recanatese). Qui l’immaginario di Licini trova il suo genius loci.

È l’artista stesso a definire l’evoluzione del suo lavoro: un giovanile primitivismo fantastico, seguito da un realismo magico e, dal 1930 al 1940, un astrattismo “eretico” (la prima opera di questo tipo è “Fili astratti su fondo bianco”, 1932) alternato a opere “figurate” più che figurative. Nel corso del decennio pubblica testi d’arte, partecipa alle Quadriennali romane e alla “Prima mostra collettiva di arte astratta italiana”, a Torino nel 1935.  Alla galleria “Il Milione” ottiene la sua prima personale con alcuni quadri geometrici. Poco dopo dà il via a quelli che saranno i suoi lavori più tipici, cicli di opere sui temi  degli Angeli Ribelli e delle Amalassunte che prendono vita su un registro astratto-figurativo-immaginifico e costituiscono il nucleo centrale della sua esperienza estetica, come risulta dai suoi scritti. In “Natura di un discorso” (1935) chiarisce la iniziale adesione al gruppo degli astrattisti: “Siamo astrattisti per la legge psicologica di compensazione, cioè per reazione all’eccessivo naturalismo e materialismo del secolo decimonono”. La libertà totale con cui l’artista usa forme, segni (“che esprimono la forza, la volontà, l’idea”) e colori (“che esprimono la magia”) è il credo estetico di Licini; la sua arte è figlia della poesia (“fantasia e immaginazione”) e implica una indipendenza da mode, gusti, religioni estetiche e dalla “mediocrità e conformismo” della ricerca artistica dell’epoca. Non è un caso che la svolta determinante per il suo lavoro sia il buen retiro in mezzo a contadini, uomini semplici e sinceri, dove l’artista può chiudersi nel suo microcosmo alla ricerca di un equilibrio esistenziale e artistico. Le opere geometriche degli anni Cinquanta vanno alla ricerca di un rigore morale prima ancora che formale: sceglie solo linee rette e razionali, sottili fili bianchi o neri che percorrono delicatamente le tele insieme a esili triangoli, con qualche accenno, stilizzatissimo, al reale (“Uccello”, 1954, “Munchhausen”, 1955, quasi un burattino geometrico formato da tratti lineari e triangoli, “Missili sopra il mare”, 1947), essi ricordano il Mirò del “Cane che abbaia alla luna”. I lavori più noti, di astrattismo lirico, sgorgano dalla fantasia e creano un mondo a parte in cui l’artista trova se stesso. Gli “Angeli ribelli” sono una serie che aveva già un antenato nell’ “Arcangelo” giovanile dalle ali vaporose come nuvole. Gli angeli liciniani non sono obbedienti creature celesti ma ribelli calati tra gli umani coi quali condividono ansie, speranze e un insopprimibile anelito alla felicità; corpi inferiori, conservano però la possenza originaria e numinosa, termine che vale tanto per il divino quanto per il demoniaco. Sovviene la serie di angeli realizzata da Klee, anche se a puro tratto e senza colore. Come gli Angeli anche le “Amalassunte” errano nello spazio leggero e infinito alla riconquista del paradiso perduto, ammesso che esista: perché non ci sono certezze, solo domande senza risposta. Eppure non c’è angoscia in questi quadri, ma attrazione, fascino, ebrezza per il mistero. I fondi, quasi sempre blu o vermigli, sono intensi e puri come in una notte immersa nel silenzio, un cielo affatto immoto ma solcato da energie incorporee, divine o terrestri non fa differenza.  Ma chi sono queste Amalassunte? A volte presenti con gli Angeli, si somigliano per il loro aspetto androgino, altre volte sono solitarie figure cosmiche che traggono ispirazione da racconti popolari, dalla letteratura e dalla musica. Scrive Licini in una lettera al critico e amico Giuseppe Marchioni (1950) in occasione della Biennale dove era stata esposta una “Amalassunta”: “Amalassunta è la luna nostra bella, garantita d’argento per l’eternità, personificata in poche parole, amica di ogni cuore un poco stanco”, anche se in un’intervista del 1958 dice d’aver tratto spunto dal nome di “una certa principessa di Ravenna morta assai giovane (“nella mia fantasia infantile accoppiai questa figura di sogno con la dea della notte che percorre il cielo torno torno”), probabilmente la regina ostrogota Amalasunta, figlia di Teodorico, strangolata secondo la leggenda nei pressi del lago di Bolsena. In realtà poco conta la ragione del nome; i personaggi di Licini stanno sempre tra realtà dei racconti e irrealtà dell’immaginazione che lo porta a nuotare nel cielo guidato dalla fantasia: “ecco la bella luna/mi vedi volare lassù/nella luna/ ecco come volo per tutto il mondo/tutto l’universo/l’infinito è mio”. Ad accrescere l’arcano, l’artista introduce alcuni numeri e lettere alfabetiche che hanno suggerito ai critici esegesi esoteriche; anche per questi elementi vale quanto detto sopra, poiché in fondo sono innanzi tutto “segni”, figure essi stessi come gli altri astri celesti. Dice Licini al proposito: “Io cercherò di recuperare il segreto primitivo del nostro significato nel cosmo … solo allora potrò mostrarti le mie prede: i segni rari che non hanno nome; gli alfabeti e scritture enigmatiche”. Lune, angeli ribelli e Amalassunte non sono che correlativi oggettivi, ha scritto Mario De Micheli in un catalogo. Le stesse considerazioni si possono fare per un’altra breve serie titolata “L’Olandese Volante” (anni Quaranta), probabile riferimento a una saga nordica e all’opera di R. Wagner (storia nota anche come “Il vascello fantasma”). La matrice romantica e “spettrale”  (storia fatale di un navigatore condannato a viaggiare senza sosta negli oceani) si stempera nei lavori di Licini in una ironia dolce, mai aggressiva. In tutti i cicli citati c’è dunque il desiderio di stemperare, grazie all’arte, le inquietudini mondane nel mistero del cosmo abitato da una varietà di esseri fascinosi che conservano l’esperienza personale del mondo. Stilisticamente dominano alcune caratteristiche che testimoniano l’ammirazione di Licini per Matisse e Modigliani, dai quali eredita la vitalità di una linea sinuosa e musicale, colori piatti ma profondissimi, in particolare in certi “Notturni” degli anni Cinquanta; o per Klee e Kandinskij a cui deve un certo biomorfismo e il gemellaggio tra arte e musica. Il risultato è un’arte fresca e un po’ maliziosa, amabile nella sua immediatezza comunicativa, che non ci chiede di scervellarci per interpretare ogni segno ma solo di godere delle seducenti malie di cui si nutre.

(per leggere gli articoli correlati, cliccare sul tag Frammenti d’arte)

L’ARTICOLO VIENE PUBBLICATO SENZA IMMAGINI PER EVITARE PROBLEMI DI COPYRIGHT, CE NE SCUSIAMO CON I LETTORI.