DINA TORTOROLI
Rileggere equivale a riascoltare una persona amica: spesso accade che sue ben note confidenze tutto a un tratto acquistino una risonanza rivelatrice.
Quindi, dopo avere fruttuosamente riascoltato la “petizione” del 1796, cosa posso dire dell’Imbonati?
Innanzitutto mi conforta constatare che a lui stanno a cuore, anche nella quotidianità dei suoi rapporti, le medesime finalità parenetiche individuate dal professor Luigi Weber nell’autore del Saggio sulla Rivoluzione francese del 1789.
Carlo Imbonati si attiene scrupolosamente al medesimo codice etico: è rigoroso con se stesso e con gli altri, parla en patriote, fa una scelta coscienziosa delle parole.
Detesta la sconsideratezza con cui vede adoperare le parole: le parole che hanno potere, inventano, annientano.
Nel caso in questione, egli ammette che un apparato burocratico implichi uniformità di procedure, non automatismi.
I funzionari non si devono considerare esenti dallo “strenuo sforzo di onestà intellettuale, di responsabilità, richiesto sempre a tutti gli individui e in special modo ai detentori del potere nonché a coloro che si trovano nei pressi del potere, o son desiderosi di potere” (volutamente utilizzo frasi del professor Weber).
A ogni nome, inserito nel catalogo degli “Assenti”, corrisponde una persona che ha il diritto di non essere considerata soltanto un numero; pertanto, il “Cittadino Carlo Imbonati” induce i “Cittadini Deputati” a un equo raffronto tra i “varj” “giusti” motivi per cui gli “Amministratori Generali della Lombardia” richiamavano in patria i cittadini assenti, e gli eventuali motivi inderogabili per cui alcuni tra loro – come Carlo Imbonati e Giulia Beccaria Manzoni – erano costretti a prolungare la propria permanenza a Parigi.
Poi è notevole il fatto che Imbonati proponga se stesso e Giulia come garanti della propria buona fede («Consci a noi stessi della purità delle nostre intenzioni») e come esempi di “patriottismo”, scevro da qualsiasi tentennamento nell’ubbidire alla legge («il nostro patriottismo e il nostro zelo nell’osservanza di tutto quanto viene emanato dalle Autorità Costituite nella nostra Patria»).
E con l’espressione enfatica “tutto quanto” il patriota riesce persino a comunicare la sofferenza che comporta la fedeltà a leggi emanate dagli occupanti.
Egli non esita quindi ad aggiungere che esiste una prova concreta del proprio zelo: il fatto che, al momento dell’espatrio, lui si fosse rivolto, insieme con Giulia, ai tre “Comitati” appena stabiliti in Lombardia, facendo “segnare i Passaporti” “dal Comandante della Lombardia”, dalla “Municipalità” e dal “Comitato di Polizia”.
Inoltre, egli ritiene che dovrebbe essere apprezzato il fatto che, anche in quella precedente occasione, Giulia e lui si fossero avvalsi della “mediazione” dei compatrioti “Deputati”.
In ogni modo, gli sta particolarmente a cuore “rimarcare” che non per loro volontà hanno “lasciato” la Patria : essi hanno “dovuto” farlo.
Unica “scelta” concessa loro: il luogo in cui stabilire la nuova dimora, e il fuoriuscito si auto-elogia, orientando quindi correttamente il giudizio delle Autorità: «avendo noi dovuto lasciare la nostra Patria abbiamo però scielto per nostra dimora un luogo dove per tutti i punti possibili siamo immediatamente sotto l’inspezione delle Leggi che governano la nostra Patria».
Io devo ammettere di non avere finora riflettuto adeguatamente sul fatto che Carlo Imbonati – trasferendosi in Inghilterra nel 1795, e l’anno dopo in Francia – aveva vissuto l’esperienza tormentosa dell’“abbandono forzato” della patria.
Ho anche sottovalutato la drammaticità insita nel gesto da lui compiuto immediatamente prima del distacco: affidare al notaio il testamento, scritto di proprio pugno.
Eppure ho sempre avuto ben presente il tema dell’Addio, per come è trattato nel Fermo e Lucia.
Coloro cui sfugge la grandezza del Fermo possono addirittura ritenere elucubrazioni superflue le considerazioni morali sulla sofferenza dei fuggiaschi – di tutti i fuggiaschi – (tanto è vero che nei Promessi Sposi non ne resta traccia), ma a tutt’altra valutazione è indotto chi crede che il cosiddetto “Primo Manzoni”, “il Manzoni di Fermo e Lucia” (puntata n. 33), non possa essere altri che Carlo Imbonati, impegnato a perseguire fini che non hanno niente in comune con chi scrive “per amor proprio”, per affermazione di sé (nonostante egli avesse assimilato il suo vasto sapere a un punto tale da intrattenere automaticamente quei “rapporti intertestuali” che in effetti “legano” anche la cosiddetta “prima versione” del romanzo “al sistema letterario europeo”)*.
Quindi, è con meraviglia e commozione che – infine – colgo appieno l’afflato autobiografico che pervade il suo appello a considerare quel «dolore speciale: la contemplazione della perversità d’una mente simile alla nostra: idea predominante in chi è afflitto dal suo simile» (che è altresì –indubbiamente – l’idea-cardine dell’intera sua opera):
«Addio, monti posati sugli abissi dell’acque ed elevati al cielo; cime ineguali, conosciute a colui che fissò sopra di voi i primi suoi sguardi, e che visse fra voi, come egli distingue all’aspetto l’uno dall’altro i suoi famigliari, valloni segreti, ville sparse e biancheggianti sul pendio come branco disperso di pecore pascenti, addio! Quanto è tristo il lasciarvi a chi vi conosce dall’infanzia! quanto è nojoso l’aspetto della pianura dove il sito a cui si aggiunge è simile a quello che si è lasciato addietro, dove l’occhio cerca invano nel lungo spazio, dove riposarsi e contemplare, e si ritira fastidito come dal fondo d’un quadro su cui l’artefice non abbia ancora figurata alcuna immagine della creazione. Che importa che nei piani deserti sorgano città superbe ed affollate? Il montanaro che le passeggia avvezzo alle alture di Dio, non sente il diletto della meraviglia nel mirare edificj che il cittadino chiama elevati perché gli ha fatti egli ponendo a fatica pietra su pietra. Le vie che hanno vanto di ampiezza, gli sembrano valli troppo anguste, l’afa immobile lo opprime, ed egli che nella vita operosa del monte non aveva forse provato altro malore che la fatica, divenuto timido e delicato come il cittadino, si lagna del clima e della temperie, e dice che morrà se non torna ai suoi monti. Egli che sorto col sole non riposava che al mezzo giorno, e al cessare delle fatiche diurne, passa le ore intere nell’ozio malinconico ripensando alle sue montagne.
Ma questi sono piccioli dolori. L’uomo sa tormentar l’uomo nel cuore; e amareggiargli il pensiero di modo che anche la memoria dei momenti passati lietamente affacciandosi ad esso perde ogni bellezza, e porta un rancore non temperato da alcuna compiacenza; è tutta dolorosa: reca all’afflitto una certa meraviglia che abbia potuto altre volte godere, e non desidera più quelle contentezze delle quali non gli par più capace la sua mente trasformata. Dolore speciale: la contemplazione della perversità d’una mente simile alla nostra: idea predominante in chi è afflitto dal suo simile.
Addio, casa natale, casa dei primi passi, dei primi giuochi, delle prime speranze, casa nella quale sedendo con un pensiero s’imparò a distinguere dal romore delle orme comuni il romore d’un’orma desiderata con un misterioso timore. Addio, addio casa altrui, nella quale la fantasia intenta, e sicura vedeva un soggiorno di sposa, e di compagna. Addio chiesa dove nella prima puerizia si stette in silenzio e con adulta gravità, dove si cantavano con le compagne le lodi del Signore, dove ognuno esponeva tacitamente le sue preghiere a Colui che tutte le intende e le può tutte esaudire, Chiesa dove era preparato un rito, dove l’approvazione e la benedizione di Dio doveva aggiungere all’ebbrezza della gioja il gaudio tranquillo e solenne della santità. Addio!
Il serpente nel suo viaggio torto e insidioso, si posta talvolta vicino all’abitazione dell’uomo, e vi pone il suo nido, vi conduce la sua famiglia, riempie il suolo e se ne impadronisce; perché l’uomo il quale ad ogni passo incontra il velenoso vicino pronto ad avventarglisi, che è obbligato di guardarsi e di non dar passo senza sospetto, che trema pei suoi figli, sente venirsi in odio la sua dimora, maledice il rettile usurpatore, e parte. E l’uomo pure caccia talvolta l’uomo sulla terra come se gli fosse destinato per preda: allora il debole non può che fuggire dalla faccia del potente oltraggioso: ma i passi affannosi del debole sono contati, e un giorno ne sarà chiesta ragione»**.
Nel momento in cui si conclude il primo blocco narrativo dell’impareggiabile romanzo-inchiesta, l’iniziale descrizione di quello che può essere considerato “uno dei paesi più belli del mondo” si arricchisce di misticismo, diviene un inno alla grandiosità del creato, che dovrebbe indurre gli esseri umani alla contemplazione e all’ armonica convivenza.
Invece, esistono uomini che recano oltraggio alla propria natura e si comportano come gli animali cui altri animali sono “dati per preda”.
E le prede – siano esse un Conte dal sapere enciclopedico o un montanaro semianalfabeta – hanno tutte “la mente trasformata” da un uguale tormento, e i loro “passi” sono ugualmente affannosi e meritevoli di risarcimento.
Per questo, chi “possiede la parola” ha il dovere di denunciare quella vile prevaricazione.
Carlo Imbonati fin dall’infanzia aveva soggiornato a Cavallasca, presso Como, e aveva partecipato alle circumnavigazioni del lago che suo padre, il conte Giuseppe Maria Imbonati, era solito proporre agli abituali ospiti, Accademici Trasformati.
Nella giovinezza, poi, gli andirivieni tra Como e Domaso (in cui viveva il suo “buon e particolare Amico” Carlo Calcaterra, designato quale eventuale sostituto dell’esecutore testamentario Francesco Zinammi), indubbiamente gli avevano resi familiari “i monti posati sugli abissi dell’acque ed elevati al cielo” – “alture di Dio” – e “i valloni segreti”, tanto quanto lo erano al montanaro Fermo Spolino, che fra i monti era nato e vissuto.
Per questo Imbonati può presentire lo smarrimento che Fermo proverà nell’affrontare le “città superbe” – opera soltanto della mano dell’uomo – in cui si sentirà addirittura mancare il respiro.
Più arduo, per un uomo, è immaginare i pensieri di una donna.
È detto, nel Fermo, allorché vengono prese in considerazione le “fluttuazioni di sentimenti” di Geltrude, in procinto di affrontare l’“esame su la vocazione”, da parte di “un ecclesiastico”:
«Pretendono alcuni che le figlie d’Adamo riescano molto meglio a dominare l’espressione esterna del loro animo che l’animo stesso; e che in questa parte riescano meglio assai che non quegli individui del genere umano che si chiamano di preferenza uomini. Ma tutte queste questioni di paragone tra l’un sesso e l’altro, non saranno mai messe in chiaro, e neppure ben poste fin che gli uomini soli ne tratteranno ex professo negli scritti (mio il corsivo): giacché essi peccano tutti verso le donne o di galanteria adulatoria, o di ostilità grossolana. Con questa osservazione non s’intende già di sprezzare temerariamente tante opere profonde che sono state scritte sul merito comparativo del bel sesso, e le riflessioni infinite e bellissime su questo argomento che sono sparse in tante altre opere; ma per quanto una materia sia stata egregiamente trattata, è sempre lecito di desiderare qualche cosa di più»***.
Molto “di più” gli fornisce una tra le attiviste femminili più celebri, a Parigi, al tempo della Rivoluzione: Madame Roland, nota anche come “La Musa dei Girondini”, animatrice culturale del Cercle Sociale, ghigliottinata nel 1793.
Nelle Memorie dal carcere, M.me Roland analizza la propria condizione, con piena consapevolezza dell’imminente condanna a morte:
«Adieu, mon enfant, mon époux, ma bonne, mes amis; adieu, soleil dont les rayons brillans portaient la sérénité dans mon âme comme ils la rappelaient dans les cieux; adieu, campagnes solitaires dont le spectacle m’a si souvent émue; et vous, rustiques habitans de Thésée, qui bénissiez ma présence, dont j’essuyais les sueurs, adoucissais la misère et soignais les maladies, adieu; adieu, cabinets paisibles où j’ai nourri mon esprit de la vérité, captivé mon imagination par l’étude, et appris, dans le silence de la meditation, à commender mes sens et mépriser la vanité».**** (Addio, figlia mia, mio sposo, mia governante, amici miei; addio, sole i cui raggi lucenti infondevano al mio animo la serenità che essi riportavano in cielo; addio, campagne solitarie il cui spettacolo mi ha tanto sovente commossa; e voi, rustici abitanti di Thésée, che benedicevate la mia presenza, dei quali tergevo i sudori, addolcivo la miseria e curavo le malattie, addio; addio, stanze tranquille dove ho nutrito il mio spirito di verità, avvinto la mia mente con lo studio, e imparato, nel silenzio della meditazione, a dominare i miei sensi e a sprezzare la vanità).
Dovrei e vorrei immediatamente analizzare i punti di contatto col cortometraggio del passé cui Lucia Zarella si era vista costretta a dire addio, ma devo rimandare ad altro tempo, per non allontanarmi troppo a lungo dalla “petizione” in esame.
Per lo stesso motivo devo rinunciare a prendere ora in considerazione le asserzioni del professor Weber, che possono persino essere utilizzate a sostegno della paternità imbonatiana del Saggio sulla Rivoluzione francese del 1789, tanto perfettamente si attagliano all’Imbonati “costituzionalista raffinato” (per studio e costante riflessione, non soltanto in virtù del DNA), pensoso dei fatti di Francia quando era ancora in patria.
Non è certamente azzardato immaginare che, dal 1776 vivendo a Parigi “tra gli Idéologues”, si creassero occasioni di dibattito, in cui Carlo osava “mettere in luce” le “cecità o connivenze o opportunismi di uomini che non potevano non sapere, non capire, non vedere, e che non seppero non capirono non videro, spesso nemmeno quando a loro volta salirono sulla carretta fatale che li portava al patibolo”.
Quel prolungato, penoso “testa a testa” con persone delle quali peraltro Imbonati aveva stima aggravò senza dubbio il logorìo che lo indusse a desiderare di “finire in pace” (Falquet- Planta), lontano da Parigi e da Milano.
Sappiamo, infatti, che nel settembre 1804 progettava di “comprare casa” e “stabilirsi nella Svizzera”, e l’anno dopo – “molto sofferente” – “gli sorrise l’idea” di “ritirarsi” nelle Valli Valdesi, a Torre Pellice, nell’abitazione che gli aveva trovato l’amico Sébastien Falquet-Planta.
Ce ne occuperemo, ma intanto devo ritornare al documento del 1796, cedendo la parola al professor Guido Bezzola, che ha il merito di averlo pubblicato, insieme con un dato inedito*****.
Sorprendente è, senza dubbio, il commento conclusivo del Professore:
«Fra i motivi addotti per la partenza c’è quello di un “cangiamento d’aria” per motivi di salute, ma il cangiamento d’aria può avere in più significato politico e pure mondano; in quei primi mesi di occupazione l’aria di Milano si era fatta pesante anche per i patrioti, mentre a Parigi l’irregolarità della coppia era sicuramente meno osservata».
In verità, io posso esibire una complessa documentazione in grado di svelare il “significato politico” del “cangiamento d’aria” necessario a Carlo Imbonati, alla fine del 1795.
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*«Per riscoprire la verità profonda del cuore, “i pensieri” di Lucia, il romanzo orchestra il grande motivo dell’Addio appropriandosi di materiali intertestuali, quasi richiamasse gli enunciati, i discorsi, le situazioni di altri famosi testi letterari. E questi materiali svariano dai frammenti drammatici di uno Schiller (La vergine d’Orleans, Prologo) agli antecedenti autobiografico-memorialistici di un Rousseau (Correspondance, 25-5-1775), a quelli romanzeschi di uno Scott» (Rob Roy). ( Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, a cura di Ezio Raimondi e Luciano Bottoni, Principato, p.185).
** (Fermo e Lucia, a cura di Alberto Chiari e Fausto Ghisalberti, Mondadori, pp. 139-140).
*** (Fermo e Lucia, cit., p. 198).
**** (Mémoires de Madame Roland par MM. BERVILLE et BARRIÈRE, Deuxième edition, Tome premier, Paris 1821, p. 273).
***** «Allegata alla petizione è una lettera della Commissione Centrale 27 Nevoso a. V (16 gennaio 1797), con cui si concede l’esenzione dalla tassa speciale finché i due dimoreranno a Parigi» (Guido Bezzola, Giulia Manzoni Beccaria, Rusconi, p. 65).