René Adolphe Schwaller de Lubicz

René Adolphe Schwaller de Lubicz

René Adolphe Schwaller de Lubicz

ANTONIO VIGLINO

René Adolphe Schwaller de Lubicz (1887 – 1961) fu un importante alchimista ed egittologo del secolo scorso.
O forse è meglio dire che fu un egittologo alchimista, dato che la sua comprensione dell’Antico Egitto era incentrata sulla dimensione della Scienza Sacra così come le sue pratiche alchemiche ruotavano intorno a quella stessa dimensione simbolica che egli vedeva nelle cose egizie.
È facilmente intuibile che gli scritti di Schwaller de Lubicz non siano considerati seriamente dagli egittologi, se non per gli aspetti puramente esteriori ed architettonici. La scienza della egittologia è infatti fondata, così come peraltro il pensiero occidentale nel suo insieme, su quello che già Socrate denunziava come l’erroneo “credere di sapere”, e che Platone, nel Sofista, riduce ad una battuta, nominando “coloro che credono solo a ciò che oppone resistenza al contatto” (Sofista, 246 B). E proprio su questa base ontologico-ermeneutica improntata al più becero materialismo, le scienze moderne, umanistiche e non, si sono sviluppate avviluppandosi alla mentalità razionalistica che alfine Hegel ha portato in trionfo con la sua brutale dialettica che a forza manganella concetti finché non se ne trovi una sintesi purchessia. “Ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale”, disse Hegel: mai costrutto fu più consolatorio per le menti vaganti di tra gli eventi, se viene stabilito che ciò che uno creda di opinare debba essere il vero.
A differenza del mental-materialismo che si erge a pretendere che debba essere vero solo ciò che vede a partire dal pregiudizio che debba essere vero (è un circolo vizioso ovviamente questo, ma è la struttura della mentalità incentrata sulla rappresentazione e quindi sul calcolo razionalistico), Schwaller de Lubicz seguiva invece una diversa via, preservatasi incorrotta pure nelle pieghe del’Occidente stesso, nell’ermetismo, nello gnosticismo, nell’alchimia, nella Qabbalah, fino ai giorni nostri. Solo che, a differenza non solo naturalmente delle dottrine orientali ma anche di quelle greco-antiche — basti pensare agli Orfici, ai Pitagorici, a Parmenide, Eraclito ed a Platone stesso, sempreché si abbia la bontà di leggere cosa scrissero per cosa scrissero al di qua cioè di volerli forzare all’interno di categorie logiche che loro non partengono punto —, nell’Occidente post-aristotelico e post-monoteista (la somma di questi due termini è va da sé la onto-teo-logia che addita Heidegger, e che già Nietzsche sfrenatamente irrideva) le correnti esoteriche dovettero ammantarsi, per sopravvivere anche fisicamente, in spessi strati di veli i quali, pur se sottili sete rispetto alla avydia (termine che significa niente di più e niente di meno che l’ignorare la propria vera natura, in termini filosofici appunto la rappresentazione), ancora di più schermano la conoscenza verace.
Ed è proprio questo l’alveo dal quale emergono gli studi di Schwaller de Lubicz sugli egizi. Usualmente si legge che Schwaller de Lubicz sia stato un egittologo simbolista, definizione che viene intesa in modo diverso a seconda dei pregiudizi di chi la impieghi. Gli scientisti intendono con ciò dire che egli riducesse cosa gli piacesse ai suoi prediletti simboli per rendere un tutt’uno intessuto di pindarici ed arbitrari fili; dal lato opposto ci sono gli entusiasti lettori di testi esoterici, che ritengono che ogni riga letta debba contenere quelle nebulose e numinose valenze che essi stessi pretendono beatamente di attribuirvi, gli “amici delle idee” li definiva Platone nello stesso passo del Sofista sopra citato (248 A). Entrambi questi modi di opinare, il primo per denigrarlo il secondo per esaltarsene, intendono il simbolismo nello stesso modo, come cioè un sostituire una cosa con un’altra per motivi di mera evocatività, e questa è peraltro la definizione di simbolismo nel linguaggio comune e nel pensiero ordinario contemporanei.
Il simbolismo di Schwaller de Lubicz invece non è per nulla il simbolismo come lo si intende comunemente. E non lo è per due motivi, il primo dei quali presuppone il secondo: secondo Schwaller de Lubicz le corrispondenze che egli individua sono vere ed efficaci, non sono sue interpretazioni, bensì sono fatti, fatti di ordine diverso dai fatti sensibili; ed egli può dire che questi siano fatti evidentemente solo sulla base dell’aver realizzato, in quanto alchimista operativo, che davvero la realtà non è solo quella che appare ai cinque sensi e poi alla neocorteccia che razionalisticamente elabora. È proprio questa la difficoltà di leggere Schwaller de Lubicz, perché se lo si legge all’interno della mentalità razionalistica occidentale (o degli ingenui credi fideistici che ne sono lo specchio), non si possono che rifiutare (o rispettivamente idolatrare) le sue pagine in quanto extra-materiali. Ed altresì va ben considerato che rispetto ad ogni esoterista è anche significante il contesto entro il quale opera: come i santi del cristianesimo in deliquio vedono Dio Padre, come in India gli yogin a seconda della Via si fondono nel Brahman, in Shiva o nel nibbana, così Schwaller de Lubicz era intriso della cultura europea del primo Novecento, dove il simbolismo era inteso come categoria dello spirito più che non della asettica linguistica computazionale come ai nostri giorni — anche sotto questo profilo dovrebbe perciò essere evidente che, quando Schwaller de Lubicz parlava di simboli, non intendeva per nulla cosa intendiamo noi oggi per simbolo. Ed anche un testo come Il serpente celeste di John Antony West ha sì il grande pregio di operare una sintesi delle opere e del pensiero di Schwaller de Lubicz, ma contiene anche il rischio che il suo simbolismo pre-sequanziale venga inteso come ridotto nei termini meccanicistici contemporanei — come rispetto ad ogni autore di un certo peso, è bene dapprima leggere i suoi propri testi, poi se mai eventualmente loro commenti o riduzioni.
Dopo cotanti argomenti sottili, ecco una loro giustificazione pratica. Si sa che Schwaller de Lubicz trascorse oltre un decennio a misurare ogni pietra e distanza del tempio dell’Apet del Sud, più noto come tempio di Luxor, e che il Tempio dell’uomo è la ponderosa opera che dà di ciò conto. Schwaller de Lubicz ritiene che il tempio, costruito in tempi successivi ad opera di diversi faraoni, rispecchi la struttura fisica e nervosa del corpo umano (e già ciò è eresia per gli egittologi, secondo i quali ogni faraone edificava seguendo i propri intenti, al di fuori di qualsiasi piano architettonico deliberato).
Ebbene l’uomo del tempio di Luxor non ha la calotta cranica. E Schwaller de Lubicz dedica molte pagine a questo fatto, spiegando come sia ciò coerente con la sua concezione della sapienza egizia, per la quale il centro dell’intelligenza è il cuore, ben più che l’encefalo (come comprova peraltro il fatto che l’encefalo sia praticamente l’unico organo gettato via durante il processo di imbalsamazione, laddove il cuore l’unico ad essere lasciato nel corpo). Questo argomentare suona davvero però ostico da accettare: come potevano gli egizi, abilissimi ingegneri e costruttori quant’altri mai, esperti chirurghi e finissime menti, non rendersi conto che la sede della mente pare sia nella testa? Se si passa alle dottrine tantriche orientali, ci si trova però dinnanzi ad uno scenario analogo: il chakra principale in molte correnti degli yogi è anahata, il chakra del cuore, sede della conoscenza — fondamentali sono certo i chakra collocati nella testa, ajna chakra al centro del cervello e il sahasrara chakra alla sommità del cranio, ma entrambi sono fondamentali per accedere a modalità oltre-umane di conoscenza, mentre la saggezza pura insita in ogni essere umano resta localizzata nel cuore (non nel muscolo, va da sé, un po’ più indietro, presso la ghiandola del timo, il thymos che già entusiasmava gli eroi dell’Iliade). Non solo, ma nelle modalità avanzate dei tantra della mente, al di là delle concentrazioni e meditazioni che costituiscono la parte esoterica sì ma ancora discorsiva ed introduttiva, la località cerebrale è vissuta come vuota — approfondire questo punto si può rimandare ad altra occasione, come spesso diceva il Socrate platonico di fronte ad argomenti complessi. Resta il fatto che l’uomo senza calotta del Tempio di Luxor sarebbe agli occhi di uno yogi indiano o tibetano una immagine puramente coerente con il procedere nelle realizzazioni della Scienza Sacra.
Proprio questa insomma, operativa e oggettivamente tantrica, è la chiave di lettura della egittologia di Schwaller de Lubicz: tutto il suo simbolismo ha ragion d’essere a partire da questo ambito psico-organico, che Schwaller de Lubicz stesso naturalmente ben conosceva in quanto provetto alchimista, al punto che, si tramanda, ottenne il rosso di Chartres con mezzi naturali.
Quello appena esposto è un accenno di interpretazione operativa dell’opera di Schwaller de Lubicz, che ha il pregio di rendere concrete ed effettive le sue intese circa le energie funzionali rappresentate dai Neteru egizi, giacché solo controllando le proprie energie sottili si possono esperire le energie sottili di più ampia portata, come è detto e ripetuto tanto dagli yogin del sub-continente indiano quanto dagli alchimisti.
Naturalmente, infine, il parlare di Schwaller de Lubicz impone di doversi ricordare che la tesi della erosione della Sfinge ad opera delle acque piovane ha la di lui paternità (espressa en passant nell’opera La teocrazia faraonica); il già menzionato J.A. West colse lo spunto, incaricò il giovane geologo R. Schoch di studiarne la validità, ed oggi è questa una delle ipotesi più dibattute intorno ai misteriosi monumenti della piana di Giza, anche perché, si sa, da alcuni decenni le autorità egiziane vietano ogni nuovo scavo in loco.