DINA TORTOROLI
Immancabilmente attratta da un mercatino itinerante di libri, una ventina di anni fa, mi imbattei nella Lettera di Francesco Piranesi al Signor Generale D. Giovanni Acton*.
Fu una piacevolissima sorpresa: risvegliava ricordi di scuola.
Anno 1955, il prof. d’Italiano aveva dedicato due ore di lezione alla glorificazione di Ugo Foscolo, in quanto autore dell’Esame su le accuse contro Vincenzo Monti, e dopo aver sintetizzato i sedici blocchi narrativi in cui il testo è articolato, aveva declamato la sequenza IX («Ma si sveli finalmente nel Monti l’autore della lettera pubblicata sotto il nome di Francesco Piranesi, ove non la immaginazione, ma lo intelletto e la storia hanno denunziato alla Europa quanto vi era di più infame nella reggia di Napoli. Allo stesso governo di Roma, mortale nemico di quella corte, spiacquero le audaci verità e le liberissime massime altamente propagate in quest’opera, poiché le accuse apposte al despota siciliano poteano agevolmente ed a diritto ritorcersi contro tutti i despoti di que’ tempi. Ché, se l’oro profuso da Acton per tracciare l’origine di tale scritto ne avesse scoperto l’autore verace, certo che la politica profondamente perfida del pontefice, per non isfidare ad aperta guerra il Re confinante, avrebbe punito il Monti quasi calunniator de’ sovrani, o trasmessolo a scontar col suo capo le verità che minacciavano la onnipotenza dei troni. Ponderate severamente le colpe tutte del Monti (corsivo mio), questa lettera basta a controbilanciarle»).
Sconcertata dall’inopinata sentenza del Foscolo, e dalla mancanza di un sia pur velato accenno alle circostanze in cui proprio a lui era stata fatta una confidenza tanto pericolosa, avrei voluto conoscere almeno alcune delle audaci verità propagate dal Monti, ma – attenendosi alla reticenza foscoliana – della tanto benemerita Lettera il professore non aveva citato nemmeno una massima.
Vietato, allora, fare domande ai docenti cui si doveva soltanto rispondere quando si era interrogati, in “Palatina”, la biblioteca in cui mi piaceva passare le ore del pomeriggio, chiesi in lettura il primo volume di Opere inedite e rare di Vincenzo Monti**, in cui, a detta dell’insegnante, il pamphlet era stato pubblicato, ma non l’ottenni e dovetti rassegnarmi a rimanere nell’ignoranza di ciò che più importava.
Ed ecco che, quasi mezzo secolo dopo, mi trovavo tra le mani la misteriosa Lettera.
«Una riparazione ed un compenso del Fato»?
Forse, Matteo Berardi interpreterebbe così quell’evento; io posso dire che, a mano a mano che procedevo nella lettura, dall’incipit al commiato, quel testo mi investì con la forza di una vera e propria “rivelazione”.
Mi sentii un “profeta”, obbligato alla “comunicazione” al popolo degli appassionati di lettura, e, nonostante le notevoli difficoltà, compilai un resoconto che richiede, anche all’eventuale lettore, notevole impegno nel tenere dietro a convergenti vicende oscure, ricostruite da una voce narrante che ne echeggia costantemente altre ***.
Avevo zelantemente consultato opere di fondamentale importanza, di Rossana Caira Lumetti e Leone Vicchi, più di altre, aderenti a documenti originali.
Avevo preso diretta visione del dossier piranesiano, segnalato da Caira Lumetti (in “Autografoteca Campori”, oggi conservata presso la “Biblioteca Estense Universitaria” di Modena).
Mi ero poi concessa una trasferta di più giorni a Napoli, nella speranza (avveratasi) di trovare nell’Archivio di Stato la documentazione che mi permettesse di “tracciare l’origine” della Lettera, cioè di individuare il nome di colui che l’aveva commissionata.
Il ministro Acton evidentemente non aveva mai creduto che potesse essere Francesco Piranesi.
Per “tracciare l’origine di tale scritto” e scoprire “l’autore verace”, John Acton aveva quindi sguinzagliato i suoi segugi anche da Napoli a Milano**** ; io facevo lo stesso percorso al contrario.
Con finalità diversissime, entrambi volevamo trovare l’uomo che aveva voluto far sapere al mondo intero che avrebbe “combattuto eternamente” il “Giove napoletano”, e aveva indotto l’estensore della Lettera a rivolgersi al suo mortale nemico con espressioni confidenziali, irriverenti, beffarde, oltraggiose, che né a Francesco Piranesi né a Vincenzo Monti sarebbero mai venute in mente.
E le frasi denigratorie e gli epiteti sono talmente frequenti che l’indicazione della pagina può considerarsi parte integrante del messaggio:
«Animo, dunque, signor Generale, ponete mano alle vostre armi, che sono a Dio piacendo le armi della calunnia (p. 48);
- signor Generale, voi gran ministro, voi gran politico, per quanto dicono i vostri eunuchi (p. 50);
- giudizioso signor Generale (p. 58);
- Caro ed amato signor Generale (p. 66);
- Eh via vergognatevi, e finite una volta, uomo cieco ed incauto, di rovesciare i fondamenti dellagiustizia (p. 71);
- Inclito signor Generale (p.75);
- Ma voi, dilettissimo signor Generale (p. 78);
- Tocchiamoci la mano, signor Giovanni, e intendiamoci (p. 80);
- Per carità, signor Giovanni (p. 95);
- Ma vergognatevi di dire / e questo, mio caro, è falsissimo (p. 104);
- Fate a mio modo, signor Generale: favoleggiate, mentite, calunniate quanto volete, che la vostravocazione è decisa; ma esercitate, vi prego, il vostro mestiere, non dico con più sfrontatezza, ma conpiù talento e giudizio (p. 106);
- discretissimo signor Generale (p. 125);
- voi vi degnaste, umanissimo signor Generale (p. 134);
- Ammirabile furberia, eccellente ripiego, degno veramente d’un bel talento, e d’una bella testa, siccome la vostra. Me ne rallegro tanto con voi, me ne consolo di cuore, e desidero per il bene che vi voglio, che siate sempre così politico (p. 135);
- voi, adorato signor Generale / voi, innocente signore (p. 140);
- ricordatevelo, cuor mio [!] (p. 150);
- signor mio caro (p. 152);
- ditelo voi, ingenuo signor Generale (p. 153);
- Degnatevi anche voi, che siete il Giove napoletano, d’imitar l’esempio del greco (p. 155);
- Anima schietta ed ingenua, rispondetemi, ve ne prego (p. 169);
- Anima incorrotta, anima illibatissima, rispondetemi, ve ne supplico (p. 170);
- Uomo imparziale, uomo di buona fede, rispondetemi, ve ne scongiuro (p. 172);
- Caro mio Generale / Anima giusta, anima generosa, rispondete una volta, ve ne scongiuro (p. 178);
- che facevate voi intanto, glorioso signor Generale? (p. 184);
- No, caro Generale, voi non avete avuto l’ardire (p. 188);
- voi siete stato col pubblico un impostore senza giudizio / ricordatevi bene le bugie … le quali io
v’ho già sbattute sul viso (p. 189);
- Bravo signor Generale, bravissimo (p. 197);
- vergognatevi […] vergognatevi […] vergognatevi […] vergognatevi […] vergognatevi […] vergognatevi (p.199).
A questo punto devo riferire fedelmente il lungo brano in cui è inserita l’ultima martellante invettiva, perché il tono della deplorazione non è più quello del committente, ma assume una solennità che mi trasporta nell’atmosfera di denuncia morale del Fermo e Lucia, e del Saggio sulla Rivoluzione francese, della commedia La Bastiglia, e del poemetto La Résignation*****:
«Il barone è partito, e la mia storia è finita. Datele adesso uno sguardo, ed osservate il carattere d’evidenza e di luce che porta in fronte. Smentitene i fatti se potete, distruggetene le testimonianze, confrontate le epoche, combinate le ore, i minuti, i momenti, e vergognatevi d’aver protetto con tanta impudenza un malvagio di prima sfera, vergognatevi d’aver negata la verità conosciuta, e di avervi sostituita la menzogna, la cabbala, l’impostura, vergognatevi di aver ingannata sì lungamente l’Europa, e stancata la pubblica sofferenza, vergognatevi di aver calpestate le leggi tutte, umane e divine, col farvi artefice delle calunnie più scandalose, vergognatevi d’aver oppressa l’innocenza per giustificare il delitto, vergognatevi insomma di aver tradita per mille versi la religione, l’onore e la gloria del vostro principe, al quale con rispettoso coraggio io dirigo adesso queste parole.
Generoso e benefico Ferdinando Quarto, ascoltate la voce di un uomo che la perfidia del vostro ministro vi ha descritto per assassino, ma d’un uomo che teme Iddio, che rispetta i monarchi e riconosce le vostre virtù. Ascoltatela questa voce, ch’ella è tutta di verità e voi siete degno d’udirla. Non cercate i vostri nemici nei bravi e giusti svedesi, che dimandano la riparazione di un gravissimo affronto da voi ricevuto. I vostri nemici son quelli che vi hanno indotto a commetterlo e a provocare lo sdegno d’una forte e coraggiosa nazione che non è mai stata impunemente oltraggiata. I vostri nemici sono quelli che vi hanno persuaso di sacrificare l’antica e leale amicizia alla salvezza d’un traditore contro cui gridava altamente l’interesse di tutti i sovrani, e doveva la giustizia di tutti i governi cavar la spada per castigarlo. I vostri nemici son quelli che nell’augusto e sacro nome perseguitano gl’innocenti, e li fanno gemere e spirare fra le catene in sembianza di scellerati. I vostri nemici sono quelli che funestandovi tutto giorno lo spirito con politiche malinconie, propagano nell’animo il terrore, la diffidenza e il sospetto, ed alzano fra voi ed il vostro popolo un muro di divisione, quando voi non siete fatto che per amarlo, ed egli per adorarvi. Finalmente i crudeli e forsennati vostri nemici son quelli che separano l’interesse del principato da quello del suddito, che bandiscono dal trono la verità, che affogano i gridi della miseria da lor cagionata, e incolpano di ribellione le giuste querele degli infelici, e vestono la tirannia colle sante ed immacolate divise della giustizia. Tali erano i Seiani e i Pallanti, e tant’altri mostri famosi che sono stati la ruina dei prìncipi, il flagello dei sudditi e l’esecrazione della posterità. Se il vostro ministro sìasi erudito alla scuola di queste fiere, o a quella dei Sully, dei Colbert, dei Valenti, ritirate per un momento la mano che lo sostiene e subito lo saprete. Togliete il freno della paura alla voce del vostro popolo, d’un popolo buono e fedele, d’un popolo che bacia con trasporto la polvere de’ vostri piedi, che vi stima per riflessione e v’idolatra per sentimento; abbiate il coraggio d’interrogarlo, e tutti cuori e tutte le bocche si apriranno per annunziarvi una terribile verità, che tacendo si esprime ancora meglio che favellando. Né parlo io già di quel popolo che rumina soltanto e vive senza sentire, ma parlo del popolo che ragiona ed imprime il grande suo moto alla pubblica opinione, di cui egli solo è il sovrano moderatore, all’opinione, io dico, giudice inesorabile dei monarchi egualmente che della plebe, all’opinione che governa il presente, comanda all’avvenire e non obbedisce ad alcuno. Questa parte sempre sana e sempre giusta di popolo, la cui voce è voce di Dio, egli è molto tempo che ha posta una differenza infinita tra il cuore di Ferdinando e le massime del suo ministro; egli è gran tempo che, benedicendo il cielo di possedere nell’uno de’ due un tenero padre, si addolora di soffrir nell’altro un tiranno. Né di tai sentimenti sono infiammati soltanto i petti napoletani. Essi ardono nel cuore di tutta Europa, la quale ha già registrato il nome di Acton fra gli oppressori dell’innocenza, e il nome di Ferdinando tra i prìncipi magnanimi e benefattori […] Roma stessa , contro la quale senza il consenso del vostro cuore, voi esercitate da tanto tempo l’odio e lo sdegno… non vi ha fatta mai l’ingiustizia di confondere le vostre pure intenzioni colla malignità del superbo vostro ministro… Che più? Io vi annunzio che… la Svezia, che ha posta la mano sopra la spada per dimandarvi ragione dell’oltraggio che per conto vostro le han fatto quelli che vi tradiscono, la Svezia medesima è troppo magnanima e generosa, per non macchiare la sua vendetta colla viltà degl’insulti. Ella vuole soddisfazione, ma tale che corrisponda al sublime carattere dell’offeso e dell’offensore. Ella punirà, non dubitate, le ingiurie, ma non si abbasserà mai all’indegno sospetto di credervi consapevole o complice volontario delle medesime, che anzi spera che voi stesso punirete quando vi sarete accorto una volta dei modi iniqui co’ quali la cabala che vi circonda ha ingannata la vostra giustizia e calunniata sì crudelmente la Svezia. Su tale considerazione io desidero a questo scritto la sorte di poter penetrare in tutta la sua estensione a’ piedi del vostro trono, a cui è tempo che la verità si presenti per vendicare la vostra gloria e castigar l’impostura.
Ho parlato col cuore riverente e colla fronte per terra ad un ottimo principe. Mi levo in piedi ed alzo nuovamente la faccia per finire di ragionare con voi, signor Generale, a cui mi rimane qualche altra cosa da dire» (pp.199-204).
Il “verace” autore della Lettera si rivolge dunque al ministro Acton soltanto in quanto colpevole di tradimento: il vero destinatario è il tradito Re di Napoli.Altri “riceventi” che gli stanno a cuore sono i lettori, il pubblico.
Scrive Chiara Lumetti: «Concetti fondamentali della Lettera sono quello di popolo e, strettamente connesso, di opinione pubblica» (p. 24).
È detto ripetutamente, ma, poco prima del commiato, l’autore si rivolge al suo “caro lettore”, per ribadire con ulteriore precisione lo “scopo” che si è proposto:
«Ora che dormono gli assassini, dormite un poco anche voi, signor Generale, ché voi pure dovete essere defatigato da biglietti, da congressi e da visite, e dimani vi attendono faccende ancora più fastidiose. Io mi fermerò intanto alcun poco nell’anticamera col mio lettore, il quale pàrmi che si lamenti dei troppi dettagli e della troppa minutezza di questi aneddoti.
Considera dunque, mio caro lettore, qual è lo scopo che mi sono proposto, di provare cioè in tutta la sua evidenza la protezione della corte di Napoli concessa all’iniquo baron d’Armfelt, e di purgare nel medesimo tempo Benedetto Mori e me stesso dall’accusa di un tentato omicidio. Non è pertanto possibile il mostrarti bene la parziale condotta di quella corte, se non ti scopro ancor bene i raggiri e le pratiche tortuose della medesima in quella celebre circostanza, né d’altra parte si può mettere il piede in questo difficile ed oscurissimo labirinto senza perdervi molto tempo, né portarvi dentro la luce della verità senza adoperarvi molta pazienza. Perdonami adunque la soverchia diligenza delle mie narrazioni in grazia della loro importanza » (pp. 143-144).
Anche noi lettori del XXI° secolo comprendiamo quindi che è per questa sua “soverchia diligenza” che il nemico del ministro Acton ha voluto anche offrire la chiave di lettura dell’appassionato pamphlet, facendo ricorso a un espediente davvero eccezionale.
Nessuno studioso di professione lo ha preso in considerazione, ma l’autore gli conferiva molta “importanza” e sarà bene cercare di capire perché.
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* Vincenzo Monti, Lettera di Francesco Piranesi al Signor Generale D. Giovanni Acton, a cura di Rossana Caira Lumetti, Sellerio Editore, Palermo, 1991, L’Italia, 4. Contiene anche: Fatto storico della carcerazione di Vincenzo Mori seguita in Napoli il dì 13 febraro 1794; Fatto storico della carcerazione di Pietro Pasquini seguita in Napoli il giorno 14 febraro 1794.
**V. Monti, Lettera a nome di Francesco Piranesi al Generale D. Giovanni Acton… in Opere inedite e rare , vol. I, Prose, Milano 1832.
***Dina Tortoroli Rosetti, Immaginare la realtà / La Lettera di Francesco Piranesi al Signor Generale D. Giovanni Acton, Battei, Parma, 2005.
****A Malta, a Roma, a Firenze e perfino a Milano – scrive Caira Lumetti – la lettera del Piranesi fu cercata dalle polizie, proibita, intercettata, sequestrata, a detta di Leone Vicchi, che può esibire la seguente lettera, scritta à monsieur le chevalier Castelli, a Milano da Milano il 7 marzo 1795: “Amico, il libello contro il signor gen. Acton è stato da me ieri mandato al signor Conte Ministro Plenipotenziario, il quale non ha avuto tempo di vederlo; ma sul mio rapporto ha trovato giusto che non se ne lasci introdurre esemplare, e che se ne capita, si trattengano. Io eseguirò esattamente quest’ordine stato da me prevenuto col fatto, e ciò anche prima della giusta vostra istanza fattami. […] Il vostro vero amico Longo” ( Leone Vicchi, Vincenzo Monti / Le Lettere e la politica in Italia dal 1750 al 1830, IV estratto, sessennio 1794-99, Fusignano, 1887, pp. 55-56) .
*****A questo proposito, mi compiaccio nel leggere che, come emulo di Demostene e d’Isocrate, il Monti (analogamente all’autore del Saggio sulla Rivoluzione francese – puntata n. 38 – ), pur “senza studio veruno”, li eguagliava:
«La Lettera venne inclusa, per la prima volta, nell’edizione delle Opere inedite e rare del Monti; e gli editori nella prefazione notavano che la necessità di scagionare Piranesi dalla accusa di tentato assassinio nei confronti di Gustaf Armfelt portò il Monti ad adoperare “una eloquenza più che mai vigorosa e incalzante, di argomenti potentissimi; […] il Monti […] se alcune volte trascorre a modi troppo liberi e quasi volgari, ciò medesimo giova, per nostro avviso, a rappresentar sempre più l’animo e la persona dell’innocente calunniato, in nome e a difesa del quale, egli tutte adopera le forze della sua mente e del suo cuore. Questa lettera […] è come a dire un’aringa del genere giudiziario che star potrebbe al paragone colle più eloquenti di Demostene e d’Isocrate, senza studio veruno di questi classici esempi; bensì dettati da quella potenza d’affetto e di fantasia che fa e non imita i modelli» (mio il corsivo). Rossana Caira Lumetti, La cultura dei Lumi tra Italia e Svezia / Il ruolo di Francesco Piranesi, Bonacci Editore, Roma, 1990, pp. 129-130.