Dalla prefazione di Antonio Devicienti
S’immagini il bianco della pagina quale tempo eternamente presente e anche quale spazio, vastissimo e bianco, dentro il quale cercare direzioni e tracciare sentieri tramite la lingua–scrittura: ecco una prima caratterizzazione dei libri in poesia di Flavio Ferraro.
Non si tratta di “libri sapienziali” o “di ricerca interiore”, ma li si legga (ed ecco una seconda caratterizzazione) quali esplorazioni delle possibilità che ha la mente, a mezzo della scrittura in poesia, di elevarsi oltre i frequenti stati di prostrazione e di banalità quotidiana cui viene costretta dai molteplici obblighi di carattere lavorativo, economico, pratico in senso lato. L’esplorazione del bianco della pagina–spazio genera la scrittura, è scrittura–mentre–si–fa–e–mentre–si–muove. Accade così che, appunto nell’intatto bianco della pagina e nel tempo necessariamente e naturalmente sospeso della scrittura, la mente esplori le direzioni che si aprono al suo sguardo (terza caratterizzazione: la poesia di Ferraro è sguardo). È questo il motivo per cui la luce polarizza sempre, insieme con il silenzio, lo spasmodico dirigersi, orientarsi, ruotare dello sguardo; è luce cercata, desiderata, capace d’interrogare la mente, di provocarne la crisi conoscitiva che sola può permettere il progresso del pensiero il quale attraversa soglie e porte, tocca margini e buio, il quale va esperendo mondi, deserti, giardini, acque, direzioni differenti e anche opposte e, dovendo esprimersi tramite la parola poetica, fa esperienza pure del silenzio, dal silenzio impara modulazioni e ritmi, col silenzio dialoga e di esso si nutre. Ma non sono, queste pagine in poesia, né diario di esperienze interiori, né descrizioni di stati della coscienza, bensì il farsi stesso di quelle esperienze le quali, si faccia molta attenzione, vengono a essere esplorazioni del pensiero capaci di toccare e muovere il sentimento – un sentimento dell’immaginazione scriveva Fernando Pessoa nel Libro dell’inquietudine e immaginare significa, nella pagina–tempo–e–spazio di Flavio Ferraro, pensare tramite una lingua della poesia precisissima e sempre consapevole di sé, dal taglio diamantino e dall’architettura musicale – è musica del respiro e del battito cardiaco, perché questo pensiero che cerca direzioni e sentieri parte sempre dal corpo e mai dimentica la propria terrestrità. Questa quarta caratterizzazione dell’immaginare dice, infatti, di una poesia che proprio nel suo stare e muoversi in luoghi e per luoghi riassumendo in sé ogni possibile frazione del tempo rimane fedele alle proprie stesse ragioni che sono quelle del pensiero non freddamente speculativo, ma caldamente visionario, non raziocinante, ma fantasticante e instancabilmente in movimento.
Da Il silenzio degli oracoli (Poesie 2009-2016) (L’arcolaio 2021)
io rendo polvere alla pietra.
Così fa il mare; così dona
vertigine la terra.
Luce sommersa, che sempre
trascolora: e tu, cui un’onda chiara
levigò il respiro, tra i flutti
ancora non lo vedi?
È questa fissità, lo sai,
che più non può tardare
*
ancora questo bianco,
questa fermezza limpida
del vuoto che tu, sperdendo,
sempre trattieni in ogni abisso
sottratto alla tua voce
fuggendo solo il tempo,
il mondo inanimato
che risvegli, adesso,
ardendo cenere
*
farne confine,
parola estrema.
Uno spazio di chiarore,
che io voglio varcare:
uno stagliarsi, uno stare
contro il cielo.
Contro ciò
che non ha suono
*
questo volo, che io so.
Questa voce non più
terrena, che io disperdo,
che tu trattieni.
Che il mondo è mondo,
la terra è terra,
e noi destino.
Sempre un andare,
un respirare accanto.
Questo buio, che io so:
lui non sa dei nostri occhi
*
non era che ascolto, ma cresceva.
Non più che un sigillo
di ghiaccio, ma sonoro,
reso lieve dall’abisso.
Perché fu parola,
eco che nascondemmo,
finché non tacque.
E ora che non ha più margine,
non ha misura, quella ora
si leva, fino a qui,
si fa respiro e direzione
*
Non vollero incarnarsi.
Qui oscure rovine, là
l’immensa verità dei campi.
Quel loro verde pieno
di bagliori che non sanno
di essere occhi: bellezza
ignara di sé, è questo
essere liberi.
Lo sai, non servono parole.
Oscillare, e basta.
*
Più durevole l’ombra
dell’albero che imita.
Così le parole. Si dice casa,
rondine, collina: chiudi gli occhi,
e lo sguardo rammemora.
Aprili a un tratto, quando
il vento incupito incede
tra gli olmi e più non sono.
Sanno di mentire i nomi,
e pura è solo la voce
che in un pozzo
– decrescere felice –
rinuncia all’eco.
*
Nessuna felicità oltre l’istante:
ma gente irriguardosa
lo giudica manchevole,
si rifanno i calcoli,
si chiamano gli esperti.
Quanto a me, timoroso,
scruto gli oracoli del cielo –
l’arcobaleno, l’unico
che impera.
Flavio Ferraro è nato a Roma nel 1984. Poeta, saggista, studioso di dottrine metafisiche e traduttore, scrive articoli per diverse riviste e giornali online, e tiene conferenze su molteplici tematiche. Tra le sue ultime pubblicazioni: La malvagità del bene. Il progressismo e la parodia della Tradizione (Irfan, San Demetrio Corone 2019); la traduzione delle Odi di John Keats (Delta 3, Grottaminarda 2021); e il libro che raccoglie tutte le sue poesie, Il silenzio degli oracoli (L’Arcolaio, Forlimpopoli 2021).
(A cura di Silvia Rosa)