MICHELE BRONDINO-YVONNE FRACASSETTI
Dopo il raccapriccio provato davanti alle immagini di violenza, sofferenza e morte che ci giungono dai conflitti in corso in Ucraina e in Medio Oriente, per non parlare di quelli in Africa (più lontani dagli occhi e di cui si parla meno), ci invade un grande senso di smarrimento e impotenza. Certo, si può partecipare alle manifestazioni di protesta contro questa o quella guerra; certo si può partecipare alle raccolte fondi per aiutare le varie iniziative di solidarietà; ma ciò non basta: abbiamo bisogno di capire, di andare oltre le immagini della guerra che fanno la parte del leone nell’informazione, abbiamo bisogno di prendere posizione con coscienza e consapevolezza, abbiamo bisogno di sentirci coinvolti con le nostre scelte nel destino di un mondo oltre la sopraffazione, in altre parole abbiamo bisogno di sentirci cittadini attivi e partecipi in una società di cui approviamo o disapproviamo gli orientamenti e le azioni. Certo, volendo andare oltre le immagini e le emozioni, non mancano gli strumenti di riflessione per capire cosa sta dietro gli sconvolgimenti che scuotono il globo: c’è la voce di specialisti, storici, giornalisti e analisti, saggisti che interpretano i fatti e cercano di chiarire e di diffondere le cause profonde di questo dissesto mondiale. Chi si ferma però alle immagini e alle così dette “news”, ai commenti superficiali non può afferrare la posta in gioco dei grandi cambiamenti in atto.
L’esempio dei due conflitti a noi più vicini è significativo. Le atrocità compiute da Hamas il 7 ottobre 2023 e le smisurate rappresaglie di Israele tuttora in corso sono l’ennesima tragedia di una storia nata nel 1947 sotto l’egida delle Istituzioni internazionali con la creazione dello stato di Israele sul territorio palestinese, ma sono anche la storia di due fanatismi sulla stessa terra. Fanatismo e non semplice strumentalizzazione della religione a fini politici e di espansione, fanatismo perché quando ciascun popolo agisce per ordine divino, per di più sullo stesso territorio conteso, quando ognuno si ritiene popolo eletto e si rifà alle Sacre Scritture – la Torah da una parte, il Corano dall’altra, quando mancano i valori di una società secolarizzata aperta a tutti i cittadini al di là della loro fede – rimane poco margine per il dialogo sia esso interno o esterno. Quando poi si sente che a sbloccare la situazione potrebbe essere un intervento del neo-presidente americano, allora la questione acquista un’ulteriore dimensione, quella degli equilibri della geopolitica che governa il mondo.
In questo senso, un discorso simile si può fare per la sorte dell’Ucraina che paga a caro prezzo – la vita di migliaia di uomini e un paese distrutto – il fatto di trovarsi al confine tra Est e Ovest, la linea di demarcazione tra i due blocchi che si contendono spazio e dominio. Davanti a questo scempio, ci sembrano molto tiepide oltre che inascoltate le prese di posizioni dei vari Paesi che guardano ognuno al proprio interesse nel complesso geopolitico e economico, non ultimo la produzione degli armamenti.
Il progressivo isolamento del cittadino
Ma ciò che ci preme osservare, al di là di queste considerazioni ampiamente dibattute sui media, è l’impotenza del cittadino di fronte a drammi e situazioni il cui peso sulla vita attuale e futura è enorme. In verità, la storia dimostra che mai o quasi mai il semplice cittadino è stato coinvolto nelle scelte del potere, ma mai come oggi si è sentito smarrito e impotente, di più, estraneo al contesto sociale e politico in cui vive. Ciò significa che ad essere entrata in crisi, è la democrazia stessa.
Ci piace ricordare un aneddoto raccontato da un economista per illustrare il grande cambiamento di società avvenuto negli ultimi decenni: negli anni Sessanta/Settanta, due emigrati nordafricani a Detroit, si presentavano così: siamo lavoratori della Ford; oggi si presentano diversamente: siamo musulmani. Cosa è successo? È successo che il passaggio da un sistema capitalista “buono”, cioè consapevole che il benessere della società era un fine primario per la tenuta del sistema, è stato sostituito da un capitalismo neo liberale il cui obiettivo è unicamente il profitto. Per giungere a questo, sono state smantellate le istituzioni baluardo della protezione sociale e quando il potere economico produttivo ha lasciato spazio alla finanza, quando è stato concentrato nelle mani di pochi, quando si è liquefatto il bilanciamento tra interessi e potere, la globalizzazione dei mercati ha fatto il resto, togliendo persino agli Stati la forza di indirizzare le scelte economiche nazionali, e lasciando alle multinazionali il compito di orientare lo sviluppo economico assolutamente indifferente al benessere e alla partecipazione del cittadino. I due operai nordafricani di Detroit, che si erano inseriti e integrati in un ambiente produttivo basato sul lavoro e la partecipazione attiva del cittadino, si trovano progressivamente, come ogni altro lavoratore, esclusi dalle scelte future della società il cui sviluppo dipende ormai dalla finanza e non dal loro lavoro. Non è più la dimensione di cittadino attivo e partecipe a forgiare la loro identità; a loro tocca trovarne un’altra, sarà quella religiosa (siamo musulmani); per altri sarà l’appartenenza ad altre minoranze o ad altre comunità. Il sociologo francese A. Touraine parla di “Fine delle società”, Z. Bauman di “Società liquida”. È chiaro che anche le democrazie occidentali, una volta modello di equilibrio tra potere e forze sociali, stanno ormai scivolando verso una pericolosa destabilizzazione che mina le fondamenta stesse della democrazia. Basti pensare agli esempi crescenti di democrazie illiberali o alle proteste sociali che scuotono la Francia con la nascita di movimenti come i Gillets Jaunes , il Nuovo Front Populaire o l’impennata del Front National senza che Macron si degni di dare loro ascolto, assorto com’è dalle alte sfere della politica economica globale. Oggi, i cittadini isolati dalla partecipazione effettiva alle scelte di sviluppo del loro paese, abbandonati al crescente impoverimento provocato dalla globalizzazione, si sentono traditi dai loro governi, in particolare dalle sinistre e dai democratici negli USA, che non hanno saputo difenderli da questi pericoli, anzi che hanno collaborato a questo declino. Non c’è da meravigliarsi se ovunque vincono le destre.
Vecchi e nuovi attori nella sfida per un nuovo ordine mondiale
Tornando alla spaventosa situazione internazionale in cui ci troviamo, non è difficile riscontrare la stessa estraneità, lo stesso senso di impotenza sul piano della politica estera. La questione non è più difendere un popolo oppresso o un paese invaso; la questione è schierarsi con le alleanze più convenienti nella battaglia per la configurazione di un nuovo ordine economico. Le parole d’ordine non sono più i valori di giustizia, di pace e di libertà, fondamento della costruzione europea, sono le esigenze di sbarramento alle nuove forze in grado di cambiare l’ordine economico mondiale che ha assicurato nel XX sec. uno sviluppo straordinario all’Occidente. Oggi la questione non è salvare o no l’Ucraina, è stare dalla parte del più forte nella sfida delle potenze globali verso un nuovo mondo multipolare. Alle porte battono molti nuovi concorrenti: batte la Cina attraverso una penetrazione commerciale imponente e invasiva (è persino riuscita a coinvolgere l’Italia nel suo progetto di Nuova Via della Seta sotto il governo Conte); batte la Russia, con le armi, cercando di insediarsi nei mari del sud e in Africa per incalzare Europa e Nato da sud (l’Ucraina è una tappa di questo disegno), batte un nuovo attore, il Sud Globale, erede dei paesi Non Allineati e composto oggi da 130 Paesi (fra cui di recente India, Brasile, Argentina, Messico, Nigeria, Pakistan, Sudafrica) con la volontà di fare emergere un nuovo ordine internazionale multipolare (ved. M. Molinari, Mediterraneo conteso, Rizzoli 2023).
La questione delle élites
Ci vorrà una particolare capacità strategica per gestire questo groviglio di crisi e di interessi. Quando vengono a mancare i pilastri valoriali che hanno portato l’Occidente e le democrazie liberali ad uno straordinario sviluppo, quando le loro classi dirigenti hanno lasciato che a guidare la crescita fosse unicamente il connubio potere e profitto, ci si ritrova in un mondo spogliato dal nerbo della storia: una visione del futuro portatrice di un progetto in grado di coinvolgere la popolazione, cioè i cittadini. Senza questa capacità, decade la democrazia, decade la modernità, si spegne il cittadino attivo e scatta la trappola del declino. In un recente saggio illuminante, intitolato appunto In trappola (Solferino ed., 2024), F. Bernabè mette il dito sulla piaga individuando nella mancanza di un’élite in grado di far valere le ragioni dell’umanità e della moralità, la difficoltà a mettere un termine ai conflitti in corso. Proprio sulla questione delle élites e soprattutto della loro formazione, Bernabè attira la nostra attenzione. Da dove nasce la lungimiranza dei leaders da cui dipende la stabilità o il caos del mondo? Sicuramente dalla forte personalità del leader ma soprattutto dalla sua formazione culturale: non più oggi la formazione umanistica ricca e rigorosa, portatrice dei valori basilari della nostra civiltà, ma una formazione tecnica, nata in un ambiente tecnologico, carico di dati e di immagini ma che non dà la capacità di lettura sistemica delle situazioni. Cita da Kissinger, l’esempio di “Anwar Sadat per la sua capacità di tessere rapporti tra Israele e gli Stati uniti per arrivare alla pace, per la capacità di fare compromessi e prendere in solitudine decisioni difficili, come quelle che portarono agli accordi di Camp David e che costarono all’Egitto l’isolamento dal mondo arabo”.
Quali sono oggi i leader chiamati a gestire il mondo? Donald Trump? Quali visioni del mondo improntate a giustizia e solidarietà, quali strategie lungimiranti frutto di una profonda lettura sistemica della realtà globale, propongono i capi dei governi del mondo? L. Caracciolo se lo chiede facendo l’esempio dell’Italia:
“Se centinaia di migliaia di gaziani sopravvissuti alla rappresaglia di Netanyahu saranno scaraventati nel deserto egiziano o nel Mediterraneo per far posto a militari e nuovi coloni israeliani, scontato che alcuni punteranno alle nostre spiagge. Aspetteremo che ci affoghino davanti? Li trasferiremo in Albania per essere certi di non vederli? Escluso organizzarci per andarli a prendere, promuovendo una missione internazionale di volenterosi? La risposta a queste domande ci dirà molto su noi stessi”. (La saggezza di Tucidide, Editoriale, Limes 9/2024).