Narratologia sveviana

Narratologia sveviana

Narratologia sveviana

PAOLO LAMBERTI

Il punto di partenza per la ricerca è costituito da due affermazioni: la prima, di Giacomo Debenedetti, dice: «è toccato ai suoi [di Svevo] critici, semmai, di riscontrare che, dietro la diversità di apparenza, i tre romanzi nascono da una stessa matrice»” (Il romanzo del ’900, p.521); la seconda è una frase dello stesso Svevo, in una lettera a Larbaud del marzo 1925:«Joyce ha sempre detto che nella penna di un uomo c’è un solo romanzo [...] e quando se ne scrivono di più, è lo stesso più o meno trasformato».”
Il fine consiste nel dimostrare che tali dichiarazioni corrispondono a verità anche in rapporto all’elaborazione dell’intreccio, perché alle spalle dei romanzi si ritrova uno schema che funge quasi da marchio di fabbrica e serve a Svevo per risolvere un problema, quello dell’”invenzione” (dell’inventio in senso ciceroniano) che gli appare un “a priori” necessario ma secondario rispetto al suo scopo di esprimere idee.
Svevo non è un narratore, un affabulatore, tanto è vero che ama scrivere brevi apologhi, che leggiamo nelle sue lettere, e che ritroviamo anche nella Coscienza (narrati da Guido e Zeno durante l’uscita in barca) e nella novella Una burla riuscita: testi brevissimi che ricordano l’apologo classico e più ancora quello quattrocentesco, volti a far pensare, non a raccontare un intreccio.  Del resto il ricorso continuo nella sua opera a materiali autobiografici è prova del suo disinteresse inventivo: Svevo non è mai scrittore autobiografico, ma usa la sua vita come una cava di storie e ambientazioni che altrimenti dovrebbe inventare. (Scrive a Montale nel 1926: «..cercavo di convincermi d’essere io stesso Zeno. [...] cacciavo nel mio passato tutte le sue avventure che possono somigliare alle mie solo perché la rievocazione di una propria avventura è una ricostruzione che facilmente diventa una costruzione nuova del tutto quando si riesce a porla in un’atmosfera nuova».)
Per dimostrare tale assunto si ricorre, senza pretese di rigore metodologico, ai mezzi offerti dalla narratologia, nella forma di uno schema che visualizzi la tesi more geometrico demonstrata; a rendere tale intervento non arbitrario sono appunto le citazioni in limine, ed esso vuole evidenziare i “particolari morelliani” della tecnica di scrittura del triestino, persino contro le sue dichiarazioni di poetica; nel Diario scrive infatti: «L’immaginazione è una vera avventura.[...] Deve restare fluida come la vita stessa che è e diviene.[...] Bisogna credere nella realtà della propria immaginazione».
Prima di verificare la validità della matrice nelle opere, vanno spiegate alcune scelte terminologiche: i termini tradizionali di protagonista e antagonista ricoprono l’opposizione subito notata dalla critica tra una coppia polare di figure in ciascun romanzo, con l’avvertenza del rovesciamento della consolidata dicotomia romantica eroe/antieroe. Per gli altri personaggi si usa il termine più tecnico e neutro di attante, che segnala sia la loro diversità rispetto alle figure di contorno, sia il loro ruolo di funzioni esterne (condiviso dall’antagonista, da porre sullo stesso piano degli attanti) che catalizzano le reazioni interiori del protagonista, unico vero centro del romanzo interiore di Svevo.
Così si spiega l’asse orizzontale che separa nettamente figure maschili e femminili: Svevo scrive di ciò che sa, e proprio il disinteresse per l’invenzione lo porta a creare donne che rispecchiano il suo rapporto con l’universo femminile: lettere e romanzi sono spie della sua gelosia, del suo feticismo (gli stivaletti della Coscienza), del ruolo di infermiera e madre assegnato alla moglie (si confronti il Diario per la fidanzata del 1896: «me, amerà come vorrò essere amato, e mi sopporterà, sopporterà i miei grilli e le mie malattie, amerà tutto me, pazzo, bestia, vecchio». E ancora «Vedrò me moribondo e tu mia buona assistente. Già sei destinata a fare da infermiera e lo farai».).  Nonostante il suo amore per Flaubert, Svevo non avrebbe mai potuto dire: “Angiolina, c’est moi”.
L’asse doppio verticale è quello dei contenuti, implica una divisione in base al ruolo di portatori di idee dei personaggi – di qui l’uso dei termini schopenaueriani -, e individua come nucleo un quartetto di figure opponibili a coppie in più modi (uomini vs. donne, sani vs. malati), dai quali nasce la trama: la struttura del quartetto si differenzia sia dalla tradizionale opposizione di coppia protagonista/antagonista, qui raddoppiata, sia dal triangolo del dramma borghese, che pure Svevo usa nel suo teatro.  Però al di là della flessibilità teoricamente possibile nello schema la costanza nelle opere sveviane del tipo di interazione tra i vari personaggi, segnate dalle frecce, è ulteriore indice di rigidità inventiva.
Le posizioni periferiche ed opposte dell‘attante paterno e dei luoghi implicano il loro grado di minor cogenza e una loro funzione secondaria e mutevole nello schema: possono comparire o meno, e con maggior o minor importanza.  L’attante paterno è una figura autoritaria; è però necessariamente segnata dalla vecchiaia e destinata alla morte: di qui il suo porsi a cavallo degli assi verticali.  La posizione periferica dei luoghi indica come l’attenzione al milieu sia eredità naturalista, fortemente sentita da Svevo ma sostanzialmente sovrapposta al suo mondo concettuale: i grandi autori del decadentismo italiano intuiscono il Novecento, ma lo razionalizzano attraverso strumenti ottocenteschi. Il dato più significativo si ricava dal reciproco irrelarsi di queste aree: in Una vita i luoghi intesi in senso naturalista hanno un forte peso, e l’attante paterno è debole. In Senilità l’importanza di Trieste supera gli schematismi naturalisti per fare della città una protagonista; coerentemente, l’attante paterno scompare.  Invece nella Coscienza accade l’opposto: i luoghi passano in secondo piano e le figure paterne in primo.  Dunque si passa da un tratto di tradizione positivista, correlato alla realtà oggettiva, a un ruolo, quello del padre, correlato alla realtà psicologica, anzi psicanalitica: un’evoluzione di struttura che rispecchia il cammino intellettuale di Svevo.
Un’ultima osservazione: confrontando questo schema con la lettura narratologica dei Promessi Sposi  fatta da Fido, si possono notare la maggior complessità della struttura necessaria per analizzare l’opera manzoniana e più ancora la staticità dell’azione sveviana, psicologica ed interiorizzata, rispetto al movimento continuo manzoniano, che comporta avvenimenti e concetti oggettivi; senza contare che Svevo utilizza lo schema non una ma tre volte: è la dimostrazione visiva della differenza tra un narratore per eccellenza come il milanese e uno scrittore disinteressato all’inventio come il triestino, e rende comprensibile l’indifferenza  del mitteleuropeo d’origine tedesca ed ebraica verso l’autore cattolico che più d’ogni altro ha colto il carattere dell’italiano medio.
In Una vita lo schema è applicabile con precisione all’intreccio principale, anche se gli attanti appaiono depotenziati rispetto al protagonista, perché la centralità di Nitti è dovuta non solo all’impostazione psicologica di Svevo, ma anche all’influsso naturalista che di solito postula un personaggio principale.
Sugli assi verticali si oppongono l’inettitudine e il successo, configurati ancora secondo moduli naturalisti: povertà vs. ricchezza, vinti vs. vincitori, con un tema così verghiano come la scalata sociale fallita. Eppure il fallimento di Alfredo non è dovuto alle inesorabili leggi darwiniane, ma ad un’inettitudine interiore: incapace di distinguere realtà e fantasia, distrugge le sue possibilità di successo.
L’allontanamento del protagonista da Trieste nel momento cruciale è la sola funzione dell’attante femminile malato, la madre di Alfredo: è la figura più scialba, una maschera muta ridotta a quest’unica funzione e segnata da due soli dati, peraltro quelli significativi, la parentela e la malattia.  Nelle due morti delle figure dell’asse della noluntas, la sua, che precede ed anticipa il suicidio di Nitti, e il suicidio stesso, sono l’evidente influsso del naturalismo, che pretende per i personaggi un esito definitivo nella realtà: un dato sempre più abbandonato in seguito da Svevo.
Rispetto agli attanti dell’asse della voluntas, la matrice trova piena applicazione: Alfredo tenta, e temporaneamente ottiene, la conquista di Annetta, attraverso l’espediente del romanzo da scrivere: un modulo, quello della seduzione intellettuale, che rispecchia il nesso che Svevo sente tra letteratura ed impotenza (dopo l’insuccesso di Senilità scriverà nel diario: «Io, a quest’ora e definitivamente, ho eliminato dalla mia vita quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura.[...]L’abitudine mia e di tutti gli impotenti di non saper pensare che con la penna in mano [...] mi obbliga a questo sacrificio».).  L’esito finale del fallimento saranno scherno e disprezzo da parte di Annetta, evidenziati dal tradimento sessuale: il cambiare maschio rispecchia la gelosia dell’uomo Svevo ed è per lui il sigillo della sconfitta.
Chiaro anche il rapporto con l’antagonista, Macario, le cui caratteristiche, bello, socievole, disinvolto, torneranno negli altri romanzi: la sua è un’amicizia protettiva, da superiore, quella di Alfredo è da inferiore, pronta a trasformarsi in rivalità.  L’antagonista qui ha un ruolo scarsamente autonomo, è, come la madre, una funzione esterna per provocare gli avvenimenti, incoraggiando le ambizioni di Nitti, e muoverne le passioni, sino a sostituirlo nell’amore e nella vita stessa.
L’attante paterno è qui sdoppiato in due personaggi: l’aspetto autoritario si concentra nella figura di Maller padre, ricco e potente, e si riverbera nel capocontabile Sanneo, minacciosamente efficiente; invece l’aspetto di vecchiaia e debolezza si ritrova nel signor Lanucci, povero e successivamente malato.
I luoghi poi formano attraverso l’antitesi tra la misera e squallida casa Lanucci e l’opulenta dimora dei Maller: un’opposizione lampante, quasi verista, che ricalca meccanicamente l’opposizione degli assi verticali, a cavallo dei quali sta il luogo del lavoro, la banca in questo caso; posizione spiegabile con la sua ambiguità di istituto per eccellenza della ricchezza borghese, ed insieme di luogo di sfruttamento dei salariati (Svevo, pur non socialista, conosceva Marx e Bebel).
Senilità è il romanzo che fu più caro a Svevo – scrive nella prefazione all’edizione del 1927 «è questo il mio miglior lavoro», – e il suo più autobiografico – nella lettera citata a Montale «pensi ch’è [la Coscienza] un’autobiografia e non la mia. Molto meno di Senilità»-. In esso trasfuse le sue esperienze “scapigliate”, ne curò tra mille difficoltà una seconda edizione, e parte della critica, tra cui il primo Montale, lo considera il suo testo chiave; Borlenghi, curatore dell’edizione Ricciardi, lo definisce: «se non il capolavoro, l’opera in cui più armonioso equilibrio raggiungono i diversi interessi dello scrittore».
Questa esemplarità si evidenzia anche attraverso lo schema, che vi raggiunge l’applicazione più chiara nell’uso del quartetto centrale; infatti troviamo quattro figure a tutto tondo, non solo più funzioni narrative.
Angiolina  è collocata saldamente sull’asse della voluntas, ne è l’incarnazione più vitale, ed è talmente trionfante da introitare alla fine del romanzo anche i caratteri di Amalia, rovesciando i rapporti di forza iniziali: dapprima destinata alla conquista e al ruolo di materia nelle mani di Emilio – Pigmalione, non solo se ne fa gioco e lo tradisce, ma diventa alla fine nel suo ricordo simbolo alto e magnifico, che Emilio venera; è la vittoria più evidente della voluntas, che plasma così anche la senilità.
L’antagonista, Stefano Balli, partecipa anch’egli della pienezza di vita di Angiolina: non c’è neppure bisogno d’una conquista esplicita, tanto le due figure sono unite dalla vitalità. La minor influenza del naturalismo si coglie proprio nel rapporto tra Emilio e il Balli, che sul piano degli avvenimenti può rimanere di amicizia/protezione perché la coppia rivalità/sostituzione è introitata nel mondo psicologico del protagonista.
Altrettanto significativa è Amalia; rispetto all’evanescente madre di Nitti acquista un peso determinante: nell’intreccio ha una funzione di simmetria, formando una seconda coppia, speculare rispetto a Emilio/Angiolina: qui è la donna a desiderare, ma invano, e il rapporto non si instaura neppure. Ma ancora più importante è il suo ruolo di alter ego del fratello, evidenziato dalla parentela; più fragile, con la sua fine esaurisce l’uso della morte ( che l’etere avvicina al suicidio di Nitti) come soluzione naturalista, vista in Una vita: sacrificando Amalia  Svevo paga i suoi debiti al naturalismo e può approdare al moderno concetto di senilità.
Come già detto, qui l’attante paterno manca, mentre più forte è la funzione del luogo, non più milieu, ma polarità tra posti chiusi, ora squallidi come la camera d’affitto di Angiolina, ora soffocantemente borghesi come la casa di Amalia, e gli esterni triestini; i primi sono sull’asse della noluntas, in essi Emilio vorrebbe rinchiudere quella vitalità che trova sfogo negli spazi aperti, dove è la donna a dominare.
La Coscienza di Zeno costituisce un’evoluzione ed una chiarificazione dei concetti esplorati nei romanzi precedenti, ed insieme ne costituisce un rovesciamento: la noluntas trionfa sulla voluntas, alla tranche de vie naturalista con la sua struttura ordinata si sostituisce il romanzo dell’inconscio, a struttura implosa. La dialettica continuità/rovesciamento si ritrova nella matrice narrativa, che ritorna, ma rovesciata e replicata.
Essa è utilizzata per creare l’intreccio principale, che corre dal terzo al settimo capitolo, mentre rimane sostanzialmente estranea al rapporto col dottor S., che costituisce la vera novità rispetto ai romanzi precedenti.
Il rapporto con l’attante paterno è il più esplicito nell’intera opera; dominando il terzo capitolo, fa da introduzione ed insieme si fa autonomo: il padre è sia autoritario che malato, Zeno lo teme eppure ne coglie la debolezza; è la conferma della posizione a cavallo degli assi verticali. Tocca poi al padre ereditare in parte la funzione del morire al posto del protagonista, svolta prima dalla madre e poi dalla sorella. Questa morte infine permette di replicare l’attante paterno prima nell’Olivi poi in Malfenti padre: entrambi portatori dell’autorità del successo, intimoriscono Zeno che pure cerca di emularli e superarli negli affari; ed entrambi saranno toccati da malattia e morte. Né si può escludere che l’attante paterno abbia ispirato anche la figura del dottor S.: pure qui autorità vs. timore ed emulazione.
Il quartetto centrale viene chiaramente applicato per generare l’intreccio amoroso ed economico, ma con evidente gusto del rovesciamento.
Zeno è l’antieroe malato, che però trionfa ironicamente sulla vita reale, inquinata alle radici; cambiato di segno il protagonista, mutano valenza anche le altre figure.
L’attante femminile malato è Augusta, legata da quella parentela particolare che è il matrimonio: Zeno la sposa perché era la salute personificata per poi aggiungere «io sto analizzando la sua salute, ma [...] m’accorgo che, analizzandola, la converto in malattia». Dunque l’asse della malattia si ribalta nel sono guarito! di Zeno al termine del libro e nella salute di Augusta, mentre l’asse della salute vedrà Ada ammalata e Guido morto.
Con il personaggio di Ada ricompaiono il tentativo, ripetuto e sempre fallito, di conquista; l’elemento letterario, che sopravvive nel violino e nei tentativi umoristici di Zeno, volti in gaffes – letteratura come impotenza, appunto -; il rifiuto e il disprezzo della donna. Però il mutamento di segno comporta la sconfitta di Ada, nel matrimonio, negli affari, nella maternità e soprattutto nella salute: il morbo di Basedow ha un ruolo simbolico di incarnazione del logoramento apportato dalla voluntas, nella descrizione di Svevo.
L’antagonista, Guido, segue il suo ruolo: è brillante, conquista Ada, è protettivo verso Zeno, lo sostituisce nel favore della donna e dell’intera famiglia Malfenti, e Zeno prova per lui amicizia e soprattutto rivalità. Ma il succedersi degli eventi vede avvenire il rovesciamento: il fallimento economico, la meschina relazione scoperta, l’ostilità di moglie e suocera e, suprema ironia, tocca all’eroe ereditare dal protagonista il destino di morte: ancora un suicidio per avvelenamento, ma ancor più casuale di quello di Amalia, a cancellare ogni eroismo.
Il gusto combinatorio del gioco porta Svevo ad applicare lo schema almeno altre due volte.
Nella relazione con Carmen è Guido a ricoprire il ruolo del protagonista (seduce infatti con la letteratura, raccontando favole), questa volta vittorioso sull’antagonista Zeno, mentre ad Ada spetta il ruolo dell’attante femminile malato (è spesso assente per cure). L’ironia si ritrova collegando l’episodio al contesto: la relazione distoglie Guido dagli affari ed è scoperta da Ada, contribuendo così alla caduta finale.
Invece la tresca con Carla non è scoperta da Augusta, e in essa lo schema, ancora utilizzato, conosce ulteriori varianti: l’ignoranza della moglie la preserva dalla malattia, Carla è conquistata effettivamente, al punto da rompere la relazione perché crede ciecamente al ruolo melodrammatico del marito pentito; infine l’antagonista, il maestro di musica, è suscitato da Zeno stesso come pura funzione di sostituzione.
Da ultimo, i luoghi: l’ufficio di Guido e Zeno rispecchia nella sua posizione il diverso destino dei due; gli spazi aperti del Carsonell’ultimo capitolo sono ora il punto di partenza di quella guerra che favorirà il trionfo del commerciante Zeno, di contro al paese dove disastrosamente era tornato Nitti e agli spazi triestini di Angiolina; mentre poi la casa di Zeno, dimora borghese, prospera sotto le cure di Augusta e si sdoppia nella villa di Lucinico, tocca a Carla il quartierino miserabile che fu già di Nitti.
Dunque davvero un solo romanzo, non solo per la coerenza e l’unitarietà delle idee, ma anche per l’uso degli intrecci.