Il libro che mi è arrivato dalla biblioteca della mia amica Giuliana Bagnasco, più di un anno dopo la sua morte, come suo ricordo, era uscito presso gli Editori Laterza nel marzo 2023, e lei non aveva più fatto a tempo a recensirlo: tocca perciò a me cercare di farlo adesso, glielo devo – tanto più che quest’anno cadono gli ottant’anni dalla liberazione del campo di sterminio di Auschwitz, e la storia sembra tornare indietro…
È il libro di uno storico torinese, Carlo Greppi, che fin dalla sua tesi di dottorato si è occupato di Storie di gente comune nell’Italia della guerra civile (Feltrinelli 2016), e in questo libro, Un uomo di poche parole. Storia di Lorenzo, che salvò Primo, ricostruisce la biografia di Lorenzo Perrone, il muratore di Fossano che ad Auschwitz aiutò sistematicamente Primo Levi, permettendogli di sopravvivere al lager, e oggi è riconosciuto come “giusto tra le nazioni” nello Yad Vashem, il museo della Shoah a Gerusalemme.
Si tratta di un saggio storico, un testo “scientifico” che poggia su un approfondito, rigoroso lavoro di ricerca, dettagliatamente documentato in ben 50 pagine di note e 5 di ringraziamenti: perché si è trattato di un vero e proprio “lavoro di squadra” durato parecchi anni tra “ideazione, studio, ricerca e stesura” – ma è uno studio che si legge come un romanzo, toccante e avvincente per la qualità della scrittura e la peculiarità dell’impostazione, oltre che per l’argomento.
L’argomento è quello, sconvolgente, dei campi di sterminio (Auschwitz su tutti) ideati dai nazisti per l’eliminazione di quelli che loro ritenevano Untermenschen, sotto-uomini: gli ebrei in primis, e poi gli zingari, gli omosessuali, in generale i “diversi” – un “buco nero” della storia del Novecento su cui non si mediterà mai abbastanza, e questo libro cerca di farlo da una prospettiva particolare che, se da un lato potrebbe essere “consolatoria”, dall’altro non fa che accentuare l’amarezza per l’ingiustizia che regnava e regna, nella storia e nella società. La prospettiva di Greppi è quella che additava Calvino nella conclusione di Le città invisibili (Einaudi 1972): “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”: per questo lui si è messo sulle tracce di un “giusto fra le nazioni”, e qui il primo piano è costituito dalla ricostruzione della vita di Lorenzo, a cui si intreccia la narrazione del lavoro di ricerca dello storico, mentre la realtà di Auschwitz rappresenta per così dire lo sfondo della storia narrata. Proprio questa è la peculiarità di cui parlavo, da qui deriva la coloritura “romanzesca”, il timbro letterario di questo saggio: lo studioso non riferisce i risultati della sua indagine “dall’esterno”, in maniera asettica, senza coinvolgimento personale, ma fa sentire la sua “voce”, la sua partecipazione alla storia narrata, che è “una storia che riguarda gli esseri umani: la loro meschinità, prima di tutto, però anche il loro coraggio, la loro capacità di essere meravigliosi, benché terribili”, e quindi riguarda tutti, chi narra e chi legge. E se chi narra parla anche di sé, delle sue riletture delle opere di Primo Levi, dei “vuoti che si schiantano sull’impossibilità di essere colmati”, degli ostacoli incontrati nella sua ricerca, non lo fa per esibizionismo narcisistico, ma perché non si può rimanere indifferenti, si deve “prendere posizione”, schierarsi dalla parte di Lorenzo, ovviamente, e di Primo. E dirlo chiaramente, senza nascondere la commozione – che in effetti si percepisce nitidamente in queste pagine.
Dopo un breve prologo in cui Greppi presenta l’oggetto della sua ricerca e racconta come gli sia venuta l’idea di “perforare la coltre di oblio che è calata su gran parte dell’esistenza di quest’uomo di poche parole”, che però non si è girato “dall’altra parte”, la narrazione comincia in medias res, con l’incontro tra Lorenzo e Primo avvenuto un giorno di giugno del 1944, ad Auschwitz, dove Lorenzo lavorava come muratore (fuori del campo di sterminio) alla ricostruzione di quanto un bombardamento alleato aveva parzialmente distrutto, e il prigioniero Levi gli faceva da garzone. La relazione dello storico sulla vita e la figura di questo umilissimo “eroe per caso” prosegue poi in un continuo andirivieni tra passato e presente, tra Primo e Lorenzo, con una scrittura che crea attesa, coinvolge e appassiona – una scrittura da romanziere appunto, più che da storico.
Anche i titoli non sono quelli di un freddo saggio accademico, ma sono titoli “poetici”, ispirati, che condensano in una metafora (la notte) o in poche parole-chiave (coltelli, bestemmie, camminare…) il senso del lavoro. Le quattro sezioni in cui il libro è suddiviso si intitolano infatti: Gli ultimi – Divennero primi – Il rovescio del mondo – Un muto bisogno di decenza; i 13 capitoli hanno come titoli: Tacca dal Burgué – Coltelli, bestemmie – E venne la notte; Fuori quadro – L’ultimo dei Giusti – Lavorare a Suiss; Messaggi – La notte che non vuole finire – Camminare; Noi pochi vivi – Da chi sempre vi ricorda – Ed essi restituiranno – La storia di un santo bevitore. Il “santo bevitore” è lui, Lorenzo Perrone, alias “Tacca dal Burgué”: Tacca era il soprannome con cui era chiamato nel quartiere di Fossano dov’era nato, il Burgué appunto; “Suiss” è il suo modo di chiamare Auschwitz, storpiando quel nome nefasto. Infine Noi pochi vivi (parole che Primo Levi scrive all’inizio della Tregua, quando racconta l’arrivo dei primi cavalieri russi a liberare Auschwitz) è sì il titolo del capitolo che racconta l’arrivo di Lorenzo a casa a Fossano, e successivamente la visita che Levi, dopo il suo ritorno a Torino, gli fece, ma compendia anche un amaro giudizio morale e civile su tutta la vicenda: i “vivi”, cioè non solo i sopravvissuti, ma quelli che avevano saputo rimanere “umani” e misericordiosi, come Lorenzo, erano davvero pochi allora – e non è detto che oggi siano di più.