Pensiero discorsivo e pensiero esoterico

Alchimia

Alchimia

ANTONIO VIGLINO

Al pensiero discorsivo è da sempre affiancato il pensiero esoterico, confinato in enclave, così in Oriente come in Occidente.
In India, in Tibet, nell’Europa, la totalità delle persone vive immersa nella rappresentazione, a livello quotidiano, a livello cognitivo-filosofico, a livello religioso. Poi ci sono ristrette cerchie di adepti che vivono al di fuori della rappresentazione: la sorte di questi gruppi è diversa in Oriente rispetto all’Occidente: là sono riveriti ed ammirati, in Occidente sono confinati ai margini della società. (Da qui la differenza tra pensiero ordinario orientale e pensiero ordinario occidentale: il primo muove dalla verità esoterica, sebbene il renderla in termini discorsivi non possa che deprivarla della sua effettività; in Occidente si è scartato il pensiero esoterico, e quindi l’alternativa razionalista ha creato il progresso.)
Alchimisti e yogin, cabbalisti e siddha, santi mistici e bhakty-yogin vivono le stesse identiche esperienze, la stessa identica realtà; la quale è diversa dalla realtà convenzionale, quella creduta unica e granitica dal pensiero discorsivo. È ovvio cioè che tutti gli adepti di ogni estrazione culturale e da ogni angolo del mondo dicano lo stesso, ciascuno a modo proprio, per il semplice fatto che hanno costoro accesso alla dimensione autentica della realtà, che quella è; così come l’altra dimensione della realtà, quella convenzionale, è ovviamente per tutti uguale.
Il pensiero sacro considera ragione e fede come una variazione all’interno del tema della rappresentazione: i razionalisti credono a cosa le loro facoltà calcolanti elucubrino a partire dai miserrimi lacerti di realtà che cadono sotto il dominio dei cinque sensi, i religiosi ed i devoti credono a cosa sperano. Entrambe le schiere, per gli adepti della Scienza Sacra, mancano del rapporto diretto ed effettivo con la realtà, bensì appunto “credono”: credono a cosa la loro mente creda, non alla realtà, e ciò proprio a causa del fatto che la realtà è esperita non in modo diretto ma appunto attraverso il velo della rappresentazione — ciò è l’avydia. La vydia, la conoscenza, è invece l’esperire la realtà autentica senza intermediazioni, in modo diretto.
La rappresentazione è il credere di essere l’io, questo è l’errore di fondo che preclude le conoscenze effettive “superiori”; il convincimento che la propria mente sia un “oggetto” che si esaurisce nel soggetto nominato io. Da qui sorge, inevitabilmente, la domanda sul mondo esterno — appunto esterno perché a priori vissuto come esterno alla mente — e sulle cose che lo compongono, donde la technè, l’essere indotti al manipolare le cose.
Gli esoteristi oppongono che la mente non coincida con l’io. Che l’io sia invece solo un inganno autoreferenziale, un aggregato del portato delle sensazioni sulla mente; l’io per gli esoteristi è certamente vero, solo che è solo una porzione della mente, la ninfea senza le radici per citare Kant. Il pensiero esoterico ritiene che la base della mente, la natura della mente, sia vuota, sia uno specchio; e che di questo specchio l’io, o gli io che uno si renda conto di avere, sono un riflesso. La ragione è il legame, o la materia, di cui è fatto il riflesso.
Questa è una descrizione concettuale e discorsiva del pensiero sacro, il quale procede in modi del tutto ignoti al pensiero comune, che sono detti pre-teoretici proprio in quanto anteriori all’instaurarsi della dicotomia tra io e mondo, tra mente a materia.
Gli yoga non sono altro che insiemi di tecniche, della più varia natura, che hanno l’identico scopo di facilitare l’evento del ritrovarsi al di qua dell’io, ovvero sulla natura della mente non deformata dall’io (deformata un po’ come la gravità di una stella deforma lo spazio-tempo). Non si può infatti voler uscire dall’io, perché l’io evidentemente non può voler uscire da se stesso.
La Scienza Sacra si afferma come scienza: si fonda sulla evidenza di esperienze di stati di coscienza anteriori al dominio dell’io. La scienza moderna si dice empirica, ma conduce i propri esperimenti attraverso il vetrino colorato della rappresentazione, cioè su quella che crede una evidenza, mentre forse davvero non la è. Corollario è che la Scienza Sacra sia ripetibile date certe condizioni imponderabili, laddove quella moderna predetermina le proprie condizioni di ripetibilità.
Si sarà inteso che si tratta di due mondi diversi. La realtà appare (e se si vuole “è”) sempre fenomenicamente una, va da sé, cambia però la sua struttura. La struttura della realtà, è detto, non già la di essa percezione psicologica o cognitiva — ciò sarebbe una variante della rappresentazione, va da sé. Interrogato sulla natura della realtà autentica era solito rispondere il Buddha: non si può descrivere a chi non la abbia raggiunta, chi la ha raggiunta non ha bisogno di spiegazioni.
E tra questi mondi non c’è possibilità di disputa: l’uno nega l’altro, o meglio il pensiero discorsivo si fonda sul negare il pensiero esoterico, proprio perché il pensiero esoterico “non è comunicabile come le altre conoscenze”, come dice Platone nella Lettera VII, mentre per Aristotele ciò “che è” deve come tale essere dicibile dal logos razionale. Questo è il fondo del discrimine, e ciò per il semplice fatto che essendo due forme di pensiero diverse si estrinsecano in due modi diversi di pensare, che hanno tratti inconciliabili. Per il pensiero convenzionale il fondamento è il pasòn bebaiotate archè della Metafisica di Aristotele, il principio di non contraddizione; il quale a sua volta per il pensiero sacro non è che l’espressione di un accanimento rappresentativo su porzioni dell’ente (in termini logici il principio di non contraddizione può essere detto come il principio di identità dissimulato in una petizione di principio). L’esoterista non può, ma in effetti nemmeno vuole, convincere o persuadere l’interlocutore, semmai accennare, come l’Apollo di Eraclito, al fatto che da parte di alcuni si dice si possano seguire vie diverse dal plesso delle credenze che le abitudini inscrivono nelle menti instillando la persuasione che il mondo sia solo il samsara, che occorra seguire le correnti, cercare ripari, soffrire e morire.
Uno dei metodi principali per superare la rappresentazione, additato da yogin, da vedantini, dagli alchimisti e dai filosofi pre-teoretici è peraltro proprio il ritorcere la ragione su stessa, il farle constatare la propria intrinseca e strutturale autoreferzialità. Certo ciò può non servire a niente di più che a sviluppare capacità calcolatorie orientate a obbiettivi diversi dalla prevaricazione naturalmente insita nella ragione, ovvero a vedersi sviluppare una dialettica di tipo platonico in luogo di quella hegeliana tipica della mente dualizzante. Poi come in ogni tipo di yoga il perfezionamento o le realizzazioni dipendono essenzialmente da una shaktipat, una caduta di potenza, con la consapevolezza cioè che tutto dipende dal caso (che in Oriente concepiscono in un modo però diverso: il Karman, che non è solo il destino né il succedersi di retribuzioni e premi). Si può dire che gli yoga siano un rendersi disponibili alla caduta di potenza. E il rendersi conto del fatto che quantomeno la storia del passato dell’umanità è logicamente possibile sia diversa da come si crede di sapere, non è altro che un principio di yoga adatto ai tempi correnti.
Certo un dialogo in questi termini pare ad oggi donchisciottesco, ma la prospettiva potrebbe mutare se ci si rendesse conto che i mulini non sono solo strutture architettoniche alimentate nel loro meccanico operare sui piccoli oggetti a causa dei venti, ma sono anche porzioni dell’ente co-prodotte condizionatamente (questa è la nozione essenziale della vacuità nel Buddhismo Mahayana, mentre nelle correnti tantriche del Buddhismo Vajrayana la vacuità è uno stato della coscienza anteriore all’io che deve essere raggiunto).
Quanto sopra è una disamina da un punto di vista diverso da quelli consueti.
Da un certo punto di vista è uno studio sintetico ed integrato di descrizione di sistemi esoterici per come possono essere letti. Da un altro punto di vista non è altro che l’aver fatto un passo nel solco segnato da una linea filosofica ora ritenuta minoritaria nel panorama continentale, dove viene considerata ancora idealistica, appunto quella di Nietzsche e Heidegger.

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