FULVIA GIACOSA
Mi accorgo di non aver ancora dedicato alcuna scheda alla Pop Art. D’altronde il fenomeno artistico ha avuto – e ancora ha – tale diffusione e successo nell’arte dell’Occidente che ormai è patrimonio comune anche di chi d’arte poco si occupa. Comunque una scheda è doverosa. Ho scelto Cles Oldenburg (1929-2022), un maestro un po’ burlone e figura forse non così conosciuta come Roy Lichtenstein o Andy Warhol.
“La pittura che ha dormito tanto a lungo nelle sue cripte dorate, nelle sue tombe di vetro, è invitata a uscire per andare a nuotare, le offrono una sigaretta, una bottiglia di birra, è tutta spettinata, le danno una spinta, le fanno lo sgambetto, le insegnano a ridere, le regalano vestiti di ogni genere e la invitano a fare un giro in bicicletta”: così scriveva Claes Oldenburg a inizio carriera, sicuramente uno dei più maliziosi e ironici protagonisti della Pop Art americana.
Oldenburg, nato a Stoccolma (il padre era un diplomatico e si spostava tra Europa e America) ma si è trasferito a Chicago con la famiglia quando aveva sette anni, dove studierà Letteratura Inglese alla Yale University e poi Arte presso il New Bauhaus che, alla chiusura da parte del regime nazista di quello tedesco originario, era trasmigrato in America nel 1937 presso l’IIT (Illinois Institute of Tecnology) grazie a Moholy-Nagy e Walter Gropius anch’essi rifugiati negli USA. Si sposta poi a New York nel 1956, disegna posters e costumi per una compagnia di danza ed entra in contatto con artisti performativi come Allan Kaprow con cui lavorerà anche in seguito. Non è qui possibile analizzare origine e caratteri dell’arte performativa – occorrerebbe una scheda apposita – ma si tenga conto che essa è già implicita nella pittura d’azione dell’Informale la cui eredità si trasmette agli Sessanta generando eventi che implicano la partecipazione attiva del pubblico. Contemporaneamente alle esperienze performative l’artista lavora sulle installazioni; la prima, dal titolo “The Street” (1960), registra il degrado di certe strade sporche ed abbandonate della metropoli, ammassando nello spazio espositivo scarti in legno e cartone, con chiaro intento di critica sociale. Conscio che il mercantilismo sia ormai dominante in ogni campo, se ne fa gioco aprendo l’anno dopo un magazzino in una stradina dell’East Village che battezza “The Store” dove vende calchi in gesso dipinti in modo grossolano e a volte in cartapesta povera, in scala al vero o ingranditi, che volutamente appaiono cose di cattivo gusto; vi si trova di tutto come nei negozietti del quartiere, dagli abiti (berretti, vestiti, cravatte) e oggetti comuni (orologi) ai tipici cibi americani, resi più indigesti dalle loro grandi dimensioni e da aspetto “plastificato” che li rende ambigui (hot-dog, sandwiches, amburgers, costolette, salsicce, fette di torta alla crema, gelati, lecca-lecca giganti). Il tutto risulta innaturale per la resa sommaria e il colore che a volte cola oltre l’oggetto rendendolo nauseante, stilisticamente kitsch come le immagini della pubblicità, con l’intento di stigmatizzare le pessime abitudini alimentari degli americani. Oldenburg è convinto che “una discarica pubblica urbana valga tutti i depositi di forniture artistiche del mondo”, ma anziché prelevare tali e quali gli oggetti preferisce realizzarli personalmente come surrogati del reale con intento chiaramente polemico nei confronti del consumismo imperante. Racconta Arthur Danto, attento interprete della Pop Art: “La gente comprava arte nello stesso modo in cui comprava cibo e vestiti. … Era anche un modo di superare la distanza che separava l’arte dalla vita e, infine, un modo di farsi conoscere molto rapidamente attraverso l’attenzione dei media. Era chiara insomma la ricerca di un rapporto diretto col pubblico”. Il magazzino di Claes chiude già nel 1964, ma la Judson Gallery acquista ed espone alcuni pezzi. Pochi anni dopo, Warhol aprirà la nota “Factory”, studio-abitazione e luogo di lavoro collettivo in più campi espressivi che gestisce da vero manager sponsorizzando giovani artisti alternativi (il caso più noto è quello di Jean-Michel Basquiat), mentre “The Store” di Oldenburg resta uno studio artistico personale e decisamente originale. Altra tipologia di oggetti, che vengono acquistati da gallerie come la Judson citata, la Green Gallery e poi quella di Leo Castelli che ha fatto la fortuna commerciale della Pop Art, sono le “sculture soffici” (1962-63): di per sé il contrario del tradizionale concetto di scultura in materiali rigidi e durevoli, sono realizzati con stoffa imbevuta di gesso che ne esalta l’elasticità e ne sottolinea la fragilità. L’opera di questo tipo più nota è una “Macchina da scrivere morbida” che pare svuotata al suo interno e, priva di sostegni, si fa cedevole, si gonfia in certi punti e si sgonfia in altri come sotto la pressione di una mano, assumendo un aspetto biomorfo. Risulta interessante un raffronto con Duchamp che, nel 1916, aveva realizzato un ready-made alquanto misterioso ed enigmatico, titolandolo “Pieghevole da viaggio”: detto anche “Underwood” in riferimento alla nota marca di tale prodotto come recita la fodera che la nasconde alla vista; “underwood” però significa anche “sottobosco” e Duchamp gioca con i doppi sensi: alludendo ad una “gonna” (la forma svasata della fodera, che si può piegare e mettere in valigia) e alla malizia voyeuristica di un osservatore che, spinto da tale somiglianza, vorrebbe guardare “sotto” (under) la gonna, nel “bosco” (wood) femminile. Nell’opera di Oldenburg tali sottintesi un po’ concettosi scompaiono. Certamente anche la sua macchina da scrivere è umanizzata, malleabile, morbida e deformabile, sensibile come si trattasse di un essere vivente, ma l’oggetto non è un freddo utensile né un gioco linguistico bensì un pezzo di vita vera soggetto a metamorfosi, simbolica ed ironica insieme. Se ne ricorderà a breve Robert Morris quando alle strutture rigide del 1965 sostituirà quelle morbide dell’ “Antiform” dei primi Settanta.
Solo a partire dalla seconda metà di tale decennio Oldenburg si dedica a lavori di grandi dimensioni da collocare negli spazi urbani: enormi gelati, hot dog, rossetti, mollette da stendere, ago e filo, forbici. La scultura “monumentale”, che tradizionalmente si inseriva in strade e piazze urbane con intenti celebrativi di personaggi storici, qui si piega alla società massificata e celebra il banale quotidiano che ormai invade il contesto urbano. La scala sovradimensionata e monumentale di tali oggetti insignificanti li trasferisce nella sfera dell’arte dando loro una nuova dignità estetica. Il primo lavoro di questo tipo è del 1967; nel 1969 realizza “Lipstick (ascending) on Caterpillar Tracks” per la Yale University che consiste in un enorme rossetto puntato verso l’alto come la testata di un missile e appoggiato su un mezzo militare, con chiaro riferimento alla guerra del Vietnam proprio in occasione di una protesta studentesca. Alcuni lavori sono in Europa, come “Ago filo e nodo” sistemato al centro di piazza Cadorna a Milano di cui oggi nessuno più si scandalizza, anzi ne gode il ridente e quasi ostentato colorismo in una delle zone più trafficate e grigie della città. Nello stesso periodo ha anche partecipato occasionalmente alle prime mostre di Land Art (“Earthworks” del 1968), ma ormai il suo marchio di fabbrica è la scultura di piccoli oggetti quotidiani portati a scala gigante, come la “Molletta da stendere” (1976) tra i grattacieli di Philadelphia. Una vera dichiarazione intenzionalmente kitsch per mettere alla berlina il cattivo gusto imperante è “Binoculars, Chiat/Day Builiding”, del 1991 a Venice, realizzata insieme all’architetto postmoderno Frank O’Gehry: un gigantesco binocolo fa da ingresso ad un centro commerciale californiano. Una delle opere più recenti, realizzata con la moglie – il sodalizio è trentennale – è “Dropped Bouquet” (2021), un gigantesco mazzo di fiori in alluminio colorato da tinte accese posato a terra, lavoro non privo di una vena malinconica ben diversa da quei fiori veri ma assai insignificanti del neo-pop Jeff Koons.
“Sono per un’arte che tragga le sue forme direttamente dalla vita, che si intrecci e si espanda fino all’impossibile, e si ingrandisca, e sputi, e sgoccioli, dolce e stupida come la vita stessa… Sono per l’artista che sparisce e rispunta con un berretto da muratore a dipingere insegne e cartelloni. … Sono per l’arte che viene fuori come un pennacchio di fumo e si disperde nel cielo. … Sono per l’arte che piega le cose, le prende a calci e le rompe e le tira e le fa cadere”. Così spiega Oldenburg le sue scelte artistiche. Nel complesso l’arte di Oldenburg è stata definita una forma di “espressionismo oggettivo”, in cui la deformazione che da sempre ha caratterizzato le tendenze espressionistiche non rinuncia alla preminenza dell’oggetto reale sia pure reinventato. Il suo store d’altronde era già un chiaro indizio dell’azione destabilizzante intrapresa nei confronti del sistema-arte. La prima reazione della critica è stata di disappunto per la mancanza di originalità nei contenuti e la sciatteria formale, ma presto gli viene riconosciuta l’accettazione della contemporaneità, in stretta correlazione con gli altri artisti pop. “Più estroversa che introversa, l’arte Pop arriva al dunque istantaneamente. … L’impeto è tipicamente contemporaneo, come contemporaneo è lo stile.”, scriveva già nel 1966 Lucy Lippard. Siamo immersi nella “civiltà del consumo che si mescola e interferisce di continuo con una ‘civiltà dell’immagine’ [...]; siamo immersi e partecipi, ormai, d’una società di massa che domina, volere o no, e dominerà sempre più l’intero pianeta”, ha scritto Gillo Dorfles.
Oldenburg è tra coloro che più hanno contribuito a mescolare alto e basso e a spersonalizzare, demitizzare l’arte in un nuovo “stile”, ancora in gran parte attuale.