La musica del lutto e del ballo

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SILVIA PIO (a cura)

Ester Lanzardo, libro numero tre.
Il numero uno, L’altro giorno ho perso un mondo è il racconto e la denuncia di un evento che ha visto l’autrice testimone di una perdita. Nel secondo, La carpa e la calendula, è trattata l’elaborazione del lutto e la faticosa sopravvivenza. Ma che musica è una specie di continuazione, perché il tempo e la vita vanno avanti e le cose si trasformano, ma è anche un percorso musicale attraverso le canzoni che hanno accompagnato la vita di Ester.
I capitoli sono una colonna sonora, con codici QR che fanno ascoltare al lettore i brani da YouTube. Ogni capitolo è una storia, un’esperienza, dall’infanzia alle vicende più recenti, attraverso la formazione musicale dell’autrice, che parte dalle canzoni ascoltate in famiglia (Tango delle capinere, Vecchio frac), attraversa gli anni Settanta, Ottanta e Novanta con i cantautori italiani (La canzone del sole, La musica che gira intorno), comprende le arie liriche più famose (Libiam nei lieti calici), le sempreverdi canzoni degli Alpini e quelle altrettanto inossidabili che ancora si ballano nei locali (La celebre mazurca variata).
Il ballo ha accompagnato la vita di Ester: i genitori che volteggiano in cucina, i balli a palchetto1, le balere, e ancora oggi la frequentazione dei locali da ballo. A questi microcosmi di musica, movimento, personaggi e rituali Ester dedica numerose pagine del libro, nelle quali racconta le dinamiche degli inviti, dà suggerimenti sull’abbigliamento, analizza le combinazioni di coppia, ma soprattutto spiega le ragioni per le quali ci sono frequentatori che ottengono piacere, svago e compagnia nei locali che ancora si trovano numerosi, almeno in questa parte del Piemonte.

Ad ogni occasione ritorna il ricordo di Pino, la cui malattia e dipartita hanno iniziato la scrittura di Ester. Conosciuto in una sala da ballo, con lui l’intesa è stata subito intensa, non solo nel ballo, nella musica e nelle canzoni. Avevano costruito un mondo di attività all’aperto, di buon cibo, di cantate con gli amici; tutto ciò si fa strada a forza nelle parole del libro e preme per diventare il filo conduttore. Ma nonostante la forza del ricordo, il filo conduttore rimane sempre la musica, ascoltata, cantata ma soprattutto ballata.
Dalla prefazione di Enzo Salvagno: «Nel ballo, in un qui ed ora vitale, si continua a volteggiare incuranti del tempo di vita accumulato, tuttavia attenti al tempo musicale, al ritmo, e a volte sedotti da melodie e ricordi: ecco che allora nella scrittura precisa e chiara, nelle coinvolgenti descrizioni si aprono squarci di poetica malinconia.
Spero che Ester non chiuda qui le danze letterarie ma che, in questo ballo che è la vita, continui a raccontarci i suoi passi in pista.»

Nota 1 In Piemonte si trovavano queste strutture circolari mobili, chiuse da un tendone con al centro un palo e il pavimento di assi di legno.

Proponiamo ai lettori di Margutte l’ultimo capitolo del libro “Ma che musica”.

Il cielo è una coperta ricamata

Scrivendo ho realizzato un desiderio che mi accompagnava da anni: quello di stendere, sull’ambiente del liscio, un piccolo trattato, un compendio di tutto ciò che attraverso quell’esperienza sono andata imparando. Ogni tanto penso di avere infine esaurito l’argomento. E invece, ogni settimana mi accorgo di aver conseguito qualcosa di nuovo, sul ballo ma anche su me stessa.

Ho attribuito al ballo parecchi pregi, ma il suo merito più grande e prezioso per me risiede nell’opportunità del nostro incontro. Le nostre non sono state solo due solitudini che si avvicinano, come canta Ruggeri in quella sua canzone (18). Ciascuno di noi ha rappresentato per l’altro qualcosa di sconosciuto, impensato, stravagante, e proprio per questo ammaliante.
Ha scritto Alessandro Baricco: Forse le cose stanno esattamente così: quelli che vale la pena di amare veramente sono quelli che ti rendono estraneo a te stesso. Quelli che riescono ad estirparti dal tuo habitat e dal tuo viaggio, e ti trapiantano in un altro ecosistema, riuscendo a tenerti in vita in quella giungla che non conosci e dove certamente moriresti se non fosse che loro sono lì e ti insegnano i passi i gesti e le parole: e tu, contro ogni previsione, sei in grado di ripeterli (19).

Leggo, e sento ogni parola riferita a me, al mio viaggio che mutò la sua rotta, all’arduo sostare in mare aperto senza una direzione, al nostro incontro, e infine all’approdo nel nuovo habitat, fatto di torri e campanili situati su morbide colline, di erti boschi in cui mi sarei certamente persa, di scivolose sponde di torrente nella cui intricata vegetazione sarei rimasta impigliata, se non ci fossi stato tu a fare strada.
Mi accorgo di avere imparato a apprezzare l’incolto, i campi selvatici di erbe spontanee, in cui spiccare bacche di rosa canina o rametti di iperico; a preferire una camminata nei boschi a un più anonimo giro per strade asfaltate; a inoltrarmi per ripe scoscese lasciando il comodo sentiero; a trovare familiari le piante del sottobosco: erica, mirtillo, ginepro; a essere vittima consapevole di foglie traditrici, che del fungo simulano la forma e il colore; a preferire l’acqua del torrente a quella della piscina: non pesco più, non senza la tua guida, ma i miei occhi ora vedono riconoscono e contemplano: i Tre Mondi del dipinto di Escher, quello sott’acqua, quello a pelo d’acqua, quello della riva che si rispecchia. Ho persino trovato la danza nella torsione di un albero di castagno, possente e leggiadro insieme.
Ogni giorno sento in me gli echi della tua sapienza di cieli e acque, di venti e piogge, di legni e alberi, di gesti che ti ho visto compiere e che scopro di avere appreso, tanto che spuntano con assiduità nelle mie giornate. Che io indossi stivali di gomma, aggraziate scarpette da ballo o ruvidi scarponi, mi sento me stessa, con le sicurezze acquisite e con le insicurezze non ancora superate. E per tutto questo sono grata, e fiera, e innamorata, ancora.

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