45. Per combattervi eternamente

Luigi de' Medici (da Wikipedia)

Luigi de’ Medici (da Wikipedia)

DINA TORTOROLI

Nella precedente puntata, ho interrotto bruscamente la trascrizione del secondo  paragrafo della Lettera di Francesco Piranesi ad Acton, immaginando lo sconcerto dei lettori, causato dalle solenni parole di Rousseau – fedelmente tradotte dallo pseudo-Piranesi, non per avvalersi di una loro citazione, correttamente segnalata, ma per farle proprie e incastonarle nel resoconto dell’oltraggio che il ministro Acton gli aveva recato – fino a che l’asserzione severa ma sobria: «je vous aurais laissé dire» si trasforma nell’insolente: «io vi avrei lasciato, senza commovermi, eternamente latrare e mentire».

Quante voci stanno intervenendo? E perché commettere un atto di plagio, destinato a essere immediatamente individuato?

Io penso che Carlo Imbonati – posto che l’Imbonati sia realmente l’estensore della Lettera – abbia escogitato questo anomalo procedimento proprio per suscitare perplessità nel lettore, allertare la sua attenzione, indurlo a porsi domande fino a risolvere che si deve far ricorso alla Lettre di Rousseau per capire la complessità e la funzione della Lettera “di Piranesi”, “in tutta la sua estensione”.

Su di me, gli effetti clamorosi del primo impatto non solo persistono, ma si sono potenziati e volentieri torno a riflettere su tutte le parole della Lettre, soppesate a una a una, comprese quelle del frontespizio: JEAN JACQUES ROUSSEAU, CITOYEN DE GENEVE, À CHRISTOPHE DE BEAUMONT, Archevêque de Paris, Duc de St. Cloud, Pair de France, Commandeur de l’Ordre du St. Esprit, Proviseur de Sorbonne, &c. (disponibile in WIKISOURCE, la bibliothèque libre).

Rousseau evidenzia la propria fonte di ispirazione, scrivendo in esergo: «Da veniam si quid liberius dixi, non ad contumeliam tuam, sed ad defensionem meam. Praesumpsi enim de gravitate & prudentiâ tuâ, quia potes considerare quantam mihi respondendi necessitatem imposueris» Aug. Epist. 238 ad Pascent. (Perdonami se ho detto qualcosa troppo liberamente, non per tuo oltraggio, ma per mia difesa. Effettivamente ho presunto molto dalla tua gravità e dalla tua prudenza, perché puoi valutare quanta necessità di risponderti mi hai imposto / S. Agostino Epistolae, 238, 29, ad Pascentium), perciò  ritengo sia doveroso meditare anche sui princìpi enunciati da Agostino e appurare fino a che punto sia Rousseau sia Imbonati abbiano voluto avvalersene nei loro testi, concepiti “pour l’amour du genre humain”.

Riprendo quindi la lettura della Lettera dal punto in cui la vittima di Acton passa alla controffensiva:

«Ma voi mi avete oltraggiato alla presenza del pubblico: voi mi avete atrocemente calunniato per proteggere il traditore baron d’Armfeldt, denunciandomi a tutta l’Italia e a tutta l’Europa ordinatore d’un assassinio contro di lui: voi avete cercato di dirigere a questo scopo la pubblica opinione con ogni sorta di maneggi e di scritti, e non vi siete avveduto che, togliendomi l’onore, mi toglievate egualmente la libertà di soffrire, disprezzarvi e tacere. Io vengo dunque a dimandarvi conto degli oltraggi che gratuitamente m’avete fatti, io vengo ad adempire un sacro comando di natura e della legge divina, che m’intimano chiaramente di difendere la mia riputazione. Pretendevate voi  forse di essere così formidabile ch’io dovessi ammutire e impietrir di paura? Di essere così elevato, che la mia debole vista non vi potesse raggiungere? No, signor Generale. Il vostro rango è venerevole senza dubbio, e sublime: ma io servo un augusto padrone il quale m’insegna e mi ordina di non rispettare, negli uomini, che la virtù. Io getto uno sguardo sul vostro grado, ed un altro sulle vostre azioni. Qual distanza, qual differenza fra questi due punti di prospettiva! Quando poi considero che vi siete giovato della vostra potenza e della vostra grandezza per disonorarmi, voi m’ispirate non più venerazione e rispetto, ma ribrezzo ed orrore» (Lettera, pp. 41-42).

Sono dichiarazioni in cui è riconoscibile la voce dell’Imbonati, che si attiene alle dichiarazioni di Rousseau, vale a dire – in estrema sintesi – al principio educativo sotteso alle parole rivolte all’Arcivescovo Christophe de Beaumont: «plus vous avez d’autorité parmi les hommes, moins m’est permis de me taire quand vous voulez me déshonorer».

Però, alla fine delle argomentazioni, sentiamo irrompere le parole tremende di chi ritiene Acton indegno della “venerazione” e del “rispetto” cui accenna con sferzante ma anche sapiente maniera Rousseau, nel formulare i propri capi d’accusa contro l’Arcivescovo: «…un homme vertueux qui a l’âme aussi noble que la naissance, un illustre Archevêque, qui devroit réprimer [la] lâsceté, l’autorise: il n’a pas honte, lui qui devroit plaindre les opprimés, d’en accabler un dans le fort de ses disgrâces; il lance, lui Prélat catholique, un Mandement contre un Auteur protestant…» (un uomo virtuoso che ha tanto nobile l’animo quanto la nascita, un illustre Arcivescovo, che dovrebbe reprimere la viltà, l’autorizza: non ha vergogna, lui che dovrebbe commiserare gli oppressi, di opprimerne uno nel colmo delle sue disgrazie; lancia, lui Prelato cattolico, una lettera pastorale contro un Autore protestante).

Conglobare nello stile oratorio un linguaggio privo di ogni ritegno significa riconoscerne la legittimità e  comprenderne le  motivazioni: «la stagione dei riguardi è passata».

Carlo Imbonati ha dunque accettato di collaborare a smascherare Acton, facendo ascoltare anche la voce irriverente di chi non tollera più la permanenza in carica di quel feroce ministro straniero.

Imbonati stesso lo apostrofa con particolare veemenza: «Avvezzato da molto tempo al linguaggio dei vili e tremanti adulatori che vi circondano, voi rimanete già sconcertato dalla fermezza con che vi parlo, e pretendo parlarvi per tutto il corso di questa lettera. Ma riflettete, signor Generale, che vi vuol del coraggio ed una pura coscienza per dire la verità, e che la disonora chi l’enuncia con timidezza. Dall’altra parte se questa vi spaventa ed affligge, non è colpa mia. La verità non ha mai atterrito gli amici della virtù, e non vi sono che i vili che consigliano di tacerla, e le sporche coscienze, a cui torna conto che la sua luce resti sepolta nel cuore degli uomini, come una lucerna dentro una tomba. Ma quella luce a che giova se dal soggiorno dei morti non passa a quello de’ vivi? E con qual titolo vi siete voi arrogato il diritto di spegnerla, condannando gli uomini onesti al silenzio dopo di averli calpestati ed oppressi? Ed io perché dovrei temervi nel difendermi, quando voi non avete temuto Iddio medesimo nell’infamarmi? Animo dunque, signor Generale, ponete mano alle vostre armi, che sono a Dio piacendo le armi della calunnia, ch’io son qui parato a rispondervi con quelle dell’onore e della ragione. Il giudice, che deve tra noi proferire la sua sentenza, cioè il pubblico, non si lascia corrompere dalle onze, né sovvertire dalle cabbale. Egli è inesorabile quanto giusto; egli premia e punisce senza passione, egli giudica indistintamente le azioni dei grandi, e dei piccoli, quelle di Acton e quelle di Piranesi» (Lettera pp. 47-48).

Quindi, comportandosi alla stregua di Rousseau, che si difende dalle fausses imputations dell’Arcivescovo   la preuve à la main –, Imbonati “disvela” la  “Pleiade delle bugie”, escogitate da Acton contro Piranesi e i collaboratori, ingaggiati per controllare il barone Armfelt, facendo penetrare “la luce della verità” nel luogo in cui sono segregate le sventurate vittime del sistema inumano voluto da Acton.

Da quell’ammasso recupero almeno quanto mi pare irrinunciabile:

– «Usciti dalle penose angustie del raziocinio, entriamo adesso nel libero e largo campo del fatto, ove le congetture, le dubitazioni, i cavilli spariscono tutti, e non rimane nell’arena che la nuda verità quale e quanta  si trova in tutta la sua nitidezza. Oh verità! sentimento divino, idolo de’ cuori onorati, e tormento eterno dei perfidi, io potrò dunque far sì, che il pubblico ti contempli a viso scoperto e ti tocchi? L’impostura aveva tentato di seppellirti e nascondere ai tanti occhi che ti cercano le tue pure attrattive. Ma la mia mano strapperà con coraggio il velo che ti hanno posto sul volto. La tua luce brillerà come il sole, confonderà i vili che ti hanno tradito, e i buoni esulteranno tutti della tua giusta vendetta. Ritorniamo dunque alla vostra dichiarazione, voglio dire alla fossa che vi siete scavata colle proprie mani, e dentro cui spero resterete interamente sepolto. Voi asserite che Benedetto Mori aveva condotto da Roma a Napoli tre assassini per uccidere il baron Armfeldt; voi asserite che due di questi già in potere della giustizia sono convinti e confessi; voi asserite che anche il terzo, cioè il nominato Benedetto, è stato in Roma arrestato, e che non manca che la sua deposizione per ultimare tutto il processo. Ed io all’opposto, colle pure prove di fatto, vi mostrerò invittamente che queste tre franche asserzioni sono tre brave menzogne una più bella dell’altra» (Lettera, pp. 60-61)

– «Voi avete detto, e audacemente scritto, che l’attentato di quel tal Piranesi e di quei tali assassini, “non è un ritrovato né una strana interpretazione, ma un fatto dedotto nei tribunali di Napoli ne’ quali dal processo contro di essi (Vincenzo Mori e Pietro Pasquini) fabricato, sono convinti e confessi” […] Voi dite al pubblico che il Mori ed il Pasquini sono già convinti e confessi; ed io a questo pubblico coraggiosamente dichiaro che quella due vittime sventurate hanno deposto costantemente tutto il contrario. Venga innanzi il processo. Voi ricusate di darlo, ma a vostro scorno ve lo darò io (osservate e stordite) e nel ristretto che ne presento, sfido tutta Napoli e tutte le due Sicilie a trovarmi una sillaba che non sia vera.

Dalle poche carte adunque, che il vostro tribunale ha saputo imbrattare rapporto al presunto intentato assassinio contro la persona del baron d’Armfelt, rilevasi che d’ordine della real corte di Napoli furono carcerate tre persone, cioè un volante  napoletano per nome Setola, Vincenzo Mori e Pietro Pasquini romani, e che un altro parimenti inquisito, denominato Benedetto Mori si salvò con la fuga.

Il volante [cameriere utilizzato per recare messaggi] ha deposto nel suo costituto che, conoscendo e praticando con li su detti Mori e Pasquini, scoperse i loro disegni di voler uccidere il nominato barone, dal di cui servigio egli allora si licenziò per non trovarsi involto in questo delitto […]. Le anzidette carte sono senza informativo, e senza rubrica – almeno lo erano fino dal mese p. p. agosto. Forse nel momento in cui scrivo vi sono accaduti dei cangiamenti. Ciò non importa. A me basta che quando il signor Generale mi calunniava, il processo si ritrovasse nello stato che ho riferito – ed ecco tutto il processo, cioè due mezzi costituti fatti d’innanzi all’eccellentissimo signor reggente, ecco le prove del delitto, cioè l’unica deposizione d’un segnalato birbante, come subito dimostreremo: ed ecco finalmente i rei convinti, e confessi, cioè la perpetua e costante confessione d’essere l’uno e l’altro due galantuomini. Ma gl’interrogatori sull’attentato? Oh sì signore, anche questi vi sono stati e lunghissimi e minacciosi e superbi; ma vi par egli che lo scrivano fosse così balordo da registrarli? Scrivendo gli interrogatori, bisognava scrivere ancora le risposte; e le risposte, voi lo sapete, piene d’onore, non meno che di evidenza, avrebbero rovesciata la macchina infernale che si era costruita per rovinarli» (Lettera, pp. 72-75).

– «Di molte lettere, che io ho scritto in Napoli al mio capo assassino Benedetto Mori, tre sono cadute in vostro potere, […]. Queste tre lettere adunque… che contengono, signor generale, che dicono? Dicono tutte in sostanza una cosa sola, che Benedetto Mori è il più bravuomo del mondo perché sempre è al giorno di quel che fa il barone; dicono che spenda e spanda senza riguardo, non per assassinarlo ma per saperne gli andamenti appuntino; non per tirargli un colpo di pistola, ma per farlo inseguire in caso di fuga, non per mettergli un coltello nel cuore, ma per iscoprire tutte le macchinazioni de’ suoi protettori. Dicono in somma, che per amor di Dio badi bene che non gli scappi, perché la salute della Svezia in quel momento dipendeva dall’arresto, mi capite voi? Dall’arresto, e non dalla morte di questo scellerato.

Fuori dunque le mie lettere, fuori tutto, poiché la stagione dei riguardi è passata. […] Non è più tempo né di prestigi, né di comprate gazzette, né di belle parole, ma di belle ragioni, di documenti, e di fatti. Fuori in somma tutto quanto il processo. Io vi sfido a produrlo, e sebbene io sappia con quai materiali si fabbricano nelle vostre curie i processi, sebbene debbano darmi apprensione le spelonche di quei falsari e i giuramenti che si vendono per le scale e per le sale della Vicarìa*, nondimeno io confido tanto nella protezione del cielo, e nella moltitudine delle mie ragioni, e in quelle dei vostri torti, che potrò vendicare da tutti gli oltraggi la verità. Sappiate adunque che non vi temo, perché così mi comanda la mia coscienza, sappiate che ho delle armi in mano ancor più taglienti e sicure, e che questo è appena il vestibolo dell’armeria che ho preparata per combattervi eternamente». (Lettera,  pp. 96-99).

– «Voi vi siete lusingato sicuramente che vista umana non sarebbe mai passata a traverso le tenebrose operazioni del vostro gabinetto; molto meno, che da Roma io potessi veder le cose di Napoli nell’aspetto lor vero, e libere da quella nebbia di cui la vostra politica la circonda  quando la presenta agli occhi del pubblico. Ma ecco l’errore in cui cadono più d’una volta i discepoli di Macchiavello, allorché in vece del genio non hanno che il cuore del loro maestro. Essi credono che il popolo colpito dal terrore, e tremante d’innanzi ad un uomo che si è posto in luogo di Dio, non abbia più occhi per vedere , né orecchio per ascoltare; essi credono che non possa darsi anima così temeraria, che ardisca di sospirare e di gemere, e tener viva nel petto una scintilla di sentimento; credono in somma che basti comandare l’opinione, perché subito nasca e sia nelle teste introdotta. Stolti, che confondono la pazienza del popolo con la sua stupidezza. Non s’avveggono che, volendo ingannare, sono ingannati; non sanno che quanto è debole e paurosa la ragione privata, altrettanto è forte e coraggiosa la pubblica; non conoscono che la virtù deve risplendere in mezzo all’opera, e non in mezzo alla massima, e ch’ella è una pessima morale quella che consiste tutta nelle sole parole e nel saper applicare dei termini onesti e decenti ai vizi più rovinosi e deformi. Non comprendono finalmente che la sola giustizia è tutto, che la giustizia è inseparabile dalla verità, e che la verità più si trova compressa  più veemente manda i suoi raggi, e più acuti e penetranti i suoi gridi.» (pp. 110-111).

– «So che l’arte in Napoli di falsificare gli scritti si è sotto i vostri benèfici auspici perfezionata; so che quest’arte l’avete resa ormai liberale […] so che l’intrepida vostra coscienza può indurvi ad alterare non solamente le date di due passaporti, ma quella ancora di due battesimi. So benissimo tutto questo, né vi dissimulo che per questa sola parte vi temo. […] Deponete adunque le pretensioni d’incatenare i pensieri e le parole degli uomini, come le loro mani e i lor piedi; persuadetevi che non si guadagna il titolo di giusto coll’esercitare la tirannide nel santo nome della giustizia; avvertite che quando la prepotenza fa tacere affatto le leggi, allora parlano i fanciulli lattanti e gli stupidi balbuzienti del Vangelo, il grido de’ quali squarcia le nuvole e introna i cieli, e allora le pietre medesime si sollevano ed acquistano il sentimento e la voce» (pp. 150-151).

– «So che una moderna pratica criminale insegna a rigettare le testimonianze che favoriscono l’accusato, e a registrare soltanto quelle che lo condannano. So che i testimoni studiosamente si scelgono fra gente senza pudore, senza morale, senza costumi, e quel che è peggio, fra i nemici stessi del reo. So che il fisco è una medusa che pietrifica sul labbro degli interrogati la verità, e che il fisco medesimo ne suggerisce le risposte, e spaventa colle minacce chiunque non sagrifica la coscienza alla prepotenza. So finalmente che a tutti è concessa la facoltà di prendere il sasso per via e percotere il delinquente, ma non al delinquente il conoscere la mano che lo ferisce, né di reclamare il sacro ed inviolabile diritto delle sue difese; diritto rispettato da Dio medesimo nel sentenziare la prima colpa. Io so tutto questo, e scandali molto maggiori, de’ quali Nerone medesimo arrossirebbe. Ma guai al governo, guai al principato, in cui siasi fatalmente introdotto questo infernale sistema […] Dio freme nel vedere atterrata in mezzo agli uomini la giustizia, e sostituito alla pubblica vista un deforme fantoccio della medesima, acciocché il popolo non s’accorga ch’ella è stata sottratta; freme nel vederne affidata la spada a uomini crudeli, prepotenti e vendicativi; freme nel vederla calare furiosamente sul capo degli innocenti e risparmiare le teste più scellerate; freme di sentirsi invocato in mezzo alle più atroci ingiustizie, e di vederle commesse nel tremendo e santo suo nome, e tradite le leggi, tradito il popolo, tradito il sovrano che padre amoroso, ma padre ingannato, diventa spesso senza saperlo il carnefice dei suoi figli» (Lettera, pp. 191-192).

“Sa” veramente troppo l’estensore della Lettera, ma il committente questo vuole: che dei fatti scandalosi che connotano il “caso Piranesi” sia resa pubblica l’intera serie, corredata di elementi  noti soltanto al Reggente della Vicarìa.

Leggendo la tremenda requisitoria, il Ministro Acton, l’ “eterno nemico”,  non avrà il minimo dubbio, e nella mente ruminerà l’odioso nome: “Luigi de’ Medici”!

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*La  Gran Corte della Vicarìa, che nacque dalla fusione del Tribunale del Vicario con la Gran Corte, fu istituita da Carlo II d’Angiò e costituiva la prima magistratura di appello di tutte le Corti del Regno di Napoli per le cause criminali e civili (Wikipedia).

La Gran Corte era presieduta da un Reggente.