Fermare i pensieri

Fermare i pensieri

Fermare i pensieri

ANTONIO VIGLINO

Lo yoga di Śrī Aurobindo condensa in un unico punto gli yoga classici: lasciar essere che la luce discenda dall’alto, per mezzo del consentire l’arresto dei pensieri (e proprio in questo discendere questa luce è anche Kuṇḍali).
Questo è ciò che accadde a Śrī Aurobindo, come egli descrive in una lettera decenni dopo: “qualcos’altro da me, all’interno della mia coscienza, si incaricava di ogni attività dinamica e creativa, parlando e agendo attraverso di me, senza che io vi partecipassi minimamente, né col pensiero, né con alcuna iniziativa personale. Un ‘qualcosa’ che rimase ignoto anche a me, finché mi resi conto che ero venuto in contatto con l’aspetto dinamico della Realtà suprema. Allora capii che tale aspetto dinamico preesisteva all’esperienza, sia pure inconsciamente, e che appunto questo mi aveva spinto ad intraprendere la disciplina yogica, proprio come era all’origine di ogni mia attività”. Śrī Aurobindo poi insegnava suggerendo il fermare i pensieri come tecnica per promuovere la discesa della luce, come insegnano pressoché tutti gli yoga, ma a lui accadde diversamente: gli cadde la luce e con ciò si fermarono i pensieri, successivamente imparò a stazionare nell’assenza di pensieri. Ma appunto non pare sia possibile fermare i pensieri senza che si sia acceduti ad uno stato di coscienza dove i pensieri discorsivi già non esistono più, ed è proprio questo che dicono gli insegnamenti, anche di Śrī Aurobindo: qualora i pensieri si fermino, proprio questo sarebbe l’affacciarsi all’accesso — ma non è possibile fermare i pensieri senza l’intervento di quello stato che molti dicono Kuṇḍali, ovvero questo e non altro è il manifestarsi, puramente in sé a-causale, di Kuṇḍali: ciò significa il dire che il Rāja-yoga presuppone lo Haṭha-yoga, le due aree avendo lo stesso oggetto, Kuṇḍali, riguardato da momenti o luoghi differenti. Per Śrī Aurobindo insomma il momento topico è l’arrestarsi dei pensieri, così come per lo Śivaismo del Kasmīr la condizione essenziale è il vikalpakṣaya (la distruzione del pensiero dualizzante) e per il Buddhismo tantrico l’attingimento psico-organico della Śūnyatā (vacuità): il compimento della modalità Haṭha-yoga è l’ingresso nella modalità Rāja-yoga. Il passo appena citato di Śrī Aurobindo concerne appunto lo stato che egli esperì fermatisi i pensieri: i pensieri discorsivi si arrestano, ossia svanisce la mente ordinaria e non c’è più l’io perché appunto l’io è il re-fantoccio dei pensieri dualizzanti, e la mente è libera, svuotata dai fantasmi, materiata della sola sua propria vera natura, il conoscere e l’essere conosciuti dalla quale (ovvero il sempre più riconoscersi in essa) diventa allora lo yoga.
Per Śrī Aurobindo non si deve restare alla dimensione del semplice superamento dell’io, e contestuale reciproca pervasione tra il sé e il tutto; questo livello (che lui dice Overmind) costituisce senza dubbio un risultato eclatante ed inconcepibile dalle mente ordinaria, e consente già certamente di vivere fuori dal Kárman (come il “Buddha dei tre tempi” tibetano o come promette la Dea Kālī, la distruttrice del tempo), ma si può andare oltre.
E questo “oltre”, la Supermind, a mio avviso è stato attinto da Śrī Aurobindo anche a partire, paradossalmente, dalla sua formazione mentale analitica ed occidentale: proprio la compiuta padronanza della mente “aristotelica”, nella sua dimensione puramente asettica cui lo stesso Aristotele non potè giungere peraltro, gli consentì di mantenere il distacco anche dalla Overmind, e di ascendere ed interagire nella Supermind. Ciò che si vuole dire è che se Aristotele esplorò la logica della mente razionale, unidirezionale, categoriale e autoreferenziale, Śrī Aurobindo come tutti gli yogīn viveva una logica diversa, che si può dire in breve non-locale e scevra di enticità, ma proprio il carattere sistematico del pensiero occidentale forse ha contribuito anch’esso ad accompagnarlo nella landa del divino sopramentale. In altre parole, il preteoretico, l’antepredicativo, il pre-rappresentativo, non è a-logico, bensì gode di una logica che è diversa, non solo più profonda o più ampia, dalla logica razionale. È solo il razionalismo innestato dalla mente rappresentativa che crede che la propria misera logica sia in grado di comprendere la realtà, in ciò appunto sta la sua autoreferenzialità; questo atteggiamento è a tal punto autoreferenziale da nemmeno rendersi conto che deve capovolgere il significato piano e letterale di cosa dissero coloro che precedettero la svolta aristotelico-analitica del pensiero occidentale, allo scopo di poterne usurpare i detti per puerilmente autoingannarsi nel credersi in un qualcosa che artatamente si nomina “il vero”.
Si prenda come esempio paradigmatico Platone. Quasi tutti i filosofi e letterati ritengono che Platone sia stato il primo razionalista, e tutti i filosofi e i letterati, anche coloro che non lo ritengono del tutto razionalista, lo leggono come se leggessero Aristotele: hanno la granitica certezza di credere di sapere che cosa al loro dozzinale orticello di conoscenze fruttato di assidue letture paia vero, debba essere cosa diceva Platone. Tralasciando la pur ovvia considerazione che già il credere la conoscenza consista nell’accatastare nozioni e concetti è puramente autoreferenziale, si deve però additare che non si rendono conto i letterati ed i filosofi che il nucleo, il cuore pulsante, la condicio sine qua non del poter leggere Platone è il prendere atto del fatto che Platone in tutti i punti nodali, in tutti i punti in cui parla della vera conoscenza dica e ripeta in ogni modo che la ragione è solo un mezzo limitato di conoscenza che a causa dei suoi limiti intrinseci non consente di capire nulla di effettivo (invece Aristotele crederà che la ragione sia fonte unica di conoscenza). Per Platone c’è uno stadio superiore alla ragione: ebbene cosa fanno i luminari del pensiero occidentale, se non ridurre anche questo platonico “oltre la ragione” ai loro proprio sordi e grigi limiti razionali? Nemmeno sospendono il giudizio, come propugnano non pochi da Pirrone a Husserl, perché ciò evidentemente intacca la loro smania hegeliana di “dover sapere”; va da sé che ognuno intende cosa può e vuole intendere, ma la condotta oggettiva dell’usurpare le fonti allo scopo di stravolgerle significa porsi come le evangeliche guide cieche. Ciò, ovvero l’accanirsi a ridurre ciò che è posto come oltre-razionale da chi lo espone al razionale di chi lo legge, sarebbe quasi una barzelletta, se non fosse la tragica verità, ma così va il mondo. I dotti riducono la Repubblica ad oligarchia, perché non si capacitano del cosa possa voler dire che i filosofi dialettici per Platone siano coloro che escono dalle tenebre alle luce: ma chi solo legge e legge deve esigere che questa sia una metafora, perché ciò che il dotto non conosce deve essere falso (questo meccanismo sub-razionale è, se si nota, esattamente lo stesso che eradica lo xenos del Sofista di Platone nel confutare gli eristi), e quindi cala dall’alto la sua ellittica sentenza. Un altro esempio platonico: sanno tutti che di Atlantide parlò per primo nel mondo occidentale (già questo è un limite del quale non ci si capacita di come si possa non rendersi conto: ci sono altri mondi al di fuori del mondo occidentale), ebbene Platone disse in sostanza che “ci fu” una civiltà precedente alla storia e perduta, e poi ne scrisse obiter, come gli pareva per i propri fini, incurante che schiere di futuri sapienti avrebbero filologicamente pontificato in punta del loro sapere, chiusi nei loro imaginifici recinti letterari come nelle abbazie altomedioevali, senza nemmeno darsi pena di notare che Atlantide è semmai testimoniata da Platone, ma costituita di fatto da milioni e milioni di tonnellate di megaliti la cui sussistenza fisica sta in sé — ma anche gli archeologi a loro volta non sono altro che dotti hegeliani chiusi nel loro “dover spiegare” tutto in base ai propri pregiudizi, e ciò cementifica il circolo vizioso che è la poltiglia che oggi si chiama cultura occidentale: letture su letture, concetti su concetti, pregiudizi su pregiudizi, ciascun pensante incapsulato nel proprio millimetro cubo di supponenza.
Ebbene, i filosofi e i letterati sopra evocati altro non fanno che dare corso ai propri pensieri discorsivi: ben lungi dal fermarli li cavalcano, traggono inferenze costitute da vuoti concetti, credono a cosa passi loro per la testa (questo e non altro è l’io, il fantasma della rappresentazione, cattedrali di concetti e parole). Proprio questo è il vikalpa che deve secondo gli yoga essere bloccato, se si vuole accedere alla vera conoscenza la quale è non già facile leggere ma esperire la vera natura della mente — il dire intorno alla vydia di fronte a chi “crede di sapere” che essa sia inesistente, non è davvero cosa da farsi, lo dice già anche Platone.
Dal passato al presente, una delle principali tesi delle neuroscienze cognitive è che nell’encefalo, nell’emisfero sinistro, vi sia “l’interprete”, che appunto interpreta in una narrazione continua i dati che sono acquisiti al cervello, e tale sarebbe la coscienza. Questo “interprete” però è solo la coscienza autoreferenziale, ovvero la mente ordinaria, ovvero l’io: Kuṇḍali con i suoi splendenti occhi di cobra zittisce questo cicaleccio.
Fermare i pensieri, come detto, non è possibile, bensì deve accadere, ed è la tappa che segna l’ingresso negli stati superiori di coscienza, perché appunto rimosso il rumore di fondo costituito dai pensieri, stolidi o dotti che siano, si inizia a conoscere se stessi — come dice chi? Platone stesso.