R come ROTHKO

FULVIA GIACOSA

Un autoritratto pittorico e una fotografia ci aiutano a conoscere Mark Rothko (1903-1970). Il primo, dipinto dall’autore all’età di 33 anni quando era all’alba della futura carriera, è un tipico mezzobusto di tre quarti, mancano solo il pennello e la tela come vuole la tradizione. L’artista è già un po’ stempiato, con baffi e barba, in camicia bianca giacca marrone e una corta cravatta; le mani poggiate una sull’altra tradiscono un certo imbarazzo, gli occhi sono due crateri neri e profondi nascosti da lenti tipiche dei ciechi. Sembra rivolgersi allo spettatore ma con poca convinzione. Cupo e impietoso, il ritratto ha uno stile decisamente espressionistico, vale a dire sintetico nella forma, approssimato nelle pennellate, cupo nelle gradazioni del marrone e del nero (alla Kirchner per intenderci). Appare smarrito, incerto su quale artista – non se – vuol diventare nel prossimo futuro che sarà ben diverso da quello che è ai tempi di questo autoritratto. La fotografia è invece del 1950, uno scatto di Nina Leen (ora al MoMa) del gruppo degli “Irascibili” (15 in tutto) con Rothko seduto in prima fila a destra appena un po’ in disparte, quasi estraneo rispetto al contesto (è l’unico a non guardare la macchina fotografica ma, se fate attenzione, gli spessi occhiali permettono di scoprire una sbirciata al fotografo). Come nel dipinto le mani sono in grembo una sull’altra (ora con una sigaretta tra le dita); è più o meno vestito come allora, un po’ più stempiato e senza barba. Mostra la stessa indifferenza verso chi guarda ma la postura è più stabile come se maggiore fosse ormai la consapevolezza di sé. La foto ci dice molto del nostro autore, il più schivo e artisticamente il più lontano dalla gestualità vitalistica del gruppo, in particolare di Pollock  al centro della foto. In questo periodo Rothko partecipa a parecchie correnti newyorkesi d’avanguardia come “Color Fields Paintings” e la cosiddetta “Scuola di New York” comunemente nota come “Espressionismo Astratto” termine che non gli è mai piaciuto. É molto stimato dai colleghi per la profondità e originalità delle sue ricerche sempre ponderate in modo quasi ossessivo, ma ancora assai trascurato dalla critica. Con molti di loro, proprio nel 1950, firma una lettera pubblica di protesta contro il Metropolitan Museum per le sue scelte espositive che escludevano proprio gli Espressionisti Astratti.

Sintetizzo qui un po’ di biografia e il suo percorso artistico. Markus Rothkowiyz, questo il vero nome, lituano, emigra nel 1913 con genitori e fratelli a Portland in Oregon, USA. Il padre, farmacista, è un uomo colto ma muore prematuramente poco dopo il trasferimento negli USA. Per la famiglia inizia un periodo difficile sul piano economico e anche per lo strisciante antisemitismo di quegli anni che rendono difficile l’integrazione degli esuli ebrei. Nonostante tutto, dopo le scuole superiori riesce a frequentare l’Università di Yale (1921) dove studia la cultura greca antica, la filosofia (Nietzsche), la letteratura e le scienze pur senza laurearsi; intanto coltiva l’interesse per la musica che influenzerà la sua pittura (suona pianoforte e mandolino). Dopo il trasferimento a New York nel 1924 si iscrive alla Art Students League anche se sostanzialmente è un autodidatta che si giova della frequentazione di artisti già affermati, mentre sbarca il lunario facendo l’insegnante di pittura ai bambini del quartiere ebraico di Brooklyn (lo farà per vent’anni). Con l’inizio dell’attività artistica muta il suo nome ebreo-lituano nel più americano Marc Rothko. Inizialmente guarda all’arte europea, in particolare al Surrealismo: è un lungo periodo di incubazione che precede le scelte definitive che lo portano al successo verso la fine degli anni Cinquanta. La storia dell’arte lo colloca nell’Informale o “Action Painting” tuttavia per Rothko è più corretto parlare di inazione per la lentezza di esecuzione e il rigore formale. Sicuramente la sua arte ha un tono lirico che non appartiene a  personaggi come Pollock che pure stimava. Sono personalità e non solo artisti diversi: Pollock è irruente, morde la vita, ama l’azzardo, ha il caratteraccio tipico degli alcolizzati e dietro alle sue sfuriate nasconde una fragilità di fondo; Rothko è meditativo, melanconico, riservato, introverso ma fermo nelle sue idee anche a costo di rinunciare a commissioni importanti e di inimicarsi critici e galleristi. Il primo lavora compulsivamente, si agita sulle tele poggiate a terra e lascia gocciolare i colori secondo le leggi del caso ingaggiando una lotta – esistenziale – con la tela; il secondo resta mesi sulla stessa tela fino a raggiungere un risultato testardamente cercato. É convinto che l’arte sia “un’avventura in un mondo sconosciuto, che può essere esplorato solo da coloro che intendono assumersi il rischio” (così scrive nel 1943 sul New York Times) e pretende che il pubblico si lasci guidare dall’artista evitando interpretazioni azzardate. Tutta la sua produzione ruota intorno a una visione tragica del mondo cui l’arte offre una nuova spiritualità.  I primi lavori esposti sono acquerelli e olî di scene urbane: la serie “Subway” (dal 1933) è ambientata nella metro newyorkese tra scale e colonne di ghisa con figure allampanate, filiformi (un po’ alla Giacometti), sprofondate in un inferno metropolitano contemporaneo (“Entrance to subway”, 1938). Con i Quaranta cambiano i soggetti e, sull’esempio dei Surrealisti europei, si ispirano alla mitologia e alle tragedie greche (“Sacrificio di Ifigenia”, 1942) caratterizzati da una figurazione sempre più immaginifica, distorta, che prepara la svolta astratto-lirica che da lì a poco gli darà la fama; spiega l’artista: “Fu con estrema riluttanza che mi resi conto di come la figura non fosse più utile ai miei scopi … Venne un momento in cui nessuno di noi [gli Informali] riusciva a utilizzare la figura senza mutilarla”.  Le mostre di quel decennio tra cui quella alla galleria “Art of This Century” di Peggy Guggenheim (1945) sono stroncate dalla critica, tutta a favore dell’ormai imperante Pollock. Dopo la serie “Multiform”(1947/’49, con una moltitudine di colori e forme) inizia il periodo del suo astrattismo maturo. Dal 1950 Rothko diventa il leader del gruppo “Color Field Paintings” e arriva il successo. I suoi lavori non hanno bisogno di titolo, troppo condizionante per lo spettatore, solo un numero progressivo e al massimo l’elenco dei colori usati, mai più di tre o quattro (ad es. “Senza titolo viola, bianco e rosso”). Si tratta di una pittura aniconica su grandi tele (“Un quadro grande è un atto immediato: ti prende dentro di sé”, dice), sapientemente calibrata, una danza rallentata e ipnotica di  rettangoli colorati posti in verticale o in orizzontale che non raggiungono mai del tutto i bordi della tela con un effetto di fluttuazione tra uno e l’altro, vibranti di una luce implicita nel colore da cui emana. La tecnica si fa sempre più ricercata: la stesura  a strati trasparenti e liquidi, così lontani dai grumi materici di Pollock, raggiungono l’effetto di una pittura ondeggiante che, come un essere vivente, “respira”. Quest’ultima fase della sua arte, che finalmente gli dà il posto che merita nella storia dell’arte, inizia col viaggio in Europa nel 1950; l’artista sosta a Firenze e rimane senza fiato di fronte agli affreschi di Beato Angelico nel Convento di San Marco: è lo spazio-luce denso di spiritualità che cercava, quello che conduce lo spettatore alla contemplazione e spiritualità più intima. Perché ciò possa avvenire occorre un grande rigore non solo nel dipingere ma anche nella scelta del luogo espositivo e nell’allestimento, come testimonia la storia delle opere realizzate e mai consegnate per il ristorante “Four Seasons” che si rivela troppo mondano e dunque incompatibile con le sue opere (il ritiro delle quali e le grane legali connesse gli procureranno una irreversibile depressione). Anche negli allestimenti, da cui dipende la forza comunicativa dell’insieme, è inflessibile, litiga con i galleristi fino alla rinuncia di esporre se non viene accontentato nel creare un unico ambiente immersivo come avverrà per i 14 grandi pannelli (dittici e trittici) della Cappella aconfessionale di Houston, detta Rothko Chapel, commissionati dal collezionista de Menil, terminati poco prima del suicidio dell’artista ormai in profonda depressione: è un luogo di meditazione ove la lentezza del fare pittorico di fronte alla tela vuota diventa la lentezza irrinunciabile dello sguardo. Negli ultimi dieci anni i colori di Rothko si incupiscono e le tinte finali sono ottenute con molte stesure sovrapposte, in alcune opere si arriva a oltre la decina di mani con colori diversi che, alla fine, producono una tinta indefinibile tra il nero, il viola e il blu scuro. Sono quadri apparentemente “fatti di niente”. Rothko ha raggiunto la luce, per quanto ormai flebile, che porta con sé il mistero dell’universo e la lotta esistenziale tra poche certezze e infiniti dubbi. L’assenza di moto si accompagna ad una interiore e tragica tensione di fronte alla quale non è possibile restare indifferenti.
Provare per credere.

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