Uno sguardo al mercato librario italiano: si salva solo l’editoria per ragazzi

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Illustrazione di Cinzia Ghigliano

MARCO TOMATIS

Una delle letture più illuminanti riguardo allo stato non solo dell’industria editoriale italiana, ma anche quello della lettura tout court nel nostro paese, è quella dell’annuale rapporto AIE (Associazione Italiana Editori).

I dati più recenti sono quelli relativi al 2012, (il rapporto 2103 verrà pubblicato nei prossimi mesi)  e il dato che salta immediatamente all’occhio nella ridda di cifre e diagrammi è molto semplice. In Italia da anni si vendono sempre meno libri. E nemmeno le cifre relative alla lettura sono molto confortanti, se si pensa che la metà degli Italiani non ne legge nemmeno uno l’anno.

Peraltro il trend è mondiale, anzi l’Italia tra i paesi del mondo seguiti da Nielsen Bookscan, la più accreditata società che si occupa di tracciare e rendere in forma di dati la vendita di libri soprattutto nei paesi industrializzati,  è ancora quella che registra il calo minore. Per pura curiosità, in controtendenza è solo il dato relativo all’India, che ha fatto segnare un incremento dell’ordine del 16%. Ovvio che in questo caso gioca molto il fatto che si partiva da livelli di lettura abbastanza bassi, ma si tratta comunque di una cosa che dovrebbe far riflettere.

Non entrano in queste statistiche, ma vengono citate in questa sede per completezza di informazione,  le percentuali di vendita relative agli e-books, che comunque, in Italia, incidono ancora relativamente poco sul mercato generale (si stima che l’insieme delle loro vendite oscilli tra l’1,8% e il 2,1% sul totale) e ovviamente le autopubblicazioni, cartacee o in e-book.  Sono pochi infatti i libri del genere che superano le poche decine di copie vendute.

Però… Però esiste un altro dato in controtendenza che non è affatto banale. Quello che riguarda le vendite relative al settore dedicato ai bambini e ai ragazzi.

Il settore nel 2011 valeva un 14,4% dell’intero mercato  relativamente al volume di vendita e un 13,2% per quanto riguardava il valore delle vendite stesse, ed è passato nel 2012 al 19,6% per il volume e al 17,9%  per il  valore. Con un incremento percentuali rispettivamente del +6.05%  e del +4% .

Il dato andrebbe ancora corretto verso l’alto perché il rapporto tiene conto solo della fascia 0 – 14 anni, tagliando fuori quella che nei paese anglosassoni è la produzione young adults, dai quattordici in su. Ricca e piena di offerte, ma che sfora anche presso il pubblico adulto. Inutile dire che purtroppo sul territorio italiano i dati generali sono distribuiti  parecchio a macchia di leopardo. Mediamente al Nord e al Centro si legge più che al Sud, anche se non mancano regioni, come la Puglia, dove una politica culturale non banale ha comunque permesso di ottenere risultati importanti.

Parecchi sono i motivi per tale trend di vendite. Primo fra tutti, anche se resta ancora molto da fare,  il lavoro effettuato negli ultimi quindici anni in Italia da scuole e biblioteche, spesso collegate tra loro e in sinergia. Poi una diffusione sempre maggiore dalle librerie per ragazzi (sono ormai circa cinquecento in Italia), con personale specializzato in grado di consigliare e indirizzare i giovani lettori e i loro accompagnatori molto meglio di un libraio, diciamo così generalista.

E ancora una vera e propria rivoluzione avvenuta negli ultimi trent’anni nella editoria per ragazzi nazionale, che ha portato a una produzione complessivamente di buona qualità tanto che, anche se continuiamo ovviamente a importare libri dall’estero, anche noi siamo finalmente diventati esportatori.

Ma c’è forse un altro motivo (e premetto che si tratta d una posizione personale che sicuramente molti con condivideranno) che trova la sua ragione di essere nel modo in cui la letteratura per ragazzi è considerata dal mainstream culturale italiano. Cioè poco o niente.

Si tratta di un cahier de dolèances già aperto  un sacco di volte. Le librerie, che ammucchiano i libri per ragazzi in un angolo senza nessun ordine accatastando insieme  quelli per i bambini di sei anni e quelli per gli adolescenti.

La stampa che dedica al settore solamente sparsi coriandoli di spazio. La mancanza di una critica seria e diffusa sui libri per bambini, frutto a sua volta dello scarso interesse suscitato dalla materia nelle Università. Il che porta tra l’altro a una carenza notevole nella formazione degli insegnanti.

Tutto vero, giusto lamentarsi. Ma, e lo ripeto, e se questo alla fin fine fosse un punto di forza e non di debolezza?

Pensiamoci. Non c’è critica? Si evitano i soliti tromboni pronti a pontificare improvvisando. I giornali non parlano della letteratura per ragazzi? Un buon libro vende ugualmente perché il passaparola tra i bambini e i ragazzi funziona perfettamente. E comunque i bambini e i ragazzi non leggono i supplementi letterari dei quotidiani. Le librerie non specializzate non se occupano al meglio? Meglio, si evita di sentire fesserie  e magari di vedersi proporre come un capolavoro, per pure e colpevoli miopia e pigrizia, il solito libro del “grande” scrittore che si cimenta a scrivere per i bambini. Generalmente infilando flop di dimensioni talvolta epocali.  Insomma, e se uno dei motivi del dato di vendite in controtendenza fosse proprio il fatto che la letteratura per ragazzi in Italia è ancora, almeno in parte,  una sorta di zona franca in cui proprio i giovani lettori, proprio per la mancanza di troppi mediatori tra loro e i libri, sono in grado di determinare direttamente, in modo molto maggiore rispetto ai lettori adulti,  successi e insuccessi?  Non dimentichiamo che, grazie agli incontri che scuole, biblioteche e librerie organizzano ormai sempre più spesso, un buon autore per ragazzi ha un feed-back continuo con i suoi lettori. Molto più che un autore per adulti. Continuo e spietato, come solo i bambini e gli adolescenti sanno essere. Il che per un autore è quanto mai salutare.

Una idea strana quella appena espressa? Forse, ma non si può non pensare a una vicenda che, fatte salve le enormi differenze dovute alle diversità di epoca e di contesto sociale e politico, ha qualche analogia con quanto appena detto.

Nel 1934 nasce in Italia un fenomeno destinato ad avere notevole risonanza e successo editoriale. Lo sbarco in massa dei fumetti americani, su riviste destinate a diventare leggendarie come “l’Avventuroso”, con grandi disegnatori, primi fra tutti Lyman Young , Chester Gould, Alex Raymond e personaggi ormai mitici come l’Agente Segreto X9, Flash Gordon, Cino e Franco e molti altri. Per non parlare di Topolino.

Fu una specie di rivoluzione che, per dirla con le parole di Oreste del Buono,

«… sconvolse il mercato dell’editoria per l’infanzia e fece deflagrare l’editoria per l’adolescenza. Le testate  si moltiplicarono, navigando in un settore abbastanza vergine e, comunque, non completamente controllato dalla censura dei benpensanti. La difficoltà dei genitori a leggere giornali e giornaletti d’avventura a fumetti comportò un succoso periodo di libertà».

Si trattava di cifre che sarebbero notevoli oggi, figuriamoci allora. Erano una trentina i settimanali del genere. Cinque di essi superavano le centomila copie, una decina oscillava tra le cinquantamila e le ottantamila, con una tiratura complessiva di circa due milioni e una vendita di un milione e mezzo di copie.

“Calcolando che ogni numero passa per le mani di almeno tre ragazzi, se ne conclude che ogni settimana più di tre milioni di piccoli lettori si appassionano, fanno il “tifo” più scalmanato (si racconta che in una città, ogni sabato, centinaia di ragazzi sostano nei pressi di una nota stamperia per aspettare l’uscita di un giornaletto famoso…) per i loro eroi, di forme e di spiriti non italiani, se non addirittura, antitaliani. Tengono il cartello, infatti, una settantina di storie in continuazione di genere poliziesco e avventuroso, di pura marca americana, e una cinquantina di non meno accertata derivazione o imitazione “yankee”….

Parole queste di Vecchietti, fascista bottaiano, che a differenza di tanti suoi camerati sapeva guardarsi attorno. E occorre dire che si trattava anche di una vera rivoluzione linguistica. Al netto di traduzioni a volte zoppicanti, la prosa di questi fumetti era ben diversa da quella dei giornali tradizionali per bambini e ragazzi dell’epoca, a partire dal più noto di essi, il “Corriere dei Piccoli”.  Più concisa, meno alata, meno retorica, più diretta.

Ma fu rivoluzione, almeno in parte, anche iconografica.

«Debbo riconoscere che per me Dick Tracy e la straordinaria galleria di tipi inventati da Chester Gould hanno costituito un decisivo elemento di rottura con il mondo figurativo cui ero stato abituato: il mondo dell’eredità classica e della tradizione greco-romana che proprio in quegli anni ci veniva ufficialmente additato come il solo e univoco veicolo dell’autentica espressione artistica. Furono i fumetti che mi prepararono dopo la fine della guerra a comprendere lo sterminato, prodigioso svolgersi dell’Arte del XX Secolo…». Parole di Federico Zeri, all’epoca adolescente.

Tutto finì nel 1938, quando il regime fascista si accorse della potenziale carica eversiva di queste storie e ne vietò la pubblicazione. Ma furono quattro anni che in qualche modo segnarono l’immaginario collettivo dei ragazzi di allora. E non è un caso che qualche anno dopo, molti di quegli adolescenti assunsero, nella Resistenza, come nomi di battaglia quelli dei loro vecchi eroi.

Bene. Inutile ribadire che oggi la situazione è completamente diversa, ma forse è meglio che la letteratura per bambini e ragazzi continui ad essere non essere troppo considerata dalla cultura ufficiale. Se si continua a scrivere solo per il proprio pubblico e non anche per il critico di moda o il supplemento letterario del grande quotidiano è più facile divertirsi e far divertire ed interessare.

(Illustrazione inedita di Cinzia Ghigliano)