Si tratta di una vera e propria vetrina dove una volta stavano i modelli in vendita di una rinomata cappelleria cittadina e che ora appartiene ad un bar, che la mette a disposizione.
Si occupa lo spazio facendo ciò in cui meglio ci si riconosce: leggendo, guardando, disegnando, scrivendo ma anche chiacchierando; compatibilmente con lo spazio che si ha a disposizione. È una forma di provocazione, un modo per sbilanciarsi che può diventare una forma di arte, di denuncia, di azione, di resistenza.
L’incapacità di trovare le modalità per rispondere efficacemente alle situazioni sociali e politiche che ci riguardano, di organizzare una forma di resistenza “udibile” nei confronti del potere, ci spinge a nasconderci in noi stessi rimanendo schiacciati, perdenti e perduti, nel nostro privato più isolato e nascosto. La proposta di esporsi, di mettersi in vetrina, presentando se stessi per quello che si è, senza parlare, deriva dal senso di impotenza e dal desiderio di non arrendersi ai fatti che ci sovrastano: può essere un primo passo, uno sbilanciamento che, proprio perché muto, può attrarre chi dalla verbosità si sente raggirato. E spingere a nuove forme di organizzazione e di comunicazione sociale.