PATRIZIA GHIGLIONE
Arrivo dal profondo Marocco, dal Marocco desertico. Non quello coltivato del nord, delle grandi città, delle industrie. Il Marocco dei datteri e delle oasi, dove c’è una povera campagna e contadini ancor più poveri. Arrivo dalla difficoltà del vivere, da un luogo in cui il lavoro è poco e la fame tanta. Nel mio paese non c’è nemmeno l’acqua, per bagnare i campi bisogna scavare lunghissimi tunnel sotterranei che raggiungono i torrenti, ai piedi della montagna.
Così, ad un certo punto della mia vita, ho pensato di venire in Italia. Facendolo, ho osservato tutta la trafila, quella che si vede in TV: prima sono arrivato sulle sponde del Mediterraneo, poi ho raggiunto la Sicilia, con i barconi. E mi ritengo fortunato, visto che, alla fine, sono ancora vivo. Ho risalito lentamente la penisola e mi sono fermato in questa città. E qui tuttora vivo, da sei anni. Adesso sono in regola, dal punto di vista amministrativo: ho i documenti necessari, tutti validi, nessuno scaduto. Ma ho solo più quello.
Lavoro nei mercati della zona, vendo frutta e verdura: è un bel lavoro, sono un agricoltore e mi piace avere a che fare con i prodotti della terra. Il mio capo, però, cerca di pagarmi il meno possibile; non riconosce il mio diritto alla tredicesima, ci sono rimborsi che non riesco a farmi dare. Sono pagato ad ore e a volte il loro numero non corrisponde a quelle che effettivamente faccio. La vita quotidiana pesa moltissimo.
Mi sono sposato l’anno scorso e questo matrimonio è stato una cosa curiosa. Ero fidanzato con una connazionale che viveva nella mia città e lì lavorava come badante. Nessuno di noi due era più un bambino, eppure riuscire a sposarsi è stata un’odissea. Siamo dovuti scendere in Marocco, ho versato una dote, per avere il permesso. Insomma, ho dovuto pagare, per questo mio matrimonio. Ora viviamo insieme ma non parliamo di figli, non possiamo farlo. Mia moglie faceva la badante, accudiva una signora anziana; quando ci siamo sposati, i suoi datori di lavoro l’hanno licenziata. Le hanno detto che “ora che sei sposata, tutto potrebbe diventare più difficile”. Essere licenziati perché ci si sposa, è ridicolo, lei faceva il proprio lavoro come sempre.
Essere licenziati perché si rischia, siccome sposati, di avere figli, beh, questo invece è perfino umiliante.
In passato ho lavorato per brevi periodi anche in altre ditte, in particolare in una di materiale per l’edilizia. Quando ero lì, regolarmente assunto con questi contratti a breve termine, mi sono ferito ad una mano. Sono andato in ufficio mostrando la ferita e chiedendo di potermi recare in ospedale. Mi hanno subito fermato sulla porta raccomandandomi di non entrare, di non sporcare il pavimento. Poi hanno accettato che andassi all’ospedale a patto che non dicessi che mi ero ferito sul lavoro.
“Dì che ti sei fatto male in casa”. Così ho fatto, perché non si può dire di no. Se non avessi seguito il loro consiglio, avrei immediatamente perso il lavoro. Mi hanno, poi, decurtato dallo stipendio la giornata di assenza che avevo trascorso all’ospedale.
Umiliazione su umiliazione. A Natale quella ditta ha regalato il panettone a tutti i dipendenti fissi; a chi, come me, era stato assunto per un periodo di tempo limitato, il panettone non l’hanno dato. E’ stato così che si è subito notata la differenza tra i lavoratori veri e quelli finti, quelli invisibili. Quando cadi nelle grinfie di gente che pensa solo allo sfrenato guadagno, ti senti veramente un oggetto; poi solo più un numero, alla fine nemmeno più quello.
Negli uffici invece no, lì ci vedono: per loro siamo gli immigrati e con noi si prendono confidenze che non sempre siamo noi a concedere. Per esempio, ci danno del tu. Questa è una cosa che contraria molto il mio amico italiano, deve essere una specie di gelosia, dovuta al fatto che a lui non succede mai.
Lui è un vero amico, mi aiuta e mi viene a trovare e chiacchiera volentieri con me. L’ho fatto ridere tanto, una volta, raccontandogli il motivo per cui il mio occhio sinistro guarda sempre da un’altra parte: gli ho spiegato che è stata la conseguenza di uno spavento, quando ero piccolo, provocato dalla vista del diavolo.
Da un po’ di tempo,comunque, mi consolo pensando che, continuando così le cose, un giorno o l’altro mi capiterà di rincontrarlo davvero, questo diavolo; e allora, forse, tutto tornerà finalmente al suo posto.
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