PATRIZIA GHIGLIONE
Il mio nome, in arabo, è Abdelghani. Ho 42 anni, sono in Italia dal 2001. In Marocco ho seguito il percorso scolastico fino all’Università, ho fatto 3 anni di Università. Non sono laureato perché sono stato costretto ad andare a lavorare, per difficoltà economiche. Così, ho iniziato a fare lavori di edilizia, quello che è scritto oggi sul cartello, faccio il muratore. Lavori che, d’estate, facevo anche da piccolo. La mia emigrazione è un po’ volontaria, non è proprio stata motivata da cause di forza maggiore. Da noi non c’era lavoro, dunque si prova a migliorare la propria vita. Quando uno fa l’immigrazione, soprattutto, cerca qualsiasi lavoro. Perché è il lavoro che dà la possibilità di avere una casa, di cominciare a vivere, a costruirsi una vita. La base è il lavoro. Quindi all’inizio devi cercare proprio qualsiasi possibilità. Certamente, uno comincia da quello che sa fare, così ho fatto il muratore. Poi, quando non c’era più lavoro, sono passato alla ristorazione, facevo il cameriere e il lavapiatti. Poi, per avere un titolo di soggiorno, dovevi avere un lavoro regolare. Allora ho dovuto spostarmi dalla Liguria, dove stavo, e venire in Piemonte. Perché là i lavori erano tutti occasionali, precari, e in Piemonte c’erano più fabbriche. Il problema è che, anche se il Piemonte ha più fabbriche, io sono rimasto lo stesso precario. Non sono riuscito mai ad avere un lavoro fisso. Qui ho fatto l’operaio, l’operaio generico legato alla catena di produzione. L’ho fatto per cinque anni. Poi, sono tornato muratore, come lavoratore a “progetto”, in una ditta. Funziona così: quando finisce il progetto, loro rivedono la tua situazione; se c’è un altro progetto, forse ti riassumono, altrimenti ti lasciano a casa. Perché, magari, il prossimo progetto è piccolo e non ci vanno tanti operai. Così, in tutti questi anni in Italia, sono rimasto tra il lavoro precario e il lavoro a progetto, le cose non sono cambiate mai. Ho lavorato nella produzione dei prefabbricati, con un contratto di formazione di tre mesi, poi a produrre pezzi di automobili. Lì i contratti erano corti corti, di due settimane o di un mese al massimo. E alla fin fine, dopo un anno tu, quando guardi nei cassetti, trovi un sacco di contratti firmati, uno dietro l’altro, hai sempre questa angoscia se ti rinnovano o se non ti rinnovano, sei sempre costretto ad accettare ogni condizione. Non puoi dire che questo è un diritto che questo non è un diritto, devi sempre stare con la testa bassa, nel tentativo di ottenere un contratto. Di più ancora quando, nel 2002, è uscita la legge Bossi-Fini. Con un contratto, non potevi avere il permesso per più di sei mesi. Di questi sei mesi, il permesso rimaneva in questura per quattro o cinque mesi, quindi uno era veramente in regola solo più un mese, un mese e mezzo. Era una politica finalizzata a rendere l’immigrato clandestino. Questa legislazione, infatti, ha fatto perdere a tante persone il diritto di soggiorno. Quindi, uno doveva proprio cercare una via d’uscita, accettare di perdere la propria dignità per poter rimanere in Italia. Quindi quando uno è partito dal suo Paese sperando, sognando di cambiare vita, si trova in un posto in cui viene inserito automaticamente in un sistema di sfruttamento. Ti usano proprio come una macchina da produzione. Le altre dimensioni della vita non te le lasciano. Quello che dichiaravano, quando hai deciso di venire qui, che avevano bisogno di manodopera, come succedeva nel 2001, significava che questa manodopera doveva essere inserita nel mondo del lavoro alle loro condizioni. Non nel modo previsto dai trattati internazionali.
Se non fai così, perdi il soggiorno, diventi clandestino, sei fuorilegge. La persona si sposta per migliorare la vita e si trova che ha commesso un reato.
Io avendo imparato un mestiere, avendo una certa esperienza come muratore, pensavo di poterlo usare, di poter scambiare questa mia conoscenza con la società. Ma è un po’ difficile. In realtà alcuni rifiutano di far entrare gli immigrati nella loro casa. Per la paura che questi facciano un piano per prendere la loro casa. Da una parte si può anche capire. Sono bombardati dai mass media, dalla cronaca nera che racconta un fatto e la gente generalizza tutto. Mette tutto in un sacco unico. Allora, o si fa il lavoro umile, quello destinato all’immigrato, o un lavoro dove ci vuole proprio una competenza e una prossimità, una vicinanza con le persone, non si può fare. La professionalità non ti viene riconosciuta per paura che tu sia pericoloso. Così la massa della gente straniera va a lavorare in una fabbrica. Fa l’operaio generico, non fa una professione precisa. L’elettricista, l’idraulico, il serramentista, mestieri del genere non sono legati alla figura dell’immigrato.
Ho sognato il posto a tempo indeterminato. Ma per il mio comportamento, certo, era molto difficile che questo sogno si realizzasse. Io sono un ex studente ed è difficile per me accettare certe cose dell’ambiente di lavoro. Quando ti muovi sul piano dei diritti, il datore di lavoro ti considera una persona che non ha voglia di lavorare e che crea fastidio all’ambiente lavorativo. Un pericolo. Per questo un immigrato, magari con problemi e responsabilità personali (una moglie, dei figli, la spesa da fare; anche una famiglia in Marocco a cui mandare un aiuto), accetta qualsiasi condizione, per forza di cose. Perché la vita dell’immigrato è così. Non ha deciso di venire in Italia, non ha preso l’aereo o la macchina ed è venuto qua. Ci sono persone che hanno venduto bestie, pezzi di terra, per trovare la somma necessaria ad emigrare. Per pagare quello che gli ha fatto attraversare il mare. Si giocano tutto, si giocano la vita, anche. In queste situazioni non possono permettersi di pensare alle regole, lavorano finché li tengono, a qualsiasi costo. I padroni vedono che sono “macchine produttive” e li assumono, magari anche a tempo indeterminato.
Per me era difficile. Io sono arrivato in Italia perché l’ho scelto. Senza indebitarmi né affidarmi alle traversate pericolose. In questi 13 anni ho cambiato tanti posti di lavoro. Inizi ogni volta con la speranza di avere un contratto a tempo indeterminato ma vedi che ogni volta si interrompe, si fa il rinnovo, si interrompe di nuovo e così via. Stai a casa, fai il disoccupato. Finché non ti stufi, provi a cambiare, fai un altro tentativo. Così, in questo periodo di crisi economica, ho pensato di non essere più un operaio subordinato, di diventare un operaio autonomo. Utilizzando l’esperienza lavorativa precedente, mi sono aperto una partita iva e mi sono messo in proprio. È stato lì che ho scoperto un altro sistema di sfruttamento: il lavoro in subappalto, pagato poco e sovraccaricato di tasse. Non ti rimane in tasca che il salario minimo dell’operaio più basso della tua categoria. E allora.
I politici, invece di trovare il modo di riorganizzare il mercato del lavoro, hanno pensato bene di creare queste agenzie di lavoro, un caporalato organizzato e camuffato che svolge direttamente il mestiere dello sfruttamento lavorativo. Parlo delle agenzie temporanee. Nate negli anni Novanta, con la funzione di aiutare i giovani a scoprire il mestiere che avrebbero voluto fare da grandi, oggi sono diventate l’unico modo per trovare lavoro. Tramite quelle agenzie si perfeziona il sistema di sfruttamento. Avviene così. In quegli uffici, con tanto di scrivania, stampante, computer, vengono stipulati i contratti. Diventano, per il datore di lavoro, una ideale via d’uscita, un modo per non dover mantenere impegni nei confronti degli operai. Quando non piace un operaio per qualche motivo, basta una telefonata, un semplice messaggio all’agenzia e questo operaio scompare dalla loro vista. O te lo cambiano con un altro. O non ti serve più e allora finisce lì. In questo modo l’operaio diventa merce.
Mi è successo che l’agenzia mi chiamasse alle 12 e mi dicesse: «dove sei? Devi iniziare un lavoro alle 14». Dello stesso giorno. Che qualche volta ti fa ridere, anche. Non so come loro si permettano, però. A loro interessa, d’altra parte, fare proprio questo tipo di intermediazione, per guadagnare. Per legge, tu saresti il loro dipendente. Quindi, dovrebbero, in qualche modo, tutelarti. Invece, ubbidiscono alle richieste dell’ufficio personale della ditta interessata. Ecco il modo in cui si perfeziona lo sfruttamento, permettendo al datore di lavoro di non prendere impegni di qualsiasi tipo nei confronti degli operai. In tempi di crisi, la normalità è questa, nel mondo del lavoro dipendente. Una volta, il lavoro temporaneo vedeva un coinvolgimento diretto delle aziende, il colloquio, il contratto. Adesso, passa tutto tramite agenzia. Si fanno lavorare le persone fin quando e come servono e poi una telefonata basta a bloccare tutto. C’è anche un’ulteriore ambiguità: come operaio, ti trovi ad avere due padroni, uno per il lavoro visto da dentro (il capo reparto), uno per il lavoro visto da fuori (l’agenzia).
L’immigrato ha sempre svolto i lavori più umili. Comprensibilmente, anche. L’immigrato, del resto, è già pronto ad accettare qualsiasi lavoro. Anche il più umiliante, anche per più ore, anche nei festivi. Chi viveva qua, giustamente aveva imparato che la propria dignità era importante, si rifiutava di scendere a certi livelli. E quindi, sulla linea di produzione trovavi più immigrati. I marocchini oggi dicono: «soffriamo dal 2007, da quando sono arrivati i rumeni. Accettano qualsiasi tipo e condizione di lavoro». Prima, l’italiano lo diceva sicuramente di noi. Bisogna rispettare le regole del lavoro, bisogna conoscere diritti e doveri per saper dire quello che è nostro diritto e quel che è nostro dovere. Bisogna farlo tutti.
Oggi, con la crisi economica, la gente si adatta a trovare lavoro a qualsiasi prezzo. Adesso i giovani italiani fanno concorrenza agli immigrati. In tante fabbriche, sulla linea di produzione, trovi cittadini diplomati o con laurea breve. Non trovano lavoro e accettano qualsiasi possibilità. Non c’è altro modo, sembra. Ci sono contratti temporanei compatibili con ogni tipo di richiesta: si arriva perfino al punto che smetti di lavorare a mezzanotte e devi riprendere alle sei di mattina. Così decidi di fermarti a dormire nello spogliatoio, che non è attrezzato, lo spogliatoio non ha i letti. Quando mi hanno raccontato queste cose, proprio ho pensato che siamo tornati indietro di duecento anni. Quando si lavora, ti fanno lavorare come un matto, ti fanno un contratto di 6 mesi e sabati e domeniche, devi dire di sì, le agenzie stesse ti chiedono una disponibilità totale. Finita la produzione, ti mandano a casa, non ti conoscono più. Chissà se capita che torni.
Si può anche parlare del sindacato. In qualche realtà, per qualche categoria, esiste ancora. In altre, è assente. Per chi ha un contratto di lavoro a tempo determinato, in particolare, non svolge un ruolo di tutela. Prendi i problemi legati alla salute sul lavoro, per esempio. Uno si ammala sul posto di lavoro, per le condizioni in cui è costretto a lavorare, e ha un contratto a tempo determinato: non lo chiamano più, neanche quando è guarito. Si è ammalato lavorando, non è che ha fatto finta di ammalarsi. Se è successo così, la causa sarà il lavoro che stava facendo. La ricompensa, quindi, dovrebbe essere reintegrarlo. Il sindacato non tutela questo tipo di situazioni, il precario è di passaggio e non merita di essere difeso.
Era bellissima la frase del primo articolo della Costituzione italiana, «L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro». I pensieri che nascono dalla sofferenza, escono bellissimi. Esprimevano concetti che volevano fare un balzo in avanti, staccarsi, liberarsi da tutto quello che era stato fino ad allora, la guerra, il totalitarismo. La follia. Come l’articolo 1, era bello anche l’articolo 3, quello sui diritti, quello che diceva che lo Stato ha il dovere di rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono a tutte le persone che vivono nel Suo territorio di godere dei diritti fondamentali. Quelli universalmente riconosciuti all’essere umano.