GABRIELLA VERGARI.
Li hai visti arrivare, quella mattina d’agosto, allacciati per mano, evanescenti e fugaci come fantasmi trafitti dal sole, e muti sedersi, un po’ discosto dal mare.
Lievi, sui ciottoli, le impronte dell’uomo.
Più nette, irregolari e marcate a sinistra quelle della donna, incise al sostegno d’una stampella (appendice sbilenca, ma ormai naturale del corpo).
Stranieri, li hai giudicati.
Per la tonalità delle scarpe, l’uomo, lattee al pari del panama che gli fregiava la testa (insegna di idealità da poeta o di vaghezze latine), e gli tratteneva a stento i capelli dallo svolazzare in lunghe ciocche giallognole, quasi stoppiacee, quali solo il biondo più chiaro, se incanutito, sa dare.
Ma pure per quelle sue fattezze da elfo avvizzito, e l’atteggiamento delle mani ( lunghe, sensibili, nervose, mani senza dubbio d’artista), implicate in ampie e distaccate movenze, come fluttuanti in dimensioni a sé solo note.
Per il taglio del volto, la donna: duro, squadrato, quasi scheggiato nel quarzo. E la luce degli occhi, grigia di nordiche brume. E la trasparenza dell’incarnato, diafano ancora, seppure torbido a tratti di piccole macchie e di efelidi stinte. Ma soprattutto per il corpo, imponente e come statuario di bellezze snervate dall’insulto degli anni.
Al loro destino li avresti quindi lasciati se solo la donna, fatta leva sul braccio dell’uomo, non si fosse poi alzata, imprevedibilmente leggera, e lì per lì liberata dei suoi inconsueti vestiti (vestiti certo da straniera), per muovere al mare.
Non comunque per quel gesto ti saresti su di lei soffermato (un gesto semplice, comune, per nulla insolito su una spiaggia.)
Né per la lunga cicatrice che notasti solcarle, a sinistra, la coscia fin quasi sotto la natica.
Né per il portamento, nonostante tutto elegante, di cui sembrava dar prova, la donna, nell’avanzare, anche senza stampella, tra la fine lubricità della battigia.
Né per il modo (l’avresti detto conturbante) con cui, raggiunta l’acqua, si girò verso l’uomo, lì, ad una manciata di passi da te.
Solo per il richiamo, non sapesti allora se laido o nobilmente fascinoso, di quel grande corpo senile esposto, nell’integrale varietà delle sue umiliazioni, da dietro l’esile, sottilissimo schermo di un’impalpabile guaina di cotone bianco. Così, senza ritegno né retaggio di inibizione alcuna.
Indifeso, coraggioso, disarmante candore o estrema, seducente malizia?
E davvero, dinnanzi alla perentoria quanto inaspettata declinazione di quelle membra intristite, appena appena velate dalle trasparenze dell’indumento, non ti riuscì, allora, di trovare risposta.
Né sapesti cosa pensare dell’esibita sfioritura di quel seno ancora in qualche modo proteso di remoto turgore, dello sproporzionato gonfiore di quel ventre (ostentazione grottesca di perenne, improbabile pregnanza), prominente a tal punto, sul tessuto, da disegnarvisi intero e costringere il pube a farsi intuire glabro e rosato dall’incavo della sgambatura. Dinnanzi allo slancio vichingo di quelle gambe incongruamente intatte a fronte del resto, ancora belle e tornite da lasciarsi immaginare accavallate in pose sensuali.
Oscena provocazione? Sconcia profferta di consolante ricovero nel tepore d’un ultimo abbraccio? O mera protesta di innocente, essenziale natività?
Davvero non ti riuscì di trovare la risposta, proprio non ti riuscì, allora.
Senza mai distogliere lo sguardo dall’uomo, la donna si immerse quindi di lì a poco nell’acqua.
Dolcemente. E vi rimase a lungo a galleggiare, sorridendo, in giochi di spume (assurda, impudica, stravagante Afrodite).
Fu dunque a quel punto che ti volgesti anche tu verso l’uomo, rimasto completamente vestito alla vampa del sole. E lo vedesti, l’amore, frizzargli negli occhi e danzarvi come gru coronata ai bordi dell’acqua, leggero, quale desiderio sfioccato nel vento, ma inesorabile, totale e possente come maglio di ferro.
E infine capisti (o almeno ti parve). E ti sorprendesti a desiderarlo anche tu, un amore tale (era per la madre insieme e la musa? L’amante? L’amica? La compagna?…) Il più appagante, il più completo, l’ultimo in ogni caso.
Poi, uscita dall’acqua, la donna tornò lentamente accanto all’uomo e così, senza asciugarsi e nemmeno parlare, prese a rivestirsi pian piano.
Raccolta quindi da terra la stampella, attese che il suo compagno si rimettesse in piedi prima di prenderlo nuovamente per mano e tornare ad avviarsi.
Infine li hai visti farsi piccoli all’orizzonte. Sempre più piccoli. Fino a divenire una macchia. Un puntino. Più nulla.
(Il racconto è compreso nel volume: L’Isola degli elefanti nani, AG edizioni, Catania 2003)
Un altro racconto della stessa autrice si trova QUI
Questo è il link al suo blog
Foto di Bruna Bonino