(SILVIA PIO, a cura di)
Intervista con l’autore.
John, questo è il tuo primo romanzo?
In senso stretto, non lo è. Molti anni fa ho scritto un romanzo, anch’esso basato sulla storia di due giovani che appartenevano a classi sociali molto diverse. Il protagonista maschile ha la fedina penale sporca e questo alla fine mette a repentaglio la relazione tra i due. Ho stampato due copie del romanzo e le ho prestate, in tempi diversi, a due amici, uno dei quali è andato a vivere all’estero e ci siamo persi di vista. Il software che ho usato per scrivere è ora obsoleto, come il computer con cui ho scritto, quindi ho paura che quel romanzo sia ormai perduto. Se ricordo bene, non dovrebbe essere una grande perdita per la letteratura visto che il romanzo mancava di qualità abrasive, c’era poco conflitto e tutti i personaggi tendevano ad essere buoni.
Quanto ci hai messo a scriverlo?
Ho iniziato nell’estate del 2009. I primi capitolo derivarono da materiale di stimolo che avevo usato in una classe composta da quattordicenni. Cercavo di scrivere qualcosa di provocante che fosse vicino alla loro esperienza e che li stimolasse a discutere durante le lezioni. Durante le vacanze estive ho portato con me in vacanza i brani perché io stesso ne ero incuriosito: chi era questo tipo di nome Ricky Bell che era misteriosamente arrivato a scuola? Volevo scrivere e scoprirlo. Così ho scritto durante le vacanze e ho continuato una volta tornato a casa. Se la memoria non mi inganna, ho finito il manoscritto a dicembre dello stesso anno.
Che relazione c’è tra i personaggi del romanzo e quelli dei tuoi racconti contenuti in I was Ready to Fall in Love?
La relazione tra i diversi personaggi si trova nel fatto che tutti lottano con lo stesso problema: il complicato affare che si chiama amore e cercare di mantenere la fiducia e l’onestà nelle relazioni. Molti dei racconti hanno un’ambientazione e una prospettiva squallide mentre molti hanno rilevato la nota di ottimismo alla fine di Who the Hell is Ricky Bell?
Questa è forse la domanda che tutti ti chiedono: Chi cavolo è Ricky Bell?
Persino alla fine del romanzo penso che questa domanda sia legittima. Sappiamo molto di più di Sammy, il personaggio femminile, il cui comportamento iniziale da dura chiaramente non è il riflesso delle sue qualità interiori. Ma Ricky, a cui si deve molto della crescita di Sammy, rimane una specie di enigma. Da dove un sedicenne ha acquisito tale maturità ed equilibrio? E come, e quanto, ha affrontato i suoi propri demoni? Chi è questo tipo? Quel che so, come autore, è che mi sono affezionato molto ai due personaggi. Ci sono volte in cui si può disapprovare il comportamento di qualcuno, ma non per questo quella persona ci piace di meno.
E ora che succede?
Questa è la domanda che sono interessato a chiedere a coloro che hanno letto il libro. Ho il sospetto che i romantici vedano un futuro roseo per Ricky e Sammy mentre quelli che hanno una visione più hard-bitten potrebbero pensare che gli eventi della storia siano troppo difficili da superare per i personaggi. Per entrambi è la prima relazione seria e chi è realista si chiederà quanto le prime relazioni si mantengono nella vita reale. Ma visto che non c’è un seguito e non ho per ora intenzione di scriverlo, i lettori hanno il diritto di immaginare qualsiasi tipo di futuro per Ricky e Sammy.
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Di seguito la traduzione inedita del Capitolo 5
«Ho la chiave così ho aperto e sono entrata. Non sono contenti di questo perché mi dà troppa libertà, ma è colpa loro, lavorano con i turni più strampalati e le reperibilità, così ho dovuto farmi fare la chiave sennò avrei speso metà della vita seduta sullo scalino di casa gelido. Comunque Sarah, mia sorella – Madama Cagamai – ha una chiave pure lei e non ha ancora tredici anni. Mamma sembra piena di dubbi, ma Bob dice: “Sono sicuro che entrambe apprezzano profondamente questa responsabilità”. Lui parla così: “apprezzano profondamente questa responsabilità”. Sempre merdosamente sicuro si sé, sempre rassicurante, sempre a dire parole come “apprezzano profondamente”. Ecco un’altra parola che può apprezzare profondamente: testadicazzo.
Così ho aperto e sono entrata. Non ancora le dieci. Li ho sentiti parlare sotto il blaterare della televisione. Avevo deciso di sgattaiolare su in camera, ma non ho avuto fortuna.
“Sei tu, tesoro?”
“No, è Godzilla e una banda di suoi compagni”.
Niente da fare, dovevo mostrare la faccia. Mi sono affacciata al soggiorno ed era proprio come me l’immaginavo; erano seduti abbracciati sul divano: vomito, vomito, vomito.
“Ti sei divertita? Dove sei stata?”
Così fa Mamma quando cerca di non ficcare il naso dappertutto. Non posso spostarmi di un centimetro senza dover fare una relazione precisa dei miei movimenti.
“Fuori, dove credi che si stata?”
“Mi interesso soltanto, tesoro. Fatto niente di bello?”
Dio aiutami. Non c’è fine a questo interrogatorio. “Sì, sono stata con una banda di delinquenti, abbiamo assalito una vecchia e con i soldi abbiamo comprato droga”.
Silenzio. Chiaramente la mia arguzia non è stata apprezzata, ma mi ha messo in una posizione vantaggiosa che volevo sfruttare. “Senti, non sono ancora le dieci, sono a casa, ho fatto i compiti, non sto facendo casino e mi becco questo interrogatorio. Comunque, dov’è Sarah?”
“È andata dalla nonna, che non sta bene. È andata a dare una pulita e ad assicurarsi che la nonna mangi”.
“Buon per lei. Spero non abbia dimenticato di lucidarsi l’aureola”. E con questo ho girato i tacchi, sbattuto la porta e salito come un uragano le scale. Beh, ho detto uragano, ma avevo appena passato il quarto scalino, quello dove una volta ho vomitato, che l’ho sentito dire:
“Lasciala in pace. Almeno non è sbronza persa questa volta”.
Lo odio. Lo odio.
Arrivata in camera ho ricevuto un sms da Katie, che diceva solo: “Beh?”. A volte riesce ad essere una donna di poche parole, e a dire il vero spesso la preferisco così. Ci sono momenti in cui usa le parole come armi di offesa. Ma ora valeva la pena sentire cosa pensava e l’ho chiamata.
“Dove sei?” Avevo subito capito che moriva dalla voglia di sapere i particolari.
“A casa, nella mia camera”.
“Da sola?”
“Certo che sono sola”.
“Pensavo che avessi introdotto di frodo il Fusto Divino e l’avessi ammanettato al letto”.
“Che stupida sei, Katie”.
“Nudo”. Aggiunse senza motivo.
“Già, certo, ed ho interrotto un’orgia bestiale per telefonarti”. Ho fatto una pausa, non vedevo alcun male nel lasciarla sulla graticola ancora un po’.
“Dai, sputa tutti i dettagli più succosi”. Ero il burattinaio e lei ballava al mio ritmo. “È amore precoce? L’hai fatto entrare nelle tue mutande?”
“Ka – tie!” Ho sottolineato entrambe le sillabe e finto di essere scioccata. “Si deve mantenere una reputazione immacolata”.
“Davvero?” rispose. “Non riconosceresti una reputazione immacolata neppure se arrivasse di corsa e ti mordesse il culo”.
Vedete qual è il suo modo di usare le parole? Era ora che riprendessi il controllo. “Ascolta, siamo stati al centro commerciale. Lui era davvero incazzato quando mi sono fatta vedere. Ho deciso di arrivare in ritardo, se lo tratti male ti fai desiderare, come si dice. Ma poi si è calmato. Ho fatto del mio meglio, ho messo la maglietta verde”.
“La maglietta verde? Spero non te l’abbia sformata mettendoci dentro quelle sue zampacce”.
“No, senti, lo so che non vedeva l’ora, lo sai come sono fatti i maschi, ma io facevo l’indifferente. Abbiamo mangiato le patatine”.
La sentivo sbuffare. “Ah, mani unte! Che meraviglia”.
“Senti, Katie, saresti sorpresa, il nostro Mr Bell ha un lato sensibile. È molto protettivo nei confronti della sua sorellina, per questo è arrivato in ritardo: doveva stare con lei”.
“Anche lui era in ritardo?” Katie era troppo furba per non accorgersi di una balla del genere.
“Già, eravamo tutti e due in ritardo”. Stavo cercando di rimediare quando hanno bussato alla porta.
“Sammy?”
“Senti, Katie c’è mia mamma. Ti richiamo”.
Ho aperto la porta e Mamma era in piedi con due tazze di cioccolata. “Pensavo che ti avrebbe fatto piacere qualcosa di caldo”. Infatti era proprio ciò che volevo, non poteva arrivare in un momento più giusto, ma ovviamente si trattava di qualcosa di caldo più una chiacchiera perché ha chiuso la porta dietro di sé e si è messa sul letto. Ho bevuto un sorso e l’ho lasciata parlare. “Lo so che pensi che io sia una ficcanaso Sam, ma non lo sono. Voglio soltanto avere un’idea di dove vai. Tutti i genitori sono così”. Io conosco parecchi genitori che non sono affatto così, ma ho lasciato perdere. La cioccolata era una buona idea e la chiacchiera era come succedeva una volta tra me e Mamma. Una volta le dicevo tutto senza fare battute o rispondere male. Dopo un altro sorso ho deciso di metterla sulla strada giusta.
“Sto andando in giro con un tipo della scuola”.
“Esci con lui?”
“Fammi il piacere, no, soltanto siamo andati in giro nel centro commerciale, abbiamo comprato delle patatine e le abbiamo mangiate nel giardinetto”.
“Conosco questo tipo?”
“Non lo conosce nessuno”. Non sono riuscita a non ridere e Mamma si è sforzata di sorridere. “Ricky, Ricky Bell. È appena arrivato a scuola e non parla con nessuno”.
“Ma con te parla”.
“Beh, sì, eravamo in punizione tutti e due e lui ha detto qualcosa come vediamoci una volta così mi racconti della scuola”.
Mamma stava valutando il tutto: un ragazzo appena arrivato, non parla con nessuno e viene punito. Non credo fosse quello che lei sogna per sua figlia.
“Hai intenzione di vederlo di nuovo?”
“Può darsi. A lui piacerebbe”.
“Magari lo puoi invitare qui una di queste volte”.
Adesso toccava a me valutare: Ricky Bell appollaiato sul divano in salotto che rispondeva alle domande indagatrici di Bob-Boccalarga. Mamma sembrava aver letto i miei pensieri.
“Non dovresti essere così dura con Bob. A modo suo è preoccupato quanto me per quel che fai, e questo gli fa onore”.
Mi si drizzarono i capelli: “Ma non è mio padre, no?”
Ecco che lo faccio di nuovo, scaglio le parole come pietre durante una manifestazione di protesta senza pensarci un attimo, parole dirette a far esplodere un litigio galattico. Però Mamma mi ha sorpreso: mi ha preso la mano e l’ha tenuta stretta. Era una vita che non lo faceva.
“No, tesoro, non è tuo padre e non fa finta di esserlo. Ma ti dirò una cosa…” Era calma, non alzava la voce o cose del genere, “… è due volte l’uomo che era tuo padre”.
“Era?” Non mi sentivo calma come mamma. “Era. Non è mica morto”.
“No, tesoro, ma è passato remoto per noi e prima lo capisci meglio è”.
Mamma aveva detto una verità orribile e non riuscivo a rispondere. Papà si era dimenticato il mio ultimo compleanno e mi aveva mandato un biglietto d’auguri tre settimane dopo con scritto: “Ti telefono presto”. E una banconota da dieci sterline era svolazzata fuori dalla busta. Non ho ancora speso quei soldi, né Papà mi ha chiamata.»
John I. Clarke
(traduzione di Silvia Pio)
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