(SILVIA PIO, a cura)
Adolfo Zilli è un personaggio poliedrico che fa di tutto, nonostante dica che non fa bene niente. Si occupa di informatica nonostante la sua idiosincrasia nei confronti del computer. Fa grafica e illustrazione, musica e teatro, mette insieme proiezioni video. Spesso insegna agli altri come fare tutte queste cose.
Con un gruppo di amici, la Ghenga Fuoriposto, inscena spettacoli con i generi musicali più disparati, pubblicando videoclip che sembrano cartoni animati.
Ha lavorato in un centro diurno psicoterapico, e da questa esperienza sono nati i fumetti di 11 anni in Psichiatria, che hanno attirato la nostra attenzione.
L’abbiamo contattato e intervistato.
Ci parli di te?
Sono fondamentalmente un creativo. Non ho mai smesso di fare i “lavoretti” che ti danno da fare da bambino, e a 41 anni suonati non ho ancora capito cosa farò da grande.
Mi interessano tutti i modi di comunicare e se ne avessi il tempo li imparerei tutti, “lo svantaggio è che non faccio bene niente”, è un verso di una canzone che ho scritto per prendere in giro me e i miei simili.
Da piccolo volevo creare videogiochi. Negli anni ’80 per fare un videogioco dovevi essere programmatore, disegnatore e musicista. Poi sono nate le specializzazioni, ma io sono rimasto fermo con quel mito lì. Ma durante la scuola e l’università di informatica sono arrivato ad odiare i computer, così mi sono messo a suonare, recitare e disegnare. Come Timmy e Tommy, mentre Gimmy si costruiva la casa. Come la cicala mentre la formica faceva scorta per l’inverno.
Ma non ho ancora abbandonato nessuna di queste attività: sto registrando il quarto CD con la Ghenga Fuoriposto, sono regista e autore per la compagnia I Recidivi, e disegno il mio fumetto 11 anni in Psichiatria. In più mi sono riappacificato con l’informatica e mi sono messo a fare app e videogiochi. E insegno anche come farli: ultimamente mi sono inventato un laboratorio in cui i partecipanti creano un videogioco, partendo da pupazzetti fatti di pongo e fondali dipinti a mano.
Raccontaci in breve la tua esperienza al centro diurno psicoterapico.
Quando mi sono laureato cercavo un lavoro che mi portasse distante dal mondo dei computer, che consideravo ormai noioso e sterile.
Mi è capitato di andare a insegnare informatica di base e musica di insieme in questo centro ed ho scoperto che dietro a quelli che normalmente vengono definiti “matti” c’è molto di più: persone meravigliose, un ambiente molto “umano”, sociale e creativo, che come effetto collaterale mi ha anche curato. Si, mi sono sentito proprio “curato”. Lo ammetto,anche se nessuno me lo ha mai diagnosticato, ne avevo bisogno anch’io,
Di dove è venuta l’idea del fumetto?
La mia esperienza in psichiatria è terminata l’anno scorso. Un passaggio doloroso, dopo undici anni. A dire il vero volevo raccontare la storia del mio licenziamento. Ma prima era doveroso spiegare il bello di un lavoro simile. E poi mi sono perso in tutta questa bellezza delirante a tal punto da abbandonare la trama. Piano piano la rabbia è passata. Si è trasformata nei tratti sbrigativi di questo fumetto a puntate.
Hai esperienze precedenti nel campo?
Se intendi nel campo del fumetto no, per vari anni ho fatto le vignette per un quotidiano locale, ma non so se vale. Nel campo del disegno e dell’illustrazione ho comunque fatto molti lavori. Poi ho scritto e diretto numerose pièces teatrali, quindi questo fumetto mi sembra quasi lo storyboard per uno spettacolo con un budget infinito, e finalmente posso sbizzarrirmi a riempirlo di effetti speciali, attori e locations improbabili.
Come nascono le strisce?
Così, parlando con la gente. Mi ricordo qualcosa che è successo e me lo appunto. Poi lo aggiusto cercando di rendermelo più godibile, quando sono abbastanza convinto disegno il bozzetto a matita. Infine lo inchiostro usando uno stylus che mi permette di disegnare sull’Ipad.
So che questo ultimo passaggio a qualcuno può rovinare la poesia. Le prime puntate disegnavo tutto su carta e poi scansionavo la tavola finita. Ma tanto poi dovevo aggiustarla al computer e i risultati erano peggiori.
È la storia della mia vita: uso la tecnologia quando proprio non ne posso fare a meno. Cioè quasi sempre.
Cosa ti aspetti dal blog 11 anni in Psichiatria?
Sotto ad ogni puntata qualche manciata di pollici alzati sono il mio compenso.
Può sembrare poco. Ma ho immaginato che corrispondano ad altrettanti sorrisi strappati.
Non è poco.
Se poi arriva qualcosa di più, tanto meglio.