Duška Vrhovac: la poesia è un modo di (com)prendere il mondo

Copertina

ATTILIO IANNIELLO (a cura)
Duška Vrhovac, poetessa, giornalista e traduttrice è nata nel 1947 a Banja Luka (Bagnaluca), nell’attuale Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina, e si è laureata in letterature comparate e teoria dell’opera letteraria presso la Facoltà di filologia di Belgrado, dove vive e lavora come scrittrice e giornalista indipendente, dopo aver lavorato per molti anni presso la Televisione di Belgrado (Radiotelevisione della Serbia). Con 20 libri di poesia pubblicati, alcuni dei quali tradotti in 20 lingue, è fra i più significativi autori contemporanei di Serbia, e non solo. Presente in giornali, riviste letterarie, e antologie di valore assoluto, ha partecipato a numerosi incontri, festival e manifestazioni letterarie, in Serbia e all’estero. Membro, fra l’altro, dell’Associazione degli scrittori della Serbia, e dell’Associazione dei traduttori di letteratura della Serbia, è ambasciatore del Movimento Poeti del Mondo in Serbia. Ha ricevuto premi e riconoscimenti importanti per la poesia, tra cui: Majska nagrada za poeziju – Maggio premio per la poesia – 1966, Yugoslavia; Pesničko uspenije – Ascensione di Poesia – 2007, Serbia; Premio Gensini – Sezione Poesia 2011, Italia; e il Distintivo aureo assegnato dal massimo Ente per la Cultura e l’Istruzione della Repubblica di Serbia.

Duska 2014.

Che cosa è la poesia per te?
È una di quelle domande che non avrà mai una risposta completa e definitiva. Finché ci saranno i poeti e la poesia, questa questione rimane aperta alle generazioni future, per opporsi al predecessori, sovrapporre, integrarsi o arricchire. Sulla poesia e sui poeti hanno detto e scritto molti grandi letterati, soprattutto poeti. Anch’io ho dedicato versi a tali motivi e temi; probabilmente questi rivelano facilmente ciò che per me è poesia. Alcune delle poesie a cui mi riferisco sono: Poeti, Fame, A trovare la mia parola, Memento vivere, Contrappunto …
Ricordiamo qui alcune interessanti riflessioni sulla poesia scritte da grandi poeti del mondo, che hanno vissuto in epoche diverse, in diverse civiltà e culture, hanno scritto in diverse lingue, ma la vita di tutti loro era colma di poesia e (o) ad essa completamente dedicata.
Per Federico García Lorca «Poesia è l’impossibile reso possibile», e per Jorge Luis Borges: «Convertire l’oltraggio degli anni / In una musica, una voce e un simbolo», ma Juan Ramón Jiménez esclama: «Oh passione della mia vita, nuda poesia, per sempre mia!». Ungaretti, però, dice: «La poesia è poesia quando porta in sé un segreto». Mi piace la comprensione di Rabindranath Tagore che la poesia è «cibo della mente», e “la ricetta” di Pier Paolo Pasolini: «non parlar la parola ma la cosa».
Sui poeti con entusiasmo e rispetto speciale ha scritto il grande tedesco Johann Wolfgang Goethe:
«Ovunque il mondo è amabile allo sguardo,
ma meglio di tutti è il mondo dei poeti.
Luci risplendono di giorno, di notte,
su campi colorati, o chiari, o grigioargento.
Oggi per me tutto splende. Se solo durasse!».
e anche il grande francese Charles Baudelaire:
«Come il principe dei nembi
è il Poeta; che, avvezzo alla tempesta,
si ride dell’arciere: ma esiliato
sulla terra, fra scherni, camminare
non può per le sue ali di gigante».
La parola in poesia è imprevedibile e diversa, e porta il proprio significato-suono-segreto. Nel riverbero del momento creativo crea immagini che non sono di questo mondo, ma gli appartengono. Perché la poesia è il più alto livello artistico di utilizzo della lingua madre, così come altre lingue in cui il poeta scrive, privo di inibizioni ideologiche e oscure, un livello a cui il talento poetico rievoca parole scomparse, mentre ne crea anche di nuove. I poeti sono davvero i custodi dell’essenza della lingua capaci di migliorare, ecco perché non sono d’accordo con chi dice che la poesia contemporanea ha bandito la bellezza.
Dopo tutto quello che ho scritto, potrei dire che la penso nel modo più vicino a Wislawa Szymborska: che tutto può essere poesia, che la poesia è un modo di guardare e (com)prendere il mondo e la vita, la comprensione della propria esistenza nel mondo e il luogo di tutte le cose in esso, ma io “«ancora non so che cosa essa (la poesia) sia in realtà». Ma certamente è il modo del mio essere e una parte della mia missione, se la missione esiste.

http://www.fusibilia.it/?p=2778
https://www.facebook.com/notes/dona-amati/quanto-non-sta-nel-fiato-di-duska-vrhovac-articolo-su-politika/10152180821156681
http://eros-kairos.info/villa-giulia/
http://www.e-performance.tv/2014/07/eros-e-kairos-8-giugno.html

POETI

I poeti sono una banda
di presuntuosi vagabondi,
interpreti ingannevoli
del quotidiano e dell’eterno
ricercatori vani,
smodati amanti,
cacciatori di parole perdute
inseguitori di strade e mari.

I poeti sono giardinieri superbi
di intricati giardini regali,
precursori di deviazioni stellari,
messaggeri di navi affondate,
violatori di sentieri segreti,
magistrali riparatori
di Carri Grandi e Piccoli,
raccoglitori di polvere astrale.

I poeti sono ladri di visioni,
scopritori di utopie scartate,
ciarlatani di ogni specie,
degustatori di piatti avvelenati,
figli degeneri e di professione seduttori,
cavalieri che volontariamente
alla ghigliottina offrono la loro testa
eseguendo da se stessi la condanna.

I poeti sono custodi incoronati
dell’essenza riposta nella lingua,
amanti dei misteri insolubili
ammaliatori e provocatori,
sono i prediletti degli Dei,
assaggiatori di bevande portentose
e dissipatori vani
delle proprie vite.

I poeti sono gli ultimi germogli
della specie più sottile di esseri cosmici,
coltivatori di fiori bianchi interiori
e falsi creatori di mondi insostenibili.
I poeti sono interpreti dei segni perduti,
portatori di messaggi essenziali
e di avviso che la vita è inesauribile,
e l’universo un progetto mai finito.

I poeti sono lucciole sull’aia del cosmo,
conquistatori della grande fascia
di colori che fa l’arcobaleno
esecutori della musica sacra
da cui è nato l’universo.

I poeti sono invisibili interlocutori
nel silenzio sul senso e sul non senso
di tutto ciò che si vede e non si vede.
I poeti sono i miei soli veri fratelli.

***

FAME

La mia fame l’ho sempre sostenuta
l’ho cresciuta con le mie cure
dandole bacche infernali
e quei piccoli frutti enigmatici
per cui si dorme male.
Cosi con la fame
s’accese pure l’insonnia
e queste due fatalità benedette
mi resero abbastanza forte.
Ho percepito giochi dimenticati
melodie perdute
parole sottese
e quel parlare d’altre sponde.
Mi forgiai sull’orma,
quadro incorniciato nei tratti
della mia stessa ombra.
Ora la mia fame e così insaziabile
che non la sento più
e la notte così interminabile
che lungo sonno, mi pare, quest’insonnia.

***

A TROVARE LA MIA PAROLA

Tanti poeti hanno cantato già
come nel granello di sabbia si veda il mondo intero,
sul palmo l’infinito, nell’occhio la volta celeste
e come in un giorno ci può stare l’eternità.

Quanti hanno esaltato l’amore,
maledetto la sofferenza, la tristezza e il dolore,
descritto morte, inferno, casa felice e paradiso,
invocato l’immortalità dell’opera e del proprio nome.

Tutto detto, visto
intuito, tutto cantato,
nulla che non sia stato.

Allora io che ci sto a fare qui,
come la prima donna e il primo uomo,
come Dio stesso?

A dire quanto già detto?
A descrivere quanto già descritto?
A trovare la mia parola.

***

MEMENTO VIVERE

Mi limito a continuare
come fosse possibile
soltanto così
anima di sangue e carne
passo
rivolto
eternamente alla tristezza
dai primordi
vado toccando
sempre daccapo erba e terra
terra io stessa,
comprensibile e connaturata
alla lingua di piante e vento
nella poesia metto
quanto non sta nel fiato.

***

CONTRAPPUNTO

Dunque sono queste le immagini innate.
Una dopo l’altra l’hai messe su carta,
gli hai dato forma,
ombra, risalto di parole,
e avresti potuto usare carboncino,
pennello,
un dito,
e nell’argilla umida
o nella sabbia imprimerne l’impronta.
Non c’è fine alla tua gioia.
Finalmente oggi la poesia
è diventata arte totale.
Puoi presentarti davanti ai tuoi lettori,
davanti al pubblico curioso e avvezzo,
accompagnato a piacere
da musicista oppure bravo attore,
e produrre suoni,
agitare mani,
esibire pantomime di prima classe,
piangere, gridare, ridere,
minacciare, disperare,
giurare o implorare,
evocare tuoni,
tutto senza una sola parola.
Oppure puoi semplicemente sillabare,
lettera per lettera, una parola
in cui hai voluto mettere tutto,
anche se quella non esiste ancora
e tu, ovviamente,
non conosci tutti i suoi significati.
Proprio in questo consiste il culmine di tutto.
Sarai tu a crearla, e poi
agli interessati spiegherai
in modo appassionato
la cosa importante
che aveva da dire lo scrittore.
Gli esegeti dei movimenti d’arte odierni,
di quelli poetici in particolare,
hanno già detto che la poesia è tutto,
performance, gioco per gioco,
e multimedialità da gradire molto.
La poesia e di per se già tentativo
che l’uomo, di cui tutto è stato detto,
abbia lui stesso a dire qualcosa,
di sé, naturalmente.
Non è forse questo il tempo ideale per la poesia?
Puoi trasferire tutto facilmente su un cd
e infilare in internet,
rivolgerti al lettore globale,
alla moltitudine che valuta la sua esistenza
con la pratica del prender parte,
e al pubblico degli esperti,
incallito nel suo comodo restare in superficie;
cosi si realizza il sogno
sul tempo ideale e sull’arte totale.
Lingua che non parla,
autore insieme al pubblico,
tutti i mezzi di espressione superati,
traduttore e interprete superflui,
l’artefice si perde, cade nell’anonimato,
il fruitore diventa creatore.
Tanto è tutto nelle sue mani.
La scelta è come un voto finale.
E semmai ci sarà la discussione,
o un dilemma, nel frattempo,
i classici chiosatori letterari
diranno che è un esperimento,
più o meno riuscito,
o non riuscito,
o non diranno niente.
L’amico d’infanzia,
l’unico che ti è rimasto,
dirà sempre che sei il migliore,
il primo fra i primi,
eri cosi anche da piccolo,
talento puro!
Ma il tuo figlio più giovane
annuncerà come sia alquanto inutile la tua fatica,
esercizio di inclusione
nella comunicazione globale,
che presto veramente non avrà bisogno
né di interpreti né di traduttori.
Il pianeta intero parlerà
l’inglese dei principianti
che non va oltre la prima persona singolare,
il presente e l’infinito,
ma tutti si capiranno a perfezione.
Tanto ormai le sfumature non sono più importanti.
Complicano le cose, le sfumature!
Allora ti rimetterai a sedere nella stanza
e poiché la tua vecchia macchina Olivetti,
quella per il lavoro fine a mano,
l’hai già archiviata, regalata al museo patrio,
come oggetto storico però superfluo,
prenderai la matita, dimenticata per fortuna
da qualche ragazzino,
e come il primo uomo delle grotte di Altamira,
scriverai quello che proprio ora ti si manifesta
come ispirazione limpida e divina.
Il mondo non cambia, sei tu che cambi,
sei diventato ciò che non avresti mai voluto essere,
e di te le tue poesie non diranno niente.
In un tempo cosi fatuo, anche questo e qualcosa.

***

CI SONO PERSONE

Ci sono persone
con le quali non devi parlare
per poterle capire.
Neanche devi vederle
ne mandare regali
e nemmeno pensarci
ma ti rallegri quando
senza nessun permesso,
all’improvviso
non sai da dove
inaspettate
entrano nella tua vita.

Ci sono persone alle quali
senza aver scritto lettere
né aver risposto alle loro,
senza conoscerne indirizzo
o la lingua madre,
ti senti vicino.
Persone
così reali e presenti
da influire sulle tue stagioni,
sul ritmo della poesia,
sul colore della voce, sulla rima,
sulla scelta dei tuoi abiti,
dei ristoranti
o del cibo e del vino.

Ci sono persone
delle quali quasi non sai nulla,
niente più
di quanto tu sappia dell’uccello
che per caso, con un battito d’ali
ti cela l’orizzonte
mentre con lo sguardo assente
desiderando i cieli,
tu fissi quel non-dove,
ma i tuoi pensieri scendono
giù nelle viscere del mondo
e nelle tue,
nel buio impenetrabile,
nel lume profondo
portato da una mano invisibile
che a volte ti illumina la via.

Ci sono persone che
con una semplice e-mail
non accendono una lampadina
ma un piccolo sole
sul soffitto della stanza in penombra,
là dove ormai da giorni
non riesci
a deciderti
se abbia un senso
preparare ancora una volta la colazione
cambiare ancora una volta le lenzuola,
e ancora una volta arrovellarti
sul perché ogni cosa
debba accadere proprio così,
o sul dubbio che tu abbia sbagliato tutto,
e ora al punto in cui sei
per te non ci sia più ritorno.

Ci sono persone che
nel bicchiere vuoto
sul quale si riflettono incerte
le tracce delle tue labbra avvizzite
e l’umido della lacrima che ti sfugge,
versano il vino più inebriante
col loro tocco sottile,
proprio nell’attimo stesso
in cui la lancetta stava per scivolare
lì sul bordo
dove avevi segnato la fine
di tutto, del tutto.

Ci sono persone
immerse nei loro pensieri
che trascinano passi indecisi
vagando senza meta
per le vie della loro città
in un continente qualsiasi,
e disperando per il grigiore quotidiano
e per l’insensatezza del pianeta
privo di tutte le speranze,
si legano intorno al collo
proprio te,
come una sciarpa
della più bella e morbida seta
e per via di quel tocco impalpabile
o per la sfumatura gialla
del disegno di cachemire,
in quell’attimo sanno
che non tutto è perduto,
e qualcosa c’è ancora,
di meglio e di più,
e sanno
che non tutto è senza senso
come potrebbe sembrare.

Ci sono persone
con le tue stesse mani,
le cui dita tu
così spesso incroci
stringendole
spezzandole
e anche più spesso
non sapendo proprio
cosa farne,
che innaffiano boccioli
con amore e dedizione
nei vasi pitturati di fresco
sul loro terrazzo
o nel loro giardino,
o timorosi
portano a manciate
tenere erbe balsamiche
ai caprioli, che nobili
e impercettibili
attraversano il loro sogno
sempre più inafferrabile.

Ci sono persone
che quando si perdono
o si augurano la morte
o almeno di sparire per un po’
in un immenso
buco nero, cosmico,
e ignare
fissano al cielo lo sguardo
per scoprivi magari
un tuo sorriso
perduto da tempo,
invece di affogare
in un vortice profondo
del loro fiume natale, inquinatissimo,
semplicemente entrano
nel primo bistrot, ordinano una birra,
e accostando lentamente al bicchiere
le labbra cosi ravvivate,
impercettibilmente
ma con devozione
pronunciano il tuo nome.

Ci sono persone
estraniate da tutto
da tutti,
anche da se stesse,
che sono fuggite,
e hanno scelto un esilio,
che si sono lasciate tutto alle spalle
e rinnegato passato e futuro,
rimosso la fede nell’uno e nell’altro,
respinto persino la memoria
e camminando sul filo della lama
affilata in solitudine per anni
fino alla follia,
quando al limite estremo
nel punto di passaggio,
desiderando non essere mai più,
e che tutto cessi,
che il cielo sprofondi nella terra
e che anche la luce delle origini si spenga
insieme a quella del primo bagliore,
allora
si fermano semplicemente un attimo,
e qualcosa in loro,
chissà dove si muove
nella testa
nel cervello
nello stomaco, chissà,
allora sorridono
e sorprendentemente ti pensano.
Sì, esistono persone, ed esisti anche tu.

***

ISIDORA*

Isidora mia, da cinquant’anni
intrecci il chiaro di luna nel cimitero di Topčider.
Il grembo pieno di pioggia,
una manciata di terra sul volto.
Attorno uno sciame di lucciole,
guardie lucenti che fremono alate.

Ancora sola,
sogni una stanza bianca e un letto
ampio per il corpo
stretto per l’alito di vita.
Spesso vengo a trovarti,
a farti un segno di nascosto,
per non disturbare l’ala di rondine
sulla tua spalla.

Un pomeriggio sul tardi
anche oggi,
quando si va a rilento
e poi ci si ferma.

Ti vedo,
giù per il selciato
del sentiero sinuoso
stai scendendo con l’ultimo raggio.

Ti giri un momento
di sfuggita:
i Serbi non amano le donne intelligenti
le rispettano, ma non le amano.

Isidora mia, da cinquant’anni
intrecci il chiaro di luna nel cimitero di Topčider,
e dentro la mia stanza i tuoi compagni di viaggio
mi mettono la mano fredda sulla fronte,
e con la stessa ricetta mi prescrivono
per la febbre un farmaco, per l’anima un veleno.

* Isidora Sekulić (1887-1988), una delle più famose scrittrici serbe del XX secolo, sepolta nel cimitero di Topčider, rinomato quartiere di Belgrado. Nata a Mošorin, Vojvodina, dopo essersi formata alla Sorbona e a Budapest conseguì il dottorato in Germania. Insegnante di matematica in diverse citta della Serbia, fra cui Belgrado, visse da sola e in condizioni modeste. Scrisse romanzi, memorie di viaggio e saggi, sempre devota al suo popolo e alle sue tradizioni. Tradusse anche molto, specie dall’inglese. In questa composizione si fa riferimento alla sua raccolta di novelle intitolata Compagni di viaggio.

***

COSI HO SENTITO QUINCY*

Quella sera Granada splendeva
come una ragazza promessa sposa.
Al cielo saliva l’esultanza:
viva la poesia,
poesia es esperanza,
anche Dio,
guardandoci lassù
come bambini venuti da ogni dove
alla fiera delle vanità,
benevolo e paterno
aveva chiuso un occhio.

Quincy Troupe, fu lui quella sera
il primo a leggere la sua poesia.
Quindici minuti, che rottura!,
e la regola diceva:
una poesia breve a testa
ovvero due-tre minuti per poeta.

Fisico massiccio
tutto fatto di carne
nei suoi vestiti comodi.
Malgrado la sua faccia tosta
quel Nero ci sapeva fare.
Recitava versi scanditi
nel suo inglese americano,
tradotto in automatico
dentro la mia testa europea,
e per di più balcanica,
come con google translate
nella lingua globale,
suonava cosi:
Guardate, sono io l’America!
Non ho idea di quanto ne sappiate voi
né di quanto valgano i vostri versi vacillanti
nelle tasche vuote che voi avete,
tasche di inetti, di maldestri
di perdenti talentuosi,
ma ciò non mi interessa,
perché so che sono io il più grande!
E ora che mi avete dato l’occasione,
la sfrutterò, ve l’assicuro,
la sfrutterò per bene,
meglio di quanto possiate immaginare.
E mentre mi ascoltate,
lamentandovi dentro
e vezzeggiandomi,
ma tu guarda questo gringo assurdo!,
perché sono sfacciato,
e mi sono preso,
sottraendolo a voi, almeno
sette volte più del tempo
che mi avete riservato,
io invece,
con la mia lettura sexy
vi dico: sono io l’America!
E voi non avete il fegato
di dirmi Quincy Troupe stop,
perché solo tu
ti metti in mostra, ti allarghi,
quando c’eravamo accordati con decoro
sulla nostra parità?
E io continuo a recitare,
vi descrivo una mia nottata,
un mio stato d’animo,
e siccome ho la certezza che voi siete deboli
e fin troppo ammodo
per interrompermi,
ho deciso di essere il più grande,
il migliore,
e di farvi impressione.
La mia ragazza mi guarda dal pubblico,
dalla prima fila.
Lei mi somiglia
come si somigliano
quelli che si scelgono per affinità.
Anche lei è forte.
Non le scende un sorriso
dalle labbra carnose di donna nera
perché anche lei sa quello che so io,
sa innanzitutto che anche lei è l’America,
che noi, noi due, siamo la nuova America.
Perciò, adesso
che ho finito di recitare
e ho ascoltato in traduzione spagnola
tutta la lettura maledettamente noiosa
della mia poesia,
mi viene da urlare a squarciagola:
ve l’ho fatta a tutti!
ti sta bene America!
Ora io sono te!
Vi ricordate almeno un po’
del buon vecchio maniaco Allen Ginsberg?
Neanche lui sapeva
che saremmo andati a finire cosi,
noi Americani.
E può essere solo cosi,
non altrimenti,
perché voi siete tutti in trappola,
tenuti a freno nel vostro esistere-non esistere
a misurare ciò che e bene e ciò che non lo è.
Ciò che sono io è bene!
Ve lo dice il qui presente,
il poeta nero Quincy Troupe!

Cosi ho sentito Quincy,
in quella sera stellata,
al festival della poesia a Granada,
in Nicaragua, meraviglioso paese
che si sveglia e riscalda la speranza con la poesia
in questo mondo in trappola
che con spirito unanime aspira
a essere e insieme a non essere l’America.

* Quincy Troupe, poeta, scrittore e giornalista statunitense, e nato a Saint Louis nel 1939, ed e conosciuto anche per essere stato biografo di Miles Davis.

***

TU, SILVIA*

Tu, Silvia,
quella notte t’infilasti nella mia stanza
e ferma fino al dolore mi dicesti
di fare i bagagli senza attendere
di lasciare su due piedi il grigiore della citta
i convegni ammuffiti dei contemporanei
di uscire subito, senza pensarci,
dal guscio logorato della casa putrida
e di non essere docile con tutti.

Mi hai seguita come uno spettro
mentre raccattavo i pezzi per casa,
senza i quali non avrei affrontato il viaggio,
in un improvviso esilio
che non finisce mai
se non te ne vai in tempo.
Mi lanciavi frasi di coraggio
liberta e coscienza
ma tremavi come un rametto
di corniolo al vento di tempesta
e le tue parole si spezzavano in sillabe
senza senso né significato.

Tu, Silvia,
sei stata un crudo gendarme
deciso a spararmi in fronte
e se necessario al cuore
a sparare finché il mio orecchio non si aprisse
a quei suoni, voci e note
che ti avevano già spinta alla pazzia
stravolgendo tutti i tuoi pensieri
e l’ultimo meandro del cervello
verso il lato funesto della mente in ombra
verso il volo del condor senza ali
e la fuga nella miniera
sul fondo dell’oceano smisurato
dove si può trovare ancora
il granello di protosabbia,
la lettera di protoparola.

Tu, Silvia,
tu, sorella crudele e senza pietà
madre e assassina della tua razza
mi obbligasti a un empio gioco
attrice del mio spettacolo
regista della mia commedia.
Ma una cosa, non hai potuto fare.
Non sei riuscita a entrare
nel luogo placato del mio sogno
non ti azzardasti a scendere fino all’innocenza
non osasti prendere con te il mio dolore.

Abbandonata alla follia
qualche volta ti sei persa
in brevi istanti, ballando un ritmo sfrenato
sulla soglia dove la luce si riflette
e da là, ovunque ti rivolti,
ne uscirai ridotta in pezzi.
Perdendoti così
mi salvasti dall’inferno di un’ultima cena
e dal peccato imperdonabile
dell’amore tradito.

Tu, Silvia,
che sola sapevi il senso del mio andare
la melodia del mio canto
e le ultime parole della mia preghiera
non mi hai scordata e sei di nuovo qui
travestita, trasformata in mito
un diktat che sempre esiste nelle vene
e mi segui come un tempo ancora.
Non lo sguardo, né l’ombra sotto lo sguardo
né l’urlo inconsolato al sole
né il colore della tua voce è cambiato.

Ma io non sono più, quella dei giorni andati.
Io spaccai la brocca alla fonte stessa.
Io ho spezzato il serto di margherite bianche
e versato lacrime nel Lete, non nel Giordano.
Io conoscevo la porta verso me stessa
sebbene non avessi la chiave della Fede salda.
Adesso non sono né Figlia né Madre né Amante
ma solo carne ordinaria e corruttibile
e sangue che si aggruma,
eppure il mio pensiero splende.

Ora di nuovo in questa stanza, sono venuta
a prendere gli stracci rimasti,
innaffio i semi germogliati dell’erba medica
tolgo le ragnatele dai muri incupiti
consolo le ombre di quelli che ho offeso
e ti prego di non entrare più.
Rimani dove sei, dietro al varco del tempo.
Non aprire un’altra volta questa porta
perché il suo cigolio potrebbe risvegliarti
dal sogno a cui ti sei a stento consegnata.
Non accendere la vecchia luce sopra nuove circostanze.
Non spezzare la ragnatela trasfusa in cristallo liquido.
Questa volta, sorella, me la caverò da sola!

* Sylvia Plath (Boston 1932 – Londra 1963), poetessa e scrittrice statunitense, è stata l’autrice che più ha contribuito allo sviluppo del genere della poesia confessionale.