GABRIELLA MONGARDI.
La nuova edizione dei Canti brevi di Nino Oxilia, a cura di Patrizia Deabate, appena pubblicata a Rivoli da Neos edizioni, fornisce l’occasione per la riscoperta di un autentico poeta, nelle antologie scolastiche oggi appena ricordato tra i poeti crepuscolari torinesi, eclissato com’è dal ben più celebre Guido Gozzano.
La prefazione della Deabate delinea con efficacissime pennellate la poliedrica personalità dell’autore, una ‘leggenda’ per i contemporanei, e il suo singolare destino postumo, la triplice damnatio memoriae. Nato a Torino da famiglia savonese nel 1889 e morto combattendo sul monte Tomba durante la Prima Guerra Mondiale nel 1917, fu ai suoi tempi un mito per i successi come uomo di teatro e di cinema, per il suo amore con l’attrice Maria Jacobini e per l’eroica morte in battaglia. Per il teatro fu coautore con l’amico Sandro Camasio della fortunatissima commedia Addio giovinezza! (1911), che tre anni dopo fu trasposta in un’operetta musicata dal maestro elbano Giuseppe Pietri e rappresentata in tutta Europa, in Sudamerica e in Australia. Come regista cinematografico, prima a Torino e poi a Roma, diresse le dive più belle e famose del tempo: la Deabate ricorda che quella fu l’età d’oro del cinema muto e che i film italiani si vendevano a scatola chiusa in tutto il mondo, giacché erano l’essenza della cultura simbolista, crepuscolare, decadente e d’avanguardia. Ma proprio la rapida ‘obsolescenza’ di queste due forme espressive – l’operetta e il film muto – trascinò con sé il nome di Oxilia nell’oblio. La terza causa di damnatio memoriae fu l’Inno dei Laureandi, composto nel 1909 con musica di Beppe Blanc per una festa di addio agli studi degli universitari torinesi: la canzone piacque tanto che durante la Prima guerra mondiale diventò inno degli Arditi, fu cantata a Fiume durante l’impresa di D’Annunzio e infine fu trasformata nell’inno del Partito Nazionale Fascista. Popolare come un inno nazionale negli anni del regime, finì ovviamente nella polvere con il fascismo…
Il 1909 - l’anno del primo Manifesto futurista di Marinetti – fu anche l’anno in cui vennero stampati, a spese dell’autore, i Canti brevi, poesie dell’adolescenza per ovvie ragioni anagrafiche, poesie della ‘boheme’ torinese, delle prime delusioni d’amore, delle amicizie, degli aneliti e degli scontri di un adolescente – come dice la Deabate, ma sicuramente si può condividere il giudizio del primo recensore: «C’è un poeta in questo libro». Non solo: il giovane poeta ha piena coscienza del valore dei suoi versi, che in una lettera all’amico Ernesto Cazzola definisce, senza falsa modestia, assai belli. Con grande discrezione, la curatrice si impone di non guastare al lettore il gusto di leggerli, limitandosi perciò a tratteggiarne brevemente il profilo. Ma le sue indicazioni sono naturalmente una preziosa, imprescindibile guida alla lettura.
Il libro è suddiviso in sette sezioni con intenzioni poematiche, stante che all’interno delle singole sezioni – la prima e l’ultima aperte da un ‘prologo’ – i testi sono collegati gli uni agli altri da evidenti riprese tematiche. In totale troviamo 62 liriche in metro vario: accanto ai sonetti (che occupano interamente la prima, la quarta e l’ultima sezione, con studiata simmetria) si trovano metri più liberi, o “barbari”, che sulle orme di Carducci, Pascoli, D’Annunzio e della Scapigliatura cercano la rottura con la tradizione in nome di una poesia ‘moderna’, adeguata al nuovo secolo. Lo stesso si può dire di certi temi ‘scandalosi’, come quelli delle poesie erotiche o ‘maledette’ delle sezioni 5 e 6; lo stesso vale per la sintassi spesso ambigua, per la punteggiatura carente, come se il poeta cercasse di liberarsi da una camicia di forza – e questo può spiegare l’amore per il mare, la sua presenza così preponderante che la Deabate rileva.
Il mare, con cui la raccolta si apre e si chiude, è il Caos: il luogo della massima, indistinta libertà, anteriore ad ogni scelta e delimitazione; il mondo informe in cui tutto è ancora possibile perché contiene tutte le forme; l’adolescenza, l’età in cui si concentrano in modo disordinato e confuso tutte le potenzialità della vita. E in questa smania di vita il poeta si dibatte, si dispera, si sente perduto, trascinato da forze più grandi di lui (lasciar che ci trascini e vento e mare), ma trova in sé la Poesia.
Il tema del canto è esplicito all’inizio e alla fine della raccolta: compare nelle poesie di apertura, associato al mare e al fiume del tempo, e nell’ultima sezione, come un destino forse mancato (Demone o Dio? Qualcosa entro me era, / qualcosa d’impossibile a spiegare; Ero nato a cantar l’ombra e la sera […]Avrò mancato tutto), un prezioso lascito dell’infanzia, un desiderio struggente dell’anima oscillante tra passato e futuro, tra il canto dell’antica Ellade e il triste canto del poeta, proiettato nel tempo che non vivrà.
Ma altre liriche ci dicono i caratteri della poesia di Oxilia (e di tutta la Poesia): Dal mio balcone scruto. Sotto di me s’accende / vibra, pulsa, spasima la vita. E ancora: O mio cuore, o mio cuore dai fremiti selvaggi / che a la voragine guati [..] Ascolta ancora e sempre. Pria di cader nel buio / discernerai le voci. Perché al poeta si richiede violenta intensità di sentire e insieme distacco, per distinguere – e fondere nella musica dei versi – le mille voci discordi della vita. E Oxilia rivela un orecchio straordinario, attentissimo a cogliere e rendere, tra realismo e audaci sinestesie, la dimensione sonora del mondo naturale e urbano e interiore: le plumbee onde mugghiando ànno richiami orrendi; Van le rondini con tinnule risa; Un gran rumore sordo. […] Campane. / Schioccar di fruste. Un tinnire perenne; il fischio dell’egoismo,[…] le melodie dell’odio; da tutto ciò che amo, / odo una voce che mi chiama indietro.
In questa raccolta Oxilia dà una sua personale versione del crepuscolarismo, mescolando tonalità sentimentali, malinconiche e intimistiche a colori più cupi, pastosi, graffianti che anticipano il suo accostarsi al futurismo, testimoniato dal componimento Il saluto ai poeti crepuscolari, incluso nella raccolta postuma Gli orti (1918): un poeta è sempre in ricerca inquieta della Bellezza, e rifiuta le etichette e le classificazioni…
Terminata la lettura dei Canti brevi, non si può non concordare con la conclusione della Deabate, che riporta le parole di Vittorio Martinelli: «Nino Oxilia è stato un poeta che ha applicato la sua poesia alle commedie e alle pellicole». E rimane la curiosità di sapere quale sia uno dei più famosi romanzi pubblicati negli Stati Uniti da uno scrittore innamorato della giovinezza e di Hollywood, in cui si ritrova l’ultima poesia di questa raccolta. Speriamo che Patrizia Deabate ci racconti presto quest’altra storia.
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