Seconda puntata - Umane miserie in attesa del monaco
FRANCESCO PICCO
La fila dei malati era lunghissima. Tutti aspettavano di entrare nel monastero armeno e imploravano la grazia di farsi ricevere dal monaco guaritore. Viktor scoprì in quell’occasione una cosa a cui non aveva mai pensato: il confine fra nobili e poveri sta nel fatto che hanno due diverse concezioni del tempo. Quando indossava i suoi abiti di signore Viktor aveva la consapevolezza di dominare il tempo. Ora, invece, vestito da contadino malato si trovava a subire il tempo senza poter influire sul suo passaggio, come sempre succede ai poveri. La consapevolezza di questa diversa percezione lo stupiva e non riusciva ad impedirsi di fissarci sopra il pensiero con una stupefatta morbosità.
Se si fosse presentato con gli abiti da nobile e da medico occidentale, se avesse preteso udienza immediata parlando francese, sarebbe entrato subito passano davanti a tutti quegli straccioni malati in attesa. Forse. Oppure sarebbe stato subito respinto, in malo modo, dai monaci guardiani. Poteva andargli bene o male, ma in ogni caso l’intera faccenda non avrebbe richiesto più di mezz’ora. Tutto il resto della giornata sarebbe stato a sua disposizione. Ai suoi ordini: come Sergej.
Il suo giovane valletto russo lo osservava quasi incredulo, appoggiandosi mollemente alle transenne che delimitavano il percorso della folla. Anche per Sergej si trattava di un’esperienza nuova. Di solito i suoi vestiti, paragonati a quelli di Viktor, denunciavano chiaramente la loro rispettiva condizione sociale: Viktor comandava e lui eseguiva. Era una regola inscritta nell’abito.
Adesso, là in fila davanti al monastero, la situazione appariva ribaltata. Sergej era vestito da modesto proprietario terriero. Plebeo, certo, ma pur sempre libero e dotato di una dignità sociale da difendere. Viktor invece indossava abiti da vero pezzente. Il suo aspetto da adolescente emaciato aveva trovato una perfetta collocazione tra i pietosi casi clinici che aspettavano di entrare nel monastero armeno avanzando a contatto con la terra.
C’era un vecchio storpio con una sola gamba, gonfia a dismisura e avvolta in fasce di tela lurida intrise di sangue e di fango. Viktor, incurante del cattivo odore, lo aiutava di quando in quando a spostarsi. Ad affiancarlo in questa attività si era presentato spontaneamente un ragazzino rachitico che ogni tanto iniziava a tossire convulsamente finché sputava sulla neve un grumo nerastro e poi, quasi scusandosi, sorrideva. Emottisi, pensava Viktor tra sé e sé in incognito, prima che la visione delle donne lo distraesse dall’osservazione del giovanissimo tisico. Molte erano le vecchie in attesa con un fazzoletto in testa, alcune grasse, le più magrissime. E moltissime le giovani che tenevano per mano un bambino storpio, o una bambina cieca, o un ragazzo deforme. Alcune delle madri erano esse stesse ragazze, per non dire bambine. Fu colpito da una con i capelli rossi sporchi e unti, che aveva forse sedici anni; ma il seno avvizzito con cui stava cercando di allattare un bambino urlante sembrava quello di una sessantenne. Denutrizione, ecco la diagnosi. Ma intorno! Ematuria. Mutilazioni. Demenza. E di nuovo denutrizione. Oligofrenia. Epilessia. Cachessia. Da denutrizione! E vicino rachitismo. Cancro. Lebbra…
Lebbra? No, lebbra no, non era possibile! Addirittura lebbra…e in un paese così freddo! Non poteva essere lebbra. Viktor decise di avvicinarsi all’uomo con la faccia distrutta, da cui tutti stavano lontani. Mentre procedeva verso di lui, diede un’occhiata a Sergej e vide gli occhi azzurri del suo valletto traboccare di terrore.
Ebbene sì, Sergej. Il tuo padrone piemontese è un pazzo! Ancora non te ne eri reso conto? Peccato! Quel dommage! Kak žal’! Altrimenti ora saresti qui, al suo fianco, e lo aiuteresti a tradurre quel che dice il presunto lebbroso.
Viktor parlava male il russo. Il vecchio pezzente con la faccia ricoperta di escrescenze tuberose tumescenti sembrava parlarlo peggio di lui. Ripeteva sempre una parola, prorók. Era l’unica parola di quella conversazione che Viktor capisse: voleva dire profeta. Ma le altre che il vecchio inseriva ripetutamente nel discorso, nabí, kabir, mansur, salim…non gli sembravano russe per niente e, comunque, erano al difuori della sua portata. Un po’ come la sua condizione di malato: la patologia del vecchio gli sfuggiva. Così Viktor, sconfitto nella lingua e nel pensiero, ritornò al suo improvvisato riposo disperato fra sentiero e fango.
Scoprì così che la fila, insensibilmente, si era mossa – e di molto. Ormai le bellissime pitture bizantine del portale d’ingresso si potevano vedere chiaramente. Persino Viktor poteva leggerne le iscrizioni in paleoslavo – e decifrarle anche senza Sergej. Ma Sergej c’era: era alle sue spalle e gli diceva di fare attenzione. Parlava francese, ora, Sergej: il suo concitato francese da battaglia, che esumava come gli aristocratici russi per non farsi capire dalla feccia russofona che lo circondava. Vous êtes un de mes paysans, n’oubliez pas ça, monsieur le Comte.
Certo Sergej, Viktor nella finzione era solo contadino alle tue dipendenze. Ottima cosa ricordarglielo per evitare passi falsi. Ma forse non sarebbe necessario. Quel bagno nella povertà e nella malattia stava dando a Viktor, in maniera sensibile, la percezione dei suoi limiti e lo stava educando a non eccedere nell’orgoglio.
Comunque la fila cominciò a procedere più speditamente. Quasi senza accorgersene Viktor e Sergej si trovarono – con centinaia di altre persone – all’interno di in un’enorme sala dalle pareti di legno, con un magnifico soffitto a volta decorato di vivaci soggetti religiosi. Tutto coloratissimo, in stile rigorosamente bizantino. La bellezza di quel luogo contrastava in maniera singolare con la vociante disperazione della folla che vi si era radunata. Il volume del chiacchiericcio cresceva, amplificato dall’acustica della sala. E continuò a crescere finché improvvisamente da una porta dorata sul lato sinistro fecero ingresso i monaci guardiani, tre giovani con i capelli neri. Avevano lunghe barbe intrecciate a incorniciare i volti severi, impassibili, ieratici. Su quei volti pallidi e maestosi tutti gli sguardi della folla si concentrarono simultaneamente. Il più alto dei tre monaci guardiani – alto almeno quanto Pietro il Grande – schioccò le dita della mano destra. Viktor si chiese che senso avesse quel gesto. Lo capì quasi immediatamente. La sala infatti piombò nel silenzio. Perfino i bambini smisero di piangere. I pazzi e gli indemoniati cessarono di urlare. Si sentiva ancora il gorgoglio sommesso di qualche respiro malato, il singhiozzo soffocato di qualche bambina. Ma ben presto cessarono anche quelli.
(Continua)
Illustrazione di Franco Blandino