RAFFAELLA GRISERI
È un uomo assente anche a se stesso che incespica nel suo incedere, nel suo passo incerto e interrotto, quasi un filo invisibile lo trattenga impedendogli di avanzare. Nei suoi occhi sbarrati traspare un vuoto, una distanza, occhi opachi come le alghe ma come queste capaci, nel fluttuare, di riflettere la luce orizzontale di un pomeriggio d’inverno. Una distanza dalla realtà che rasenta l’evaporazione, una significativa evanescenza di un animo offeso dalla vita. Un dolore che si è compattato nel tempo ha plasmato i lineamenti contratti del suo viso, dettato incertezza ai suoi movimenti e suggerito quell’ottundimento dei sensi che dissolve dentro di sé ogni volontà, ogni desiderio.
Ma oggi ha appoggiato l’unica tazza da thè accanto al sorriso immobile e assoluto riquadrato d’argento e stirato con cura polsini e poi maniche, colletto e tessuto bianco, cautamente tolto i due maglioni di lana pesante appartenuti ad un corpo più giovane, acquistati ventidue anni prima, quando si era fermato il tempo, e indossato quella camicia delle sue limitate occasioni di uscire da una casa con le volte così alte da non fargli sentire la necessità di spazi aperti, da contenere così tanta aria da fargli considerare ogni volta l’indifferenza della vita che gliel’aveva negata, quell’aria, nell’unico istante in cui ne aveva avuto bisogno. Cammina, nella sua solitudine cercata e raggiunta, rasentando i muri, rattrappito di timidezza, annichilito dal timore di imbattersi nelle realtà altrui, in altre storie, altri pensieri e dolori, eventuali dialoghi che non potrebbe sostenere, lui che non parla da tanti, troppi anni. Non saprebbe più articolare la voce, richiamarla da un passato in cui era il suo vanto, modulata e calda, sussurrata o stentorea come il caso richiedesse per mantenere alta l’attenzione di una moltitudine giovane.
La mano sinistra stretta in un pugno immobile nella tasca del cappotto, la destra, dita da ragno, appoggiata su un bastone da passeggio dal manico ricurvo. Percorre il tratto di strada pedonale fra la sua abitazione e la sede espositiva con lo sguardo abbassato sulla pavimentazione storica, concentrato sulle fughe dei lastroni in pietra di Luserna dalla superficie scabra, che hanno, una dall’altra, larghezze un poco diverse e talvolta non costanti su uno stesso profilo del blocco: quest’irregolarità lo infastidisce, come ogni altro scarto dalla regola, e ricerca allora nel disegno complessivo della pavimentazione elementi di simmetria ed ortogonalità, bellezza e ordine che mantengano in sufficiente equilibrio il suo pensiero e respiro.
Una donna in direzione contraria, passo deciso e cappotto aperto, distratta da una vetrina, lo urta con la borsa. Lui contrae impercettibilmente le spalle e desidera più forte di essere invisibile perché non si rivolga a lui per scusarsi. Lei prosegue incurante, esaudendo, inconsapevole, il desiderio dell’uomo.
Con gli occhi sfocati un poco oltre vede i tre gradini e poi la porta della chiesa dove ha appuntamento con un’armonia che sciolga in lui una delle tante emozioni congelate. Ha ricevuto l’invito. Non si sono dimenticati del vecchio professore di letteratura latina e si è augurato, con il consueto brivido di dubbio, di permanere sempre in quell’indirizzario.
Colma, con qualche incertezza, il dislivello della gradinata ed entra nella chiesa romanica. L’accoglie la consueta atmosfera raccolta e protettiva che invita ad avanzare. Si ferma, guarda in alto l’immobile grandezza che pare suggerirgli la ridicola brevità delle singole vite che sono entrate e poi uscite per quella porta mentre l’edificato in pietra resisteva al tempo. Risponde con un cenno del capo al saluto del ragazzo incaricato della sorveglianza e apprezza, sollevato, che nessun altro sia in visita alla mostra. Un suono di violini, un crescendo, lo sottrae per un istante all’attenzione posta sulla prima di quelle tele, senza cornice, di piccole dimensioni. Avanza trovandosi per un istante nel pulviscolo della lama di luce obliqua proiettata da un’apertura. La pietra della pavimentazione è ruvida, come le pareti, come la sua pelle. Ed impolverata. Le fanno contrappunto, come i violini ai tamburi, i pannelli dell’allestimento di legno bianco dal disegno semplice e rigoroso. Al centro di ognuno un’opera, un volto acerbo. La pittura ad olio vivida, dettagliati gli orpelli, figure bellissime, delicate e lontane richiamano il dolore acido dell’assenza. I visi infantili che sta osservando lanciano il loro sguardo molto oltre la sua persona facendosene beffa, con una grazia impudente che inchioda l’osservatore, lo trattiene con fili sottili che uniscono realtà lontane, con volute di significato e di languida approssimazione d’esistere nella triste bidimensione. Avrebbe preferito non ravvivassero immagini che lui sedimentava nella stanza buia della sua mente a cui gli anni aggiungevano chiusure e distanza per allontanare labbra morbide e infantili e il profilo della mascella e la pelle bianca con le vene azzurrine sulla quale tante volte, lei addormentata, aveva indugiato, commosso dalla delicatezza e fragilità. Non ravvivasse un amore che lui disgregava in silenzio, con dedizione meticolosa, quanto bastava per arrivare a sera senza impazzire.
L’uomo è ora trattenuto da un’acconciatura raccolta, da uno sguardo grigio un poco abbassato, da labbra socchiuse che hanno appena finito di dire. Il collo esile e le mani delicate e un poco ossute come quelle di lei. Con il respiro trattenuto e una contrazione nuova sul viso si ritrova in quell’acqua che vortica strappandogli dalle mani una figlia, in quell’onda salata e percorsa da spine di sabbia, più dura del cemento, tagliente come vetro, e pure fluida e mobile in cui si era tuffato con un unico pensiero uscendone senza: la mente svuotata, come la sua realtà, in vita suo malgrado.
Si sposta di lato. Osserva e tutta quell’acqua ora è dentro di lui, nella sua testa, ad annacquare la sua volontà razionale. Apre il cappotto, scioglie la sciarpa e si appoggia con entrambe le mani al bastone, si avvicina alle tele. Ondate di ricordi dilagano confusi. I visi sui pannelli si allacciano a quello seppellito in lui. È un’immagine lontana, sbiancata dal tempo e corrosa dalle lacrime e dai silenzi sterili.
Ora non sente più né violini né tamburi, i colori si confondono deformando le immagini. Sente quel dolore, che si è sforzato ogni giorno della sua vita di allontanare quanto basta per respirare, investirlo come una colata di ferro, fuso e gelido al contempo. Si sente perduto, aspirato in un gorgo di follia.
Apre gli occhi e vede il ragazzo piegato su di lui, l’espressione allarmata, i modi gentili. Li richiude.
(foto di Eleonora Porcaro)