Elementale, Emily. Aria, acqua, terra, fuoco nella poesia di Emily Dickinson

dickinson-meridiani

GABRIELLA MONGARDI.

Per entrare nel regno della poetessa Emily Dickinson (Amherst, Massachussets, 1830-1886), la strada che seguirò – una sorta di accesso facilitato – sarà costituita dai quattro elementi (aria acqua terra fuoco) che gli antichi filosofi greci, e dopo di loro gli alchimisti rinascimentali, consideravano l’origine di tutto, i primordi delle cose; e di cui nel Novecento la psicanalisi junghiana ha sottolineato il valore simbolico, inconscio, che esercita un fascino potente sull’uomo. Margutte ne ha parlato QUI

I quattro elementi sono ora argomento primo delle liriche, oggetto di descrizione diretta e sontuosa, sempre originalissima, ora sono invece utilizzati come termini di paragone, ma in ogni caso il loro significato è emblematico, in quanto rinvia sempre ad una realtà “altra” da quella naturale.

E cominciamo dall’aria.

Dickinson 1La prima strofa definisce l’aria per sottrazione, togliendole “caratteristiche” tipicamente umane che per la poetessa risultano in qualche modo limitanti, causa d’apprensione, d’affanno. Può quindi concludere con l’esclamazione: «Oh, aria felice!», proiettando sull’aria il suo bisogno di liberazione e di leggerezza. Più ermetica la seconda strofa, in cui l’aria diventa l’interlocutrice diretta del discorso poetico, che si fa più arduo e adotta la scansione più impegnativa dell’endecasillabo, dopo le misure brevi dei primi quattro versi. Il campo metaforico dominante è quello dello straniero, dell’esule: è l’uomo, per cui la vita non è che una «locanda» «lamentosa e vana», un luogo di passaggio dove non può mettere radici, dove chi si «accosta» subito «parte»: forse è questa la «consapevolezza dell’aria» che giunge all’uomo «più tardi della luce», perché è una consapevolezza sgradevole, dolorosa.

La maggior parte delle poesie sull’aria ha però come protagonista il vento, il cui “manifesto” è la lirica 1137.

Dickinson 2Ciascuna delle quattro strofe sviluppa un tema diverso (i DOVERI, i PIACERI, i PARENTI, i LIMITI del vento); il tema è enunciato nel primo verso di ogni strofa con perfetta simmetria strutturale e sintattica, sottolineata anche dalla ripetizione della parola-chiave WIND, vento: ne risulta così un insieme dalla saldissima architettura, rigoroso come un tetraedro. Solo nell’ultima strofe la sintassi ha uno scarto, c’è un anacoluto, la frase rimane sospesa, incompiuta: del resto, come si sarebbe potuto chiudere un discorso sul vento, che per definizione non è circoscrivibile, in una geometria troppo rigida? La lingua della poetessa, evidentemente, “si modella” sul suo oggetto. Dal punto di vista tematico, il denominatore comune delle prime tre quartine è  la libertà d’azione più assoluta, significata da immagini di ampiezza,  distanza e movimento: mare (con il riferimento esotico al mar d’Azof, in Crimea), navi, foreste, asteroidi, uccelli. La Dickinson non esita a mescolare gli “oggetti” più disparati, purché siano tutti concretamente legati all’esperienza sensibile: il lettore deve stare al gioco, accettare gli accostamenti più audaci, zigzagando senza stupirsi da un punto all’altro dell’universo, perché tutto lo scibile e il visibile rientra nella tavolozza di Emily. La sua originalità cognitiva è sbalorditiva, e per leggerla bisogna essere preparati ad affrontarla. Ma la ricompensa è unica, poiché la Dickinson ci insegna a pensare in maniera più sottile e con la consapevolezza delle difficoltà insite nella battaglia contro le risposte convenzionali che ci sono state inculcate.[1]

I compiti che la Dickinson assegna al vento non si esauriscono però in quelli elencati in questi versi, ossia «accompagnare le navi, presentare marzo, scortare i flutti, indicare libertà»: in altre liriche esso assume mansioni più importanti, più alte: recare un «breve sollievo» nella stanza di un morente, «riconoscere la via» sfuggita alla memoria umana, destare nell’anima «una solitaria gioia – come la piena del distacco / restituito all’artica segretezza / dell’invisibile». Tutto speciale è il «pathos» del vento del Sud.

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Grazie alla similitudine con la voce umana, con la voce di un emigrante appena sbarcato, la prospettiva del breve testo si apre su porti e popoli sconosciuti, misteriosi, e affascinanti proprio perché tali: il vento è dunque portatore di lontananza e conoscenza.

La Dickinson sembra però particolarmente affascinata dal vento della tempesta, a cui dedica parecchie poesie.

Dickinson 4

Questa volta il testo non è scandito in strofe, ma il discorso è continuo, senza nemmeno segni di punteggiatura, ad eccezione di qualche lineetta nella prima parte (dopo il 1°, 6°, 8°, 12°, 14° verso), mentre gli ultimi 3 versi, con una virgola e un punto esclamativo, restano come isolati e sbilanciati: la tempesta, che tutto travolge, travolge anche la sintassi e la simmetria della scrittura, ma sfocia (e si placa) in una rivelazione che nell’originale suona:

How much can come
And much can go,
And yet abide the World!

(si vedano i testi inglesi nell’appendice in fondo all’articolo).

In un altro gruppo di poesie, invece, il vento non è l’attore principale, ma semplicemente vi compare come elemento di una similitudine: una volta è l’ebbrezza a essere definita «un vento che ci innalza da terra e ci lascia in un luogo diverso, senza nome»; un’altra volta «timido come il vento» è un «germoglio del cervello / un piccolo seme in corsivo», una parola scritta. L’amore è inspiegabile come il fremito dell’erba scossa dal vento, la bellezza è inafferrabile come «le increspature del prato, quando il vento vi avvolge le sue dita»; la persona amata, che  si allontana da noi, «non soffrirà se noi ci propiziamo le sue distanze – così le foreste toccano il vento / non sperando che le degni di un cenno / ma per adorarlo più da vicino»: in tutti questi testi, il vento introduce una risonanza dinamica, che dilata l’espressione, l’orizzonte e il respiro. Come dice Bloom, leggendo la Dickinson si acquisisce un po’ della sua forza soprannaturale, della sua straordinaria fiducia nell’io[2] – ed è il suo vento, che ce la infonde. Come non pensare, infatti, ad un’identificazione profonda di E. col vento, che proprio la sua ricorrente personificazione confermerebbe? Ne è una riprova la poesia 1418

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La struttura è analoga alla poesia-manifesto del vento. Ciascuna strofe inizia con un verso che attribuisce al vento, in tre diversi momenti della giornata, un sentimento in crescendo – dalla solitudine alla fierezza alla forza: le stesse caratteristiche di Emily…

Ma la cosa più sorprendente sul vento la leggiamo nella lirica 1302: «La radice del vento è l’acqua, credo – non avrebbe una voce così fonda se fosse creatura del cielo … C’è una marittima certezza nell’atmosfera». E – si può aggiungere – c’è una comunicazione profonda, quasi una comunione fra gli elementi, nell’universo della Dickinson! Guidati così da lei, immergiamoci dunque nell’acqua, per lo più rappresentata dal mare, che si carica di molteplici significati metaforici.

Il discorso di Emily sull’acqua comincia con un perentorio: «L’acqua è insegnata dalla sete».

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L’originalità linguistica del testo è data dall’uso passivo del verbo insegnare, riferito all’acqua: ma come si fa a “insegnare l’acqua”? La condensazione espressiva è altissima, al limite dell’errore linguistico, ma non c’è lettore che non capisca il significato della frase e dell’intera lirica, costruita sull’enumerazione di coppie di antitesi: il valore delle “cose” viene rivelato dalla loro mancanza, la vera conoscenza si ottiene dall’assenza, e l’eclisse dell’essenziale è la condizione in cui viviamo, in un perpetuo «regime di sottrazione».

Spetta a molte poesie sull’acqua, in cui ritorna il tema della sete, dar voce a questa «mancanza di tutto che cura della mancanza delle cose minori[3]». Di questo gruppo di liriche la più struggente è dedicata ad una tigre.

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Tre strofe, altrettanti quadri (mi verrebbe quasi da dire “misteri”, come nel rosario, o “stazioni”, come nella via crucis, tanto è ispirata l’atmosfera). Tre anche i protagonisti: la tigre assetata, la poetessa con l’acqua, la morte che viene; l’ambiente è un deserto di sabbia e rocce, appena accennato nella prima strofa. È vero, il destino annunciato nel primo verso si compie nell’ultimo: «una tigre morente … era morta». Ma in questo trionfo della morte avviene qualcosa di decisivo: qualcuno lotta per soccorrere la tigre, cerca, scava nella sabbia; e la tigre muore con quest’immagine negli occhi. Questa poesia non è consolante, anzi, è terribile: ma ci dà almeno la consapevolezza della dignità e della forza necessarie per “vivere senza”. Noi siamo nel deserto del “senza”, inutile illudersi… Siamo tutti tigri morenti di sete, e possiamo soltanto, l’uno per l’altro, cercare un po’ d’acqua, per portarci nella morte l’immagine di una mano che si protende per aiutarci, anche se invano…

In altre liriche, invece, non è l’assenza d’acqua, bensì l’acqua stessa a significare la morte, come un mare o un fiume che ci attende, ci chiama e a poco a poco si richiude su di noi, sommergendoci. Più spesso, però, il mare – ma anche il ruscello, o l’acqua in genere – rinvia all’interiorità dell’io, di cui misura la profondità insondabile, come nella lirica 136: qui la poetessa definisce, tramite l’immagine del ruscello, la sua sorgente interiore di energia vitale per poi esaminare i pericoli che minacciano tale sorgente segreta: la piena dell’eccesso o l’inaridimento.

A conclusione della nostra “navigazione” nelle acque dickinsoniane, dobbiamo constatare che relativamente pochi sono i testi in cui l’acqua compare di sfuggita, solo come secondo termine di una similitudine; ancor meno numerose sono le poesie in cui la poetessa sembra interessata solo allo studio dell’acqua come fenomeno naturale, ma una di queste è fondamentale.

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L’esclamazione d’apertura ci proietta nel mistero della natura, che nessuno può davvero penetrare e di cui l’acqua è qui l’emblema, o come dice la Dickinson «il coperchio di vetro», «il volto dell’abisso». Lo sguardo di Emily, invece, coglie nell’insondabile fondo di una polla il presagio di un mondo totalmente altro rispetto all’umano, la conferma di una irriducibile estraneità tra l’uomo e la natura, che rimane uno spettro indefinibile, al fondo di una ricerca condannata alla frustrazione. Però nel testo compare un altro “personaggio”, oltre alla sorgente: l’erba, una creatura della terra, che pure riesce a guardare l’acqua della sorgente senza sgomento, senza ansia, perché  riesce a vivere anche là «dove le manca il suolo», nella precarietà più assoluta.

 

Se dall’acqua approdiamo a terra, c’imbattiamo subito in un problema preliminare, un problema di traducenti: all’italiano “terra” corrispondono nell’americano di Emily quattro parole EARTH, LAND, GROUND, SOIL – vedremo con quali differenze di significato.

Nel corpus delle poesie dickinsoniane, terra è innanzitutto EARTH, cioè il pianeta Terra, questo mondo, il regno della Vita. Leggiamo insieme la lirica 301.

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Versi brevi, dal ritmo sincopato (in inglese, ovviamente), scanditi da un ritornello di amarissimo sarcasmo: Ma che importa? Quando l’angoscia è insostenibile, la disperazione viene rimossa, l’io si rifugia dietro un “che importa” . E invece va da sé che importa tantissimo, è la questione cruciale dell’esistenza quella che Emily spavaldamente affronta – a nome di tutti noi – in questi versi martellanti, ossessivi, che denunciano la perdita assoluta, senza compenso, affermano il trionfo dell’assurdo della morte, non danno speranza. Potremmo considerare questa la radice di tutta la poesia della Dickinson – e della poesia in generale: è partendo da questa constatazione, da questo bilancio paurosamente in passivo, che l’uomo forte (ed Emily lo è senz’altro) costruisce per sé e per gli altri una difesa, un senso; e lo costruisce con l’arma su cui la morte non ha potere, e che gli appartiene più intimamente: la parola, e segnatamente la parola ‘ricca’, ‘grande’, della poesia. Con le sue poesie sulla Terra, Emily ci insegna che è il diritto di camminare sulla Terra ciò che espande il minimo evento e ingrandisce l’atto più umile, e ci dona la gioia di essere vivi… La tomba è ciò che dà risalto e valore a questa vita, su questa Terra! Ma la poetessa ci insegna anche che tutte le parole, persino quelle più umili e quotidiane possono arricchirci, se è vero che una lettera è una gioia della Terra – che è negata agli dei.

La terra intesa invece come LAND, terraferma, è spesso contrapposta al mare: così la poesia 4 ci parla di un viaggio per mare, il mare del tempo, verso la riva «dove non urlano i marosi / dove non è più tempesta»: l’approdo è l’eternità, annunciata al penultimo verso col grido del marinaio «Terra! Eternità!». La simbologia è rovesciata nella lirica 76: qui – come avviene anche altrove – l’eternità è rappresentata dal mare, e la terraferma è la vita da cui ci si stacca, con esaltazione e stordimento insieme: chi può capire, chi può dire che cosa significa «il primo miglio lontano da terra» per «un’anima cresciuta in terraferma, tra montagne»? La terra è di nuovo una meta, ma elusiva, sfuggente, per i naufraghi della poesia 739, costruita su una similitudine e sull’antitesi pace/disperazione: la disperazione dei naufraghi e della poetessa, stanchi del mare e anelanti ad una terra di pace, ad un porto che invece è mascherato da «rive fittizie».

Nella lirica 681 la terra è invece SOIL, il suolo, il terreno da coltivare: «Un terreno di selce compenserà la mano / che l’ara con fermezza / ed il seme di palma al sole libico / dà frutto nel deserto»: da questa quartina si sprigiona tutta la fermezza, la determinazione di chi, pur contemplando intrepidamente e lucidamente il deserto dell’esistenza, non si arrende ad esso; mentre in un altro gruppo di testi la terra è GROUND, il suolo dove si seppellisce, l’emblema della morte. Ma grazie al gesto del gettare il seme nella terra il morire viene per così dire riscattato e ingentilito, inserito nel ciclo naturale delle stagioni e dei lavori agricoli, e l’incomprensibile metamorfosi della morte, la totale incomunicabilità di essa viene addolcita dalla concretezza, dalla familiarità delle immagini, sicché la poesia può arrivare all’annuncio di un “mistero glorioso” come nella lirica 1669.

Dickinson 10

In italiano è intraducibile la suggestione fonica del testo inglese, cui conferiscono solennità sia gli arcaismi morfologici delle forme verbali e pronominali (thou comest), sia l’accordo fonico delle rime o assonanze in au e in i che dominano rispettivamente la prima e la seconda strofa, sia la ripetizione del primo verso quasi identico in inizio di strofa.  Mi sembra che qui la parola umana tenda all’estremo le proprie possibilità espressive – ed è un limite molto spesso sfiorato dalla Dickinson, oserei dire che è su questo limite che si muove abitualmente la sua parola, la sua lingua, spostandolo ogni volta impercettibilmente un po’ più in là, grazie al fuoco interiore della sua ispirazione.

E siamo così arrivati all’ultimo elemento, polisemico ed emblematico come e più di tutti gli altri: relativamente poche sono le poesie dedicate al fuoco o a suoi “componenti”, come la fiamma o le scintille per intenderci,  ma sono tutte – è il caso di dirlo – poesie incandescenti, anche quando l’incendio oggetto della lirica  non è che lo spettacolo dell’alba o del tramonto, i cui colori abbaglianti non possono essere riprodotti nemmeno dai pittori più valenti nel rosso e nell’oro, come Veronese o Tiziano o Domenichino, ma possono insegnare «più vasti atteggiamenti» allo spirito contemplante, «contagiarlo di maestà», renderlo «inaccessibile all’affanno». Come l’acqua, anche il fuoco è poi un emblema della conoscenza tramite gli opposti.

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Ancora una volta è ribadita la dura legge della privazione, signora dell’universo dickinsoniano.

C’è come un insopprimibile dinamismo, un brulicante fervore, in queste poesie incentrate sul fuoco, come in quella che comincia con la domanda «Osi guardare un’anima al calor bianco?»  e continua parlando di forge e di officine in cui fiamma e martello raffinano il ferro impaziente, fino a ricavarne pura luce senza colore. È una grandiosa metonimia, grazie a cui il mestiere e gli strumenti del fabbro sono piegati ad indicare un arduo cammino spirituale che tempra l’anima fino a portarla alla massima tensione, che coincide con l’annientamento e la morte.

Il fuoco non è però mai visto come simbolo distruttivo: «il fuoco esiste come luce», dichiara Emily, e se le ceneri simboleggiano la morte, bisogna onorarle non perché spente, ma per amore della creatura «che vi aleggiò brevemente», ricordare cioè che «denotano il fuoco», l’energia della vita, e sono semplicemente in attesa di un risveglio, perché la vita è immortale. Un altro valore simbolico legato al fuoco è quello della durata, dell’indistruttibile. A questo tema si collega, ovviamente, la fede nella poesia, che è solo una scintilla, ma pari al sole per potenza di irraggiamento.

Dickinson 12

 – e mi sembra giusto non aggiungere altre parole a queste, così umili, così sublimi.

 


[1] H. BLOOM, Come si legge un libro e perché, Rizzoli, Milano 2000, p.111

[2] H. BLOOM, op. cit., p.114

[3] N. FUSINI, Emily Dickinson, l’ellissi, in ID., Nomi, Donzelli, Roma 1996, p.39

APPENDICE

1060

Air has no Residence, no Neighbor,
No Ear, no Door,
No Apprehension of Another
Oh, Happy Air!

Etherial Guest at e’en an Outcast’s Pillow -
Essential Host, in Life’s faint, wailing Inn,
Later than Light thy Consciousness accost Me
Till it depart, persuading Mine –

1137

The duties of the Wind are few -
To cast the ships, at Sea,
Establish March, the Floods escort,
And usher Liberty.

The pleasures of the Wind are broad,
To dwell Extent among,
Remain, or wander,
Speculate, or Forests entertain -

The kinsmen of the Wind are Peaks
Azof – the Equinox,
Also with Bird and Asteroid
A bowing intercourse -

The limitations of the Wind
Do he exist, or die,
Too wise he seems for Wakelessness,
However, know not I –

719

A South Wind – has a pathos
Of individual Voice -
As One detect on Landings
An Emigrant’s address -

A Hint of Ports – and Peoples -
And much not understood -
The fairer – for the farness -
And for the foreignhood –

1593

There came a Wind like a Bugle -
It quivered through the Grass
And a Green Chill upon the Heat
So ominous did pass
We barred the Windows and the Doors
As from an Emerald Ghost -
The Doom’s electric Moccasin
That very instant passed -
On a strange Mob of panting Trees
And Fences fled away
And Rivers where the Houses ran
Those looked that lived – that Day -
The Bell within the steeple wild
The flying tidings told -
How much can come
And much can go,
And yet abide the World!

1418

How lonesome the Wind must feel Nights -
When People have put out the Lights
And everything that has an Inn
Closes the shutter and goes in -
How pompous the Wind must feel Noons
Stepping to incorporeal Tunes
Correcting errors of the sky
And clarifying scenery
How mighty the Wind must feel Morns
Encamping on a thousand Dawns -
Espousing each and spurning all
Then soaring to his Temple Tall -

135

Water, is taught by thirst.
Land – by the oceans passed.
Transport – by throe -
Peace – by it’s battles told -
Love, by memorial mold -
Birds, by the snow.

566

A Dying Tiger – moaned for Drink -
I hunted all the Sand -
I caught the Dripping of a Rock
And bore it in my Hand -

His Mighty Balls – in death were thick -
But searching – I could see
A Vision on the Retina
Of Water – and of me -

‘Twas not my blame – who sped too slow -
‘Twas not his blame – who died
While I was reaching him -
But ’twas – the fact that He was dead -

1400

What mystery pervades a well!
That water lives so far -
A neighbor from another world
Residing in a jar

Whose limit none have ever seen,
But just his lid of glass -
Like looking every time you please
In an abyss’s face!

The grass does not appear afraid,
I often wonder he
Can stand so close and look so bold
At what is awe to me.

Related somehow they may be,
The sedge stands next the sea
Where he is floorless
And does no timidity betray -

But nature is a stranger yet;
The ones that cite her most
Have never passed her haunted house,
Nor simplified her ghost.

To pity those that know her not
Is helped by the regret
That those who know her, know her less
The nearer her they get.

301

I reason, Earth is short -
And Anguish – absolute -
And many hurt,
But, what of that?

I reason, we could die -
The best Vitality
Cannot excel Decay,
But, what of that?

I reason, that in Heaven -
Somehow, it will be even -
Some new Equation, given -
But, what of that?

1669

In snow thou comest
Thou shalt go with the resuming ground
The sweet derision of the crow
And Glee’s advancing sound

In fear thou comest
Thou shalt go at such a gait of joy
That man anew embark to live
Upon the depth of thee -

689

The Zeroes taught Us – Phosphorus -
We learned to like the Fire
By handling Glaciers – when a Boy -
And Tinder – guessed – by power

Of Opposite – to equal Ought -
Eclipses – Suns – imply -
Paralysis – our Primer dumb
Unto Vitality -

883

The Poets light but Lamps -
Themselves – go out -
The Wicks they stimulate -
If vital Light

Inhere as do the Suns -
Each Age a Lens
Disseminating their
Circumference -

(originariamente pubblicato il 18/10/2014)