MANUELA ZANOTTI.
Michele si appoggiò al parapetto della passerella. Fu preso dalla stanchezza. Stava tornando dall’ufficio Comunale per gli alloggi popolari, ma altri gli erano passati davanti. Si accese una sigaretta, per riflettere su come trascorrere la seconda notte da senzatetto. La precedente l’aveva passata in auto.
Aveva lasciato l’appartamento di Via Torino il giorno prima, stivando i suoi effetti personali sulla vecchia Polo station wagon. Aveva parcheggiato l’auto in un angolo appartato vicino alla scuola e dopo aver ascoltato alcune vecchie “cassette” dei bei tempi passati, si era sistemato con il sacco a pelo in un angolo del pianale lasciato libero dagli scatoloni. Non era stata una brutta esperienza, con quei vecchi brani che gli avevano ricordato i bei tempi del Liceo, quando i sogni erano ancora tanti.
Ma ora, l’idea di trascorrere in quella maniera una seconda notte non gli sorrideva più, anche perché la pioggia si stava condensando in neve.
Aveva freddo, ma non si sentiva di andare in un bar: in quella notte da senza-casa qualcosa era cambiato, come se solo ora si fosse accorto veramente cosa volesse dire scendere la scala sociale e non di un solo gradino!
La pioggia si era decisamente trasformata in neve ed andava a posarsi sui cumuli sporchi della nevicata precedente, tra i ritagli di marmo di una vecchia segheria. Antichi muri contorti che per secoli avevano gettato le loro fondamenta tra i massi scivolosi del torrente, ora restavano lì, dimenticati, corrosi dagli anni e dalle piene, come i sudori delle generazioni passate a sostenere un mondo nuovo ed ormai irriconoscibile.
Ma pure Michele, a quarantotto anni, faceva fatica a riconoscere la città in cui era nato e cresciuto. Una cittadina non grande, come si dice, a misura d’uomo, anzi, di bicicletta, la vecchia bici da cross, allungata fino al massimo, con la cartolina a dare il brivido del motore. Una città in tasca, a portata di mano, amica perché vi abitavano tanti amici. Li ricordava tutti quei vecchi compagni di scuola, di oratorio e vicini di casa, e spesso li incontrava, ma , ormai, era solo più un rapido cenno di saluto, poi ognuno tirava dritto per la propria strada, con la solita espressione di chi è immerso in pensieri non proprio allegri. E poi il freddo, la neve, un cielo senza un accenno di sorriso, come la gente.
Respirando il rigido alito che risaliva dal fiume e rabbrividendo negli abiti umidi e non cambiati da due giorni si diresse verso la macchina; un plaid copriva tutti i suoi averi. Raggiunse le scuole e parcheggiò nello stesso posto del giorno prima, che non fosse troppo in vista agli studenti.
In classe, come sempre, tutti erano intenti a digitare sui cellulari. Passavano sempre dieci minuti prima che gli studenti si accorgessero del suo arrivo, ed iniziasse l’appello. Stavolta, però, al suo arrivo, la classe era ammutolita ed ora era schierata come un plotone d’esecuzione: facce fredde, strafottenti. Parevano quasi dei cloni, anche se non erano di certo uguali, ma uniformi sì, nei loro abiti scuri di taglio sportivo, e costosi. Quella era una classe di figli di papà o di presunti tali.
Il professor Michele F., separato dopo una lunga vicenda giudiziaria, con una figlia in comunità, sfrattato in attesa di un appartamento popolare, quel giorno non avrebbe voluto essere lì: era come se il branco conoscesse tutti i suoi guai ed attendesse solo la caduta definitiva. Predatori che facevano piazza pulita delle bestie deboli e ferite. Così avevano fatto con Samira, la straniera poi con Nicola il ‘finocchio’…ed ora era lui la vittima di turno, anche se sedeva alla cattedra. Ma ai loro occhi era solo un fallito, uno che arrivava a scuola con una macchina da rottamare, aveva scarpe che avrebbero avuto bisogno di una risolatura e un cappotto da far concorrenza al Tenente Colombo.
Ma stavolta non sarebbe stato così!
Finite le due ore, con il suo incedere gobbo andò a rintanarsi nel suo rifugio. La neve aveva formato una sorta di capanna nella quale la vecchia Polo sembrava sonnecchiare, fedele, in attesa del suo padrone. Scostò con una mano illividita dal gelo un po’ di neve dalla portiera e si mise dentro, al posto di guida, appoggiando la testa sul volante. Ma ora il freddo e la nuova notte da affrontare non erano più un problema. Aveva un appuntamento con Franco, il capobranco. Era certo che sarebbe venuto perché già l’aveva scorto aggirarsi più volte attorno alla macchina e prenderla a calci in segno di dispregio. Franco sarebbe arrivato, e non da solo. Era solo questione di tempo!
Gli occhi abituati all’oscurità ed aiutati dalla fosforescenza delle neve lo misero infatti in guardia: eccoli! Tutto come immaginato: Franco davanti e tutto il branco dietro. Aveva in mano una tanica di benzina e nell’altra un accendino: così si faceva con i senzatetto!
Michele fingeva di dormire; aspettò solo che Franco fosse accanto all’auto per versare il liquido infiammabile, poi, all’improvviso, avviò il motore con la marcia innestata: la vecchia Polo, come una tartaruga impazzita, dal suo bozzolo di neve piombò all’improvviso sul nero branco dei lupi.
Michele si consegnò spontaneamente ai Carabinieri, ancora inebetito dai lampeggianti azzurri che illuminavano la neve che scendeva nel parcheggio della scuola. Quella sera per lui si aprirono le porte del Cerialdo. La cella era un po’ umida, ma abbastanza ben riscaldata e sul letto c’erano tre coperte di lana. Fuori, oltre le sbarre, continuava a nevicare.
(Questo racconto della nostra collaboratrice, pubblicato su L’tò Almanach di Primalpe, anno 2014, ha vinto il secondo premio nella sezione Prosa Italiana)
Un altro racconto di Manuela Zanotti si può leggere qui