L’incredibile storia del profeta Mansur

8le ali del monaco

Ottava puntata Le ali del monaco

FRANCESCO PICCO

La grande sala affrescata non era più luminosa come prima. Improvvisa su Solovetsk era scesa la sera. La stanca sera nordica, polare, striata di rosso. Le alte finestre semichiuse però setacciavano quel colore rosso, trattenendolo; e lasciavano passare solo le ombre. Le ombre, non il colore bello, sono l’unica cosa dovuta ai monaci – quando scende la sera a Solovetsk. E ai monaci non è consentita la vanità di guardarsi allo specchio. Se no, anche in quella penombra così ansiosa di diventare oscurità, Viktor ne avrebbe cercato uno. E avrebbe voluto vedersi dopo la metamorfosi: come un bruco diventato d’improvviso farfalla, che ancora non si capaciti di aver le ali e poter volare.

Era la prima metafora che gli era venuta in mente dopo il proprio cambio di abito. Ma non era tanto sicuro che fosse adatta. La vita da larva, o da bruco, era stata la vita di un giovane medico piemontese all’estero: scapolo, libero, aristocratico, con un valletto russo quasi amico costantemente al proprio servizio. La nuova vita – quella da farfalla – era appena iniziata con ben diversi contorni: da scapolo era diventato frate, da medico ancora frate, da piemontese si era finto armeno, ed era lui adesso al servizio di un altro.

Il vecchio frate infatti era diventato il suo padrone – se  un frate può essere considerato padrone di un confratello. Comunque la finzione messa in atto con Sergej, nata come stratagemma, era diventata cosa stabile e lo sarebbe rimasta finché le acque non si fossero calmate: Viktor aveva solo finto di essere il servo di Sergej per incontrare il monaco, ma ora era davvero divenuto un servo, sia pure un servo ecclesiastico. Sarebbe stato l’assistente del vecchio monaco taumaturgo, che intanto gli aveva rivelato il proprio nome: padre Hovan.

Questo è il mio nome armeno, quello con cui tutti mi chiamano qui dentro. È la traduzione di Giovanni. E sarà il nome con cui mi chiamerai anche tu quando scriverai il mio nome.

Scriverò?

Scriverai, sì. In armeno, come ti insegnerò io. Perché tu sei muto, lo sai?

No, anche se credo di essere in un guaio che non capisco. Sergej dov’è?

Il vecchio glielo spiegò. Sergej era morto, orrendamente sventrato dai sicari che lo avevano scambiato per il padrone. Se lui, Viktor, era vivo lo doveva solo ai suoi abiti stracciati da servo. Erano quelli che, pur lasciandolo mezzo nudo e privo di protezione, lo avevano in realtà protetto dalle lame del governo più di quanto avrebbe potuto fare una corazza di bronzo.

E ora, se resterai vivo, lo dovrai a questi altri abiti. A questo vestito da frate. E al fatto di essere muto.

Ma io sto parlando. E sto parlando piemontese: come voi, padre Hovan. E la cosa mi fa proprio gioia, anche se trovo tutto molto strano. E ho paura. Perché hanno ammazzato Viktor? Cosa c’entrano le lame del governo?

Il vecchio scosse la testa. Non hai abbastanza paura per stare zitto? No? Allora ricordati due regole: con me non parli mai russo, mai francese, mai toscano. L’armeno non lo sai e non lo puoi parlare. Non parli proprio. Parli piemontese quando siamo soli. In tutti gli altri casi stai zitto e sei muto. Hai capito?

Sì, ma adesso siamo soli e…

Non per molto, ribatté padre Hovan suonando il campanello che già una volta aveva posto fine alla loro conversazione. Viktor ammutolì davvero, sopraffatto dalla paura. Poi, nell’attesa, vide che gli occhi del vecchio monaco lo scrutavano con simpatia e, incurante dei rischi, sorrise. Il monaco sorrise a sua volta; e Viktor pensò che dopo tutto questo era anche meglio che parlar russo, francese, italiano. E perfino piemontese.

(Continua)

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Illustrazione di Franco Blandino